Capri, la peste ed i certosini
Nel 1656, una grave epidemia di peste aveva decimato la popolazione della città di Napoli. Il contagio era arrivato dalle truppe spagnole sbarcate nella città partenopea, il morbo provocò circa 240000 decessi con punte di ottomila morti al giorno, una vera ecatombe. L’isola di Capri era inizialmente scampata al contagio, ma ora vogliamo narrarvi l’episodio che, secondo la leggenda, consentì alla pestilenza di approdare sull’isola. Il racconto necessita di un antefatto, il nostro protagonista, Roberto Brancaccio, era stato un capitano del popolo durante la rivolta di Masaniello del 1647, egli in quegli anni si era innamorato di una giovane nobildonna napoletana di nome Giulia Morcalda. Gli spagnoli in pochi giorni sedarono la rivolta, ed al termine dei tumulti molti rivoltosi furono uccisi, mentre il giovane capitano Brancaccio invece ebbe salva la vita, ma fu confinato sull’isola di Capri. La storia d’amore tra i due giovani continuò nonostante la lontananza, gli amanti proseguirono la relazione con un fitto rapporto epistolare. Poi in seguito alla terribile epidemia, la povera Giulia fu contagiata ed in punto di morte il 19 maggio 1656, in preda alla febbre alta delirava ripetendo un solo nome: Roberto.
Giulia implorò padre Giovanni, il francescano che la assisteva, di far giungere al fidanzato Roberto un sacchetto di seta nero contenente una treccia dei suoi capelli neri, ed un anello con inciso il nome Giulia. Le ultime volontà della moribonda furono raccolte dal frate, che decise di esaudirle. Egli imbarcatosi su di un battello si recò a Capri, dove all’approdo riuscì a consegnare il fagotto ad una persona che si impegnò di farlo recapitare al destinatario. Roberto Brancaccio, ricevuto il pacco scorse il contenuto accompagnato da un biglietto che diceva: “Questi sono i capelli di Giulia Morcalda, morta di peste in Napoli il 19 maggio 1656”, dopo questo episodio il contagio devastò l’isola. I capresi, acclarato il fatto perseguitarono Brancaccio che fu costretto a rifugiarsi nella certosa di San Giacomo, dove si narra abbia vestito l’abito monastico. L’epidemia di peste uccise trecentocinquanta abitanti su settecentocinquantacinque, una vera carneficina.
I monaci certosini rimasero immuni, poiché avevano una notevole autonomia idrica ed alimentare nella loro cittadella monastica, essi furono accusati dalla popolazione di non intervenire in soccorso dei sofferenti. Si narra che il popolo inferocito arrivò addirittura a gettare all’interno delle mura del convento, alcuni cadaveri di appestati forse anche per vendicarsi verso coloro che avevano dato ospitalità a Brancaccio. Gli episodi che vi abbiamo narrato, oscillano tra realtà e leggenda ma il dato di fatto e che passata la peste, i certosini ricevettero molti lasciti fatti dai nobili capresi morti durante l’epidemia, acquisendo inoltre numerosi possedimenti terrieri abbandonati. Grazie a queste nuove risorse la Certosa di San Giacomo fu ampliata e restaurata.
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