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“La preghiera” di A. Guillerand XVII° capitolo

La Preghiera

Dinanzi a Dio

di Dom Augustine Guillerand

CAPITOLO XVII

Quando conviene pregare?

La preghiera si colloca in ogni momento del tempo; è il respiro dell’anima; bisogna pregare senza sosta così come si respira incessantemente.

Ma questo è il movimento profondo dell’anima di cui si ha appena coscienza. Prenderne coscienza il più possibile è un tesoro. Vivere nella coscienza attuale di questo movimento, di Colui che ne è il Principio e il Termine, è la grazia delle grazie; il cielo in terra.

Ma su questo movimento profondo, la cui continuità non è purtroppo percepita che da un piccolissimo numero di persone, debbono inserirsi delle preghiere speciali, più coscienti e più volute. Sono queste che noi chiamiamo più propriamente ” preghiere “, e che richiedono delle ore determinate. La determinazione per i preti e i religiosi è così precisa che queste preghiere si chiamano ” ore “, cioè delle preghiere legate a certe ore del giorno e della notte. Esse sono fissate in modo tale che il corso delle giornate ne viene impregnato. La loro recita rivolge verso Dio il nostro spirito fragile, che la distrazione distoglie incessantemente. Nel momento nel quale il pensiero potrebbe essere ripreso dal movimento superficiale delle cose, l’Ufficio arriva, lo strappa alla vanità che lo allettava e lo rituffa in Dio.

Il semplice cristiano non è sostenuto da questo vincolo preciso. La preghiera regolare, che riempie la giornata per canalizzarla verso Dio, non costituisce per lui il dovere, il lavoro quotidiano. Ma ciò che egli non è obbligato a fare per dovere, può farlo per amore, per un amore che è sostenuto da un interesse comprensibile. Ma anche per lui vi sono delle ore in cui è conveniente che si rivolga verso Dio e riprenda il divino contatto. ” Al mattino – diceva già tremila anni fa il Salmista – io mi metterò alla tua presenza e tu mi donerai di vederti” (Sal 5,45). E, circa nello stesso tempo, un’altra grande anima esclamava: ” Fin dal mattino mi sveglierò per cercarti” (Is 26,9), come se per essa non vi fosse più stato altro risveglio che quello, e come se il tempo in cui essa non era orientata verso Dio altro non fosse che notte e letargo. Ed ecco ancora quest’altra parola dell’Ecclesiastico, più distesa, meno nervosa, che si spande come una rugiada: ” Il giusto all’aurora eleva la sua anima al Signore affinché essa vigili davanti a Lui che l’ha fatta (e che la rifà incessantemente con le sue divine comunicazioni), e la sua preghiera sale fino alla presenza dell’Altissimo ” (Sir 39,5).

La notte rifà: è il senso stesso della parola ” riposo “. La notte dà riposo se si lascia completamente tutto ciò che è stato causa di agitazione durante il giorno: se infatti il sogno persegue ancora gli oggetti che ci attraggono durante la giornata, il sonno ci affatica anziché riposarci. La notte è come una creazione nuova; essa dà elasticità alle membra, agilità allo spirito, freschezza all’anima, rinnovamento a tutto l’essere. Perché, in definitiva? Poiché al posto di correre fuori di noi stessi, trascinati dal mondo esteriore col quale la luce del giorno ci mette in contatto, noi ci ripieghiamo verso l’Essere che ci comunica dal di dentro tutto ciò che noi siamo. Non ci si riposa che in Lui, poiché Egli è il Principio dal quale partono le nostre attività.

Ma queste ore di distensione sono delle ore d’incoscienza. Questo contatto profondo e riparatore con la Sorgente noi non lo viviamo. Si produce nella parte inferiore.

L’anima non lo percepisce. Essa lo vuole, lo realizza; ma non lo sente. Essa non presenta, in tali ore, a Colui che resta il suo tutto gli omaggi di tutto l’essere umano che essa informa. Vi è come un arresto nei nostri divini rapporti: poiché l’anima – bisogna riconoscerlo -, malgrado il primo posto che occupa, non basta per se stessa a costituirci.

Al mattino, quando il corpo si sveglia, quando l’anima riprende coscienza di questa vita umana completa che essa esercita nel corpo, quando ridiviene attraverso il corpo l’intermediaria e l’interprete del mondo creato, l’anima ha il bisogno di rinnovare il contatto con il Creatore. Ecco la ragione dei Salmi delle Lodi e degli inviti a tutta la terra perché riprenda l’inno interrotto: ” Testimoniate, cantate, lodate, benedite, uscite in grida di giubilo “, dice l’anima a tutti questi esseri che ritrova; tali esseri sono delle rappresentazioni di Colui che essa ama; e glielo esprimono; da tutti una voce si eleva: ” Noi siamo perché Egli è; noi siamo perché Egli ci dona di essere e siamo ciò che Egli ci dona di essere “. Tale voce, nella notte, aveva continuato il suo inno, l’anima aveva proseguito il suo canto, ma il corpo, che univa l’anima a questi esseri e le trasmetteva queste armonie, non adempiva più il suo ruolo di intermediario. Al primo risveglio, queste armonie bussano a grandi colpi calmi alla porta dei sensi; l’anima le intende di nuovo e il grande cantico – se l’uomo sta al suo posto – ricomincia. Quanti uomini stanno al loro posto, hanno coscienza del loro ruolo, l’eseguono con amore! Quanti, dopo essersi riposati, si alzano rifatti, si mettono in comunione con l’immensa fonte di energie che Dio offre loro! Energie fisiche di luce rinnovata e così ricca di risorse anche corporali; energie dell’aria rinfrescata, purificata; energie della vegetazione che l’ha rinnovata asportandone tutte le ” tossine ” che la respirazione animale aveva accumulato. Energie spirituali soprattutto! Il linguaggio della creazione è come ringiovanito, tutto si anima, sorride, parla, invita, domanda dei rapporti, vuol essere guardato, compreso, interpretato. Si produce, tra questo mondo rifatto e l’uomo riposato, un’armonia, un accordo perfetto che diviene una pienezza se lo si unisce alla Sorgente donde procede. La preghiera fa questa unione. Essa completa il riposo; prelude e prepara l’uomo al movimento del giorno. L’umanità si strugge di non essere più in grado di comprenderlo.

Rituffato così in questo grande Tutto, fatto da Colui che è, e da tutti gli esseri ai quali Egli si è comunicato, l’uomo può riprendere il suo lavoro. L’uomo non è solo per compierlo, poiché si appoggia a Colui che è, e attinge in Lui luce e forza. Al di là di ciò che fa, vede Colui per il quale e grazie al quale lo fa; si unisce a Lui. Ogni atto prende un andamento immenso, sorpassa la breve ora nella quale si compie e va ad iscriversi nella durata eterna. Un giorno non è più un giorno, ma una preparazione; è già quasi una partecipazione all’eternità.

Su queste altezze l’uomo può affrontare le difficoltà della vita passeggera; non è abbattuto dalla prova; non è spaventato dalla tentazione. Quando la prova e la tentazione si presentano, l’uomo rinnova con un volo d’anima, con un colpo d’ala rapido, la sua salita in Dio, il contatto con la Sorgente di vita, e vi fa fronte.

Ma per avere tali effetti, la preghiera deve essere veramente preghiera, elevazione, ascensione verso Dio, distacco dal creato, dall’umano. Bisogna liberarsi di ciò che sta in basso. La semplice recitazione meccanica non basta; la distrazione seguita volontariamente paralizza; le occupazioni ricercate sono un ostacolo. Non si fanno parti con Dio. Nulla Gli si dà se non Gli si dona tutta l’attenzione di cui si è capaci. Quanti lavori, quanti affanni, quante preoccupazioni vane alle quali diamo un’importanza eccessiva e da cui non sappiamo allontanare il pensiero nelle nostre preghiere! Noi crediamo di cercarvi unicamente il regno di Dio e la sua gloria… e ricerchiamo noi stessi. Tutte queste cose hanno per principio la natura e non lo Spirito Santo. E il demonio è lì per dirci la loro utilità estrema, ci eccita, ci aiuta, compie questo lavoro con noi, poiché tutte queste cose fanno allontanare l’unione divina e il dolce contatto del cuore.

Un Padre del deserto scava una roccia resistente; in ciò pone tutto il suo cuore e tutte le sue forze; a causa di ciò dimentica la preghiera, perde la pace dell’anima; tale lavoro lo assorbe, è tutto per lui. Un anziano lo guarda in questo accanimento appassionato; al suo fianco, e che scava con lui, l’anziano vede un demonio che lo eccita; delle fiamme si innalzano dalla sua figura agitata e nera, che sembrano passare nel povero frate travolto e, così, moltiplicare il suo ardore. Infine il povero frate si arresta, all’estremo delle forze; l’anziano gli si avvicina: ” Cosa stai facendo, mio caro fratello? “. ” Noi abbiamo lavorato duro contro questa roccia che è di una resistenza incredibile “. ” Noi abbiamo lavorato, dici. E disgraziatamente è proprio giusto; poiché tu non eri solo. Un altro era lì che scavava con te, senza essere da te visto “.

Per l’anima pacificata e libera, che custodisce il proprio cuore distaccato e lo rivolge verso Dio, ogni occupazione è preghiera. Per l’anima che si dà tutta ai suoi lavori e così dimentica Dio, la preghiera stessa è sterile e il tempo a essa dedicato è tempo perduto

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“La Chartreuse”: una “manna dal cielo”per i certosini

“La Chartreuse”

una “manna dal cielo” per i certosini

La storia di questo famoso liquore, ha origine lontane e misteriose. Essa difatti risale al giorno 16 maggio 1605, quando il maresciallo di artiglieria, François-Hannibal d’Estrées, Marchese di Coeuvres, fratello della bella Gabrielle, amante del re Enrico IV, bussa al portone della certosa di Parigi. Egli reca con se un antico manoscritto di un alchimista, e decide di farne dono ai monaci certosini di Vauvert, per la loro nota e specifica conoscenza  dell’arte galenica. Su di esso vi è la ricetta per la realizzazione di un “Elisir di lunga vita”, il maresciallo ignora le origini di tale documento però ritiene i monaci certosini, degli eccellenti conoscitori delle piante medicinali ed i soli in grado di poterle lavorare. Nonostante l’impegno dei valenti certosini addetti alla spezieria, la complessità della ricetta fu tale che, bisognerà attendere molti anni prima che essa si possa realizzare. Lo studio accurato, l’esatta composizione ed il successivo sviluppo sono da attribuire al monaco speziale, della Grande Chartreuse, il Fratello converso Jérôme  Maubec, il quale nel 1737, nella spezieria del convento, riesce a concepire la formula per poter produrre il prezioso elisir. Da quel momento nasce il cosiddetto Elixir Végétal”, quello che ancora oggi viene prodotto con il nome di “Elisir vegetale della Grande-Chartreuse”, composto ottenuto dall’infusione in alcol di 130 varietà di erbe medicinali ed aromatiche, esso ha il grado alcolico di 71°. La produzione non ebbe una vasta diffusione, eccezion fatta che nei luoghi limitrofi alla certosa, raggiunti stoicamente dal converso Charles, che a dorso di un mulo provò a distribuirlo, come sostanza medicamentosa. Nel 1764, viene poi creata la “Chartreuse Verte”, un liquore la cui colorazione verde (clorofilla) è determinata unicamente dalle erbe in essa contenute, il suo grado alcolico è di 55°, esso fu definito il “Liquore della salute”, in quell’epoca il suo successo fu notevole ma sempre limitato alla regione del Delfinato. Successivamente, in seguito alla Rivoluzione Francese (1789), i monaci certosini furono espulsi dalla Grande Chartreuse, nell’ottobre del 1792. All’interno di essa vi rimase un solo monaco, Padre Basilio, cui venne affidata la ricetta originale che custodì gelosamente, fino a quando venne arrestato, poi,  rocambolescamente, riuscì a passarla ad un suo confratello, il quale disorientato al pensiero che l’Ordine non si sarebbe mai più ricostituito, la cedette nel 1793 a monsieur Liotard, un farmacista di Grenoble. Alcuni anni dopo, nel 1810 Napoleone sancì che tutti i cosiddetti «rimedi segreti» dovevano essere consegnati al Ministero degli Interni per essere esaminati. Il farmacista Liotard, eseguì scrupolosamente inviando la ricetta dell’elisir in suo possesso, che venne però rispedita al mittente con il timbro «rifiutato». La Provvidenza, ancora una volta non permise che la preziosa formula fosse manomessa o andasse persa, operando prodigiosamente!!!

Difatti, alla morte del farmacista Grenoble, la preziosa ricetta venne fatta recapitare ai monaci della Grande Chartreuse che vi avevano fatto ritorno nel 1816. Fu così che i certosini ricominciarono a distillare nuovamente, e nel 1838 dettero vita alla “Chartreuse Jaune”, “la Regina dei liquori” colorato  di giallo con lo zafferano, prodotto con le stesse erbe ma con diverse proporzioni, dal gusto leggermente più dolce e meno alcolico con i suoi 40°. Fu così che nel XIX° secolo i liquori certosini ebbero una larga diffusione ed un grande successo commerciale, la loro fama gli permise di essere definito “il più grande liquore del mondo”. La tormentata storia dell’Ordine certosino però, incise fortemente sulla successiva produzione di tali liquori, difatti i monaci in base a leggi anticlericali, furono nuovamente espulsi dalla Francia. Il 29 aprile del 1903, il governo francese dissolse l’ordine ed espropriò la Grande Chartreuse, ma cionostante i monaci riuscirono a Tarragona, in Spagna, ad impiantare una distilleria per proseguire la produzione della “Chartreuse”, chiamandola “Tarragona”. In Francia, contestualmente lo Stato vendette il marchio di fabbrica dei monaci ad un liquorificio privato, la Compagnie Fermière de la Grande Chartreuse, che ignorandone la precisa ricetta produsse e vendette con scarso successo un liquore similare, un imitazione, fino al fallimento avvenuto nel 1929.

Non avendo più la licenza del marchio, i certosini dal 1921 al 1929, a Marsiglia furono costretti a distribuire la “Chartreuse” ivi prodotta, con il nome di “Tarragona”. Nel 1929, i certosini finalmente riacquistarono il diritto di poter usare il nome Chartreuse, e ritornarono a distillare a Fourvoire, nei pressi della Grande Chartreuse. Nel 1935, poi una disastrosa frana distrusse questa distilleria, che fu trasferita a Voiron a 25 chilometri dal monastero. Oggi le cantine di Voiron (visitabili) sono le più grandi del mondo, ed ogni anno producono oltre un milione di bottiglie di Chartreuse. La sua ricetta è ancor oggi segreta perché solo due Padri certosini ne conoscono la formula esatta, ed ognuno di loro ne conosce una sola parte, poi ogni 20 o 30 anni un monaco viene iniziato e diventa loro assistente, per poterla tramandare!!! I monaci selezionano sapientemente le erbe all’interno del monastero e poi le inviano alla distilleria laddove inizia la distillazione in sette alambicchi centenari di rame stagnato. Sono sempre loro, che controllano la lenta maturazione del liquore, invecchiato in fusti di rovere almeno tre anni, e decidono quando il liquore è pronto per essere imbottigliato. Da più di quattrocento anni ormai, continua come abbiamo visto non senza infinite traversie, la produzione dell’”elisir di lunga vita” e dei suoi derivati, tratti da quel misterioso manoscritto di provenienza misteriosa, ma che ha significato per l’Ordine certosino una notevole fonte di sostentamento, una vera manna dal cielo!!!


“La preghiera” di A. Guillerand XVI° capitolo

La Preghiera

Dinanzi a Dio

di Dom Augustine Guillerand

CAPITOLO XVI

Gli effetti della preghiera

E’ questo un soggetto sul quale è difficile scrivere poiché è troppo vasto, e d’altra parte io non posso non parlarne, in quanto esso è troppo collegato alla gloria di Dio. Ciò che la preghiera ha ottenuto riempie la storia. Tutti i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono stati dei grandi uomini di preghiera. La loro vita era un continuo colloquio con Dio, che si mescolava a ogni loro atto; domandavano soccorso a Dio in ogni bisogno, ” e Dio – come essi stessi ripetono ininterrottamente – li ha esauditi “. Il movimento delle loro anime verso il Signore, o per ottenere qualche grazia, o per ringraziare della grazia ricevuta, o per implorare il perdono delle loro colpe, o per cantare la grandezza di questo Maestro dei maestri, così vicino a loro e così preoccupato per il loro bene: ecco, più o meno, il tema unico – o almeno essenziale – della Bibbia. Nei Salmi questo tema riempie tutte le pagine, tutti i versetti, tutte le parole; è una linfa d’una ricchezza inaudita e che scorre a pieni fiotti: linfa di vita, di vera vita, semplice, potente e così espressiva di ciò che vi è di più profondo in noi; parole che noi possiamo ripetere senza fine – come tutte le parole d’amore – poiché non si consumano mai e hanno veramente una giovinezza e una freschezza eterne; esse si rinnovano e si rivestono di una dolcezza e di uno splendore che le ripetizioni ingrandiscono.

Ascoltando la voce dei suoi amici che glielo domandano, il buon Dio sovverte a ogni istante l’ordine che ha stabilito. Quest’ordine è bello; le perfezioni divine vi si riflettono in tratti che noi intravediamo appena e che non ci stanchiamo di ammirare … ! Io non so imbarcarmi nell’articolazione di una disquisizione che non saprei più arrestare. Io copio, a caso, questo riassunto ridicolmente insufficiente: ” Le sorgenti sgorgano dalle rupi nel deserto, le acque del mare o dei fiumi si aprono per consentire il passaggio a tutto il popolo, le mura delle città crollano, i nemici sono messi in fuga, un alimento cade dal cielo ogni giorno, i malati sono guariti, gli infermi recuperano l’uso delle membra, persino i morti risorgono; anime inaridite sono toccate dalla grazia, le intelligenze sono sovraelevate e vedono aprirsi dinanzi a loro delle prospettive di luce, per le quali pare che esse entrino nella verità di Dio; le volontà sono rinvigorite e comandano subito le passioni fino ad allora sovrane; il divino Amore si fa così vicino ai cuori che sembra consumarli e trasformarli in Lui “.

Tutti questi effetti… e tanti altri più meravigliosi, che le chiarezze sole dell’aldilà possono rivelare ai nostri sguardi abbagliati: ecco ciò che può, ciò che ottiene, ciò che fa a ogni istante la preghiera.

Ma ancora una volta debbo tacere. Quando si ragiona su queste questioni, si trovano ancora delle parole e delle frasi per tradurre questo movimento dei nostri spiriti attorno alle cose di Dio. Ma quando si tratta di esporre la sua azione nel mondo (soprattutto nel mondo delle anime), il linguaggio umano è veramente troppo inferiore alla realtà. Bisogna abbandonarlo… o ritornare alla semplicità eterna delle narrazioni che lo Spirito Santo ha fatto Lui stesso nella Bibbia.

“Il silenzio del deserto”

“Il silenzio del deserto”

Oggi voglio segnalarvi, una interessante mostra fotografica che ha come oggetto 60 immagini tratte dalla vita certosina.

La mostra di cui vi parlerò fa parte della rassegna “Lucca e le vie dei Santi – Un viaggio fra cultura, Fede e Santità  –”, che si svolgerà dall’11 febbraio al 6 marzo, ed organizzata dal Comune di Lucca, dalla Arcidiocesi di Lucca, dall’APT Lucca e dall’Associazione Terzo Millennio.

Grazie ad un permesso accordatogli da Dom Basilio, priore della certosa di Farneta presso Lucca, il fotografo Roberto Ghedina, ha avuto la possibilità di soggiornare nel complesso monastico certosino. In questo modo ha potuto, grazie a dei pregevoli scatti catturare attraverso la luce ed i colori, il silenzio in cui vivono i monaci. Le fotografie ritraggono istanti della vita contemplativa dei religiosi colti in gesti semplici, ma fortemente intrisi di grande spiritualità. Ci viene difatti mostrato in questa mostra fotografica-documentario il silenzio profondo, quello che San Bruno amava definire il “silenzio del deserto”. Roberto Ghedina, ha anche commentato la sua esperienza in certosa  affermando che : “Con l’immagine, con la luce e con i colori di queste fotografie, ho cercato di catturare il silenzio, per donarvene le emozioni. Inseguendolo, l’ho scoperto più ricco della parola stessa.” La mostra che ha per titolo “Il silenzio del deserto”, è stata inaugurata venerdi 11 febbraio scorso, alle ore 18 ed è allestita nella chiesa di San Cristoforo di Lucca, e si protrarrà fino al 6 marzo prossimo.  Nel ricordare, che credo sia un appuntamento da non perdere per tutti coloro, che vorranno apprezzare le splendide fotografie esposte, vi allego gli orari: lunedì/venerdì ore 16 – 18. sabato/domenica ore 10/18

Margherita d’Oingt, una certosina attuale

Margherita d’Oingt, una certosina attuale

Oggi 11 febbraio, in occasione dell’anniversario della morte di Margherita d’Oingt, voglio riportarvi integralmente il testo completo dell’Udienza Generale dello scorso 3 novembre. In quella occasione, il Papa ha voluto ricordare la figura della monaca certosina vissuta nel Medioevo, tanto lontana apparentemente ma incredibilmente così vicina e moderna. Ringrazio Benedetto XVI, che mi ha offerto la possibilità di celebrare in modo diverso Margherita d’Oingt, aiutandomi ad esportarne la sua conoscenza ad una platea più vasta.

Catechesi del Santo Padre nell’Udienza Generale, 03.11.2010

Cari fratelli e sorelle,

con Margherita d’Oingt, di cui vorrei parlarvi oggi, siamo introdotti nella spiritualità certosina, che si ispira alla sintesi evangelica vissuta e proposta da san Bruno. Non ci è nota la sua data di nascita, benché qualcuno la collochi intorno al 1240. Margherita proviene da una potente famiglia di antica nobiltà del Lionese, gli Oingt. Sappiamo che la madre si chiamava pure Margherita, che aveva due fratelli – Guiscardo e Luigi – e tre sorelle: Caterina, Isabella e Agnese. Quest’ultima la seguirà in monastero, nella Certosa, succedendole poi come priora. Non abbiamo notizie circa la sua infanzia, ma dai suoi scritti possiamo intuire che sia trascorsa tranquilla, in un ambiente familiare affettuoso. Infatti, per esprimere l’amore sconfinato di Dio, ella valorizza molto immagini legate alla famiglia, con particolare riferimento alle figure del padre e della madre. In una sua meditazione prega così: “Bel dolce Signore, quando penso alle speciali grazie che mi hai fatto per tua sollecitudine: innanzi tutto, come mi hai custodita fin dalla mia infanzia, e come mi hai sottratta dal pericolo di questo mondo e mi hai chiamata a dedicarmi al tuo santo servizio, e come mi hai provvista in tutte quelle cose che mi erano necessarie per mangiare, bere, vestire e calzare, (e lo hai fatto) in tal modo che non ho avuto occasione di pensare in tutte queste cose che alla tua grande misericordia” (Margherita d’Oingt, Scritti spirituali, Meditazione V, 100 p. 74).

Sempre dalle sue meditazioni, intuiamo che entrò nella Certosa di Poleteins in risposta alla chiamata del Signore, lasciando tutto e accettando la severa regola certosina, per essere totalmente del Signore, per stare sempre con Lui. Ella scrive: “Dolce Signore, io ho lasciato mio padre e mia madre e i miei fratelli e tutte le cose di questo mondo per tuo amore; ma questo è pochissimo, poiché le ricchezze di questo mondo non sono che spine pungenti; e chi più ne possiede più è sfortunato. E per questo mi sembra di non aver lasciato altro che miseria e povertà; ma tu sai, dolce Signore, che se io possedessi mille mondi e potessi disporne a mio piacimento, abbandonerei tutto per amore tuo; e quand’anche tu mi dessi tutto ciò che possiedi in cielo e in terra, non mi riterrei appagata finché non avessi te, perché tu sei la vita dell’anima mia, né ho né voglio avere padre e madre fuori di te” (ibid., Meditazione II, 32, p. 59).

Anche della sua vita nella Certosa possediamo pochi dati. Sappiamo che nel 1288 ne divenne la quarta priora, incarico che mantenne fino alla morte, avvenuta l’11 febbraio 1310. Dai suoi scritti, comunque, non emergono particolari svolte nel suo itinerario spirituale. Ella concepisce tutta la vita come un cammino di purificazione fino alla piena configurazione a Cristo. Cristo è il Libro che va scritto, va inciso quotidianamente nel proprio cuore e nella propria vita, in particolare la sua passione salvifica. Nell’opera Speculum, Margherita, riferendosi a se stessa in terza persona, sottolinea che per grazia del Signore “aveva inciso nel suo cuore la santa vita che Dio Gesù Cristo condusse sulla terra, i suoi buoni esempi e la sua buona dottrina. Ella aveva messo così bene il dolce Gesù Cristo nel suo cuore che le sembrava perfino che questi le fosse presente e che tenesse un libro chiuso nella sua mano, per istruirla” (ibid., I, 2-3, p. 81). “In questo libro ella trovava scritta la vita che Gesù Cristo condusse sulla terra, dalla sua nascita all’ascesa al cielo” (ibid., I, 12, p. 83).

Quotidianamente, fin dal mattino, Margherita si applica allo studio di questo libro. E, quando l’ha ben guardato, inizia a leggere nel libro della propria coscienza, che rivela le falsità e le menzogne della sua vita (cfr ibid., I, 6-7, p. 82); scrive di sé per giovare agli altri e per fissare più profondamente nel proprio cuore la grazia della presenza di Dio, per far sì, cioè, che ogni giorno la sua esistenza sia segnata dal confronto con le parole e le azioni di Gesù, con il Libro della vita di Lui. E questo perché la vita di Cristo sia impressa nell’anima in modo stabile e profondo, fino a poter vedere il Libro all’interno, ossia fino a contemplare il mistero di Dio Trinità (cfr ibid., II, 14-22; III, 23-40, p. 84-90).

Attraverso i suoi scritti, Margherita ci offre qualche spiraglio sulla sua spiritualità, permettendoci di cogliere alcuni tratti della sua personalità e delle sue doti di governo. È una donna molto colta; scrive abitualmente in latino, la lingua degli eruditi, ma scrive pure in franco provenzale e anche questo è una rarità: i suoi scritti sono, così, i primi, di cui si ha memoria, redatti in questa lingua. Vive un’esistenza ricca di esperienze mistiche, descritte con semplicità, lasciando intuire l’ineffabile mistero di Dio, sottolineando i limiti della mente nell’afferrarlo e l’inadeguatezza della lingua umana nell’esprimerlo. Ha una personalità lineare, semplice, aperta, di dolce carica affettiva, di grande equilibrio e acuto discernimento, capace di entrare nelle profondità dello spirito umano, di coglierne i limiti, le ambiguità, ma pure le aspirazioni, la tensione dell’anima verso Dio. Mostra una spiccata attitudine al governo, coniugando la sua profonda vita spirituale mistica con il servizio alle sorelle e alla comunità. In questo senso è significativo un passo di una lettera a suo padre: “Mio dolce padre, vi comunico che mi trovo tanto occupata a causa dei bisogni della nostra casa, che non mi è possibile applicare lo spirito in buoni pensieri; infatti ho tanto da fare che non so da quale lato girarmi. Noi non abbiamo raccolto grano nel settimo mese dell’anno e i nostri vigneti sono stati distrutti dalla tempesta. Inoltre, la nostra chiesa si trova in così cattive condizioni che siamo obbligati in parte a rifarla” (ibid., Lettere, III, 14, p. 127).

Una monaca certosina delinea così la figura di Margherita: “Attraverso la sua opera ci rivela una personalità affascinante, dall’intelligenza viva, orientata verso la speculazione e, allo stesso tempo, favorita da grazie mistiche: in una parola, una donna santa e saggia che sa esprimere con un certo umorismo un’affettività tutta spirituale” (Una Monaca Certosina, Certosine, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, Roma 1975, col. 777). Nel dinamismo della vita mistica, Margherita valorizza l’esperienza degli affetti naturali, purificati dalla grazia, quale mezzo privilegiato per comprendere più profondamente ed assecondare con più prontezza e ardore l’azione divina. Il motivo risiede nel fatto che la persona umana è creata ad immagine di Dio, e perciò è chiamata a costruire con Dio una meravigliosa storia d’amore, lasciandosi coinvolgere totalmente dalla sua iniziativa.

Il Dio Trinità, il Dio amore che si rivela nel Cristo l’affascina, e Margherita vive un rapporto di amore profondo verso il Signore e, per contrasto, vede l’ingratitudine umana fino alla viltà, fino al paradosso della croce. Ella afferma che la croce di Cristo è simile alla tavola del parto. Il dolore di Gesù sulla croce è paragonato a quello di una madre. Scrive: “La madre che mi portò in grembo, soffrì fortemente, nel darmi alla luce, per un giorno o per una notte, ma tu, bel dolce Signore, per me sei stato tormentato non una notte o un giorno soltanto ma per più di trent’anni […]; quanto amaramente hai patito a causa mia per tutta la vita! E allorché giunse il momento del parto, il tuo travaglio fu tanto doloroso che il tuo santo sudore divenne come gocce di sangue che scorrevano per tutto il tuo corpo fino a terra” (ibid., Meditazione I, 33, p. 59).

Margherita, evocando i racconti della Passione di Gesù, contempla questi dolori con profonda compassione: “Tu sei stato deposto sul duro letto della croce, in modo tale da non poterti muovere o girare o agitare le tue membra così come suol fare un uomo che patisce un grande dolore, poiché sei stato completamente steso e ti sono stati conficcati i chiodi […] e […] sono stati lacerati tutti i tuoi muscoli e le tue vene. […] Ma tutti questi dolori […] ancora non ti bastavano, tanto che volesti che il tuo fianco venisse squarciato dalla lancia così crudelmente da far sì che il tuo docile corpo fosse del tutto arato e straziato; e il tuo prezioso sangue sgorgava con tanta violenza da formare una larga strada, quasi fosse un grande ruscello”. Riferendosi a Maria afferma: “Non c’era da meravigliarsi che la spada che ti ha spezzato il corpo sia anche penetrata nel cuore della tua gloriosa madre che tanto amava sostenerti […] poiché il tuo amore è stato superiore a tutti gli altri amori” (ibid., Meditazione II, 36-39.42, p 60s).

Cari amici, Margherita d’Oingt ci invita a meditare quotidianamente la vita di dolore e di amore di Gesù e quella di sua Madre, Maria. Qui è la nostra speranza, il senso del nostro esistere. Dalla contemplazione dell’amore di Cristo per noi nascono la forza e la gioia di rispondere con altrettanto amore, mettendo la nostra vita a servizio di Dio e degli altri. Con Margherita diciamo anche noi: “Dolce Signore, tutto ciò che hai compiuto, per amore mio e di tutto il genere umano, mi provoca ad amarti, ma il ricordo della tua santissima passione dona un vigore senza eguali alla mia potenza d’affetto per amarti. E’ per questo che mi sembra […] di aver trovato ciò che ho così tanto desiderato: non amare niente altro che te o in te o per amore tuo” (ibid., Meditazione II, 46, p. 62).

A prima vista questa figura di certosina medievale, come pure tutta la sua vita, il suo pensiero, appaiono molto lontani da noi, dalla nostra vita, dal nostro modo di pensare e di agire. Ma se guardiamo all’essenziale di questa vita, vediamo che tocca anche noi e dovrebbe divenire essenziale anche nella nostra esistenza.

Abbiamo sentito che Margherita ha considerato il Signore come un libro, ha fissato lo sguardo sul Signore, lo ha considerato come uno specchio nel quale appare anche la propria coscienza. E da questo specchio è entrata luce nella sua anima: ha lasciato entrare la parola, la vita di Cristo nel proprio essere e così è stata trasformata; la coscienza è stata illuminata, ha trovato criteri, luce ed è stata pulita. Proprio di questo abbiamo bisogno anche noi: lasciare entrare le parole, la vita, la luce di Cristo nella nostra coscienza perché sia illuminata, capisca ciò che è vero e buono e ciò che è male; che sia illuminata e pulita la nostra coscienza. La spazzatura non c’è solo in diverse strade del mondo. C’è spazzatura anche nelle nostre coscienze e nelle nostre anime. È solo la luce del Signore, la sua forza e il suo amore che ci pulisce, ci purifica e ci dà la retta via. Quindi seguiamo santa Margherita in questo sguardo verso Gesù. Leggiamo nel libro della sua vita, lasciamoci illuminare e pulire, per imparare la vera vita. Grazie.

Video dell’Udienza Generale

 

 

“La preghiera” di A. Guillerand XV° capitolo

La Preghiera

Dinanzi a Dio

di Dom Augustine Guillerand

CAPITOLO XV

Ciò che forza Dio ad ascoltarci

Io mi ripeto ancora! E tuttavia lo faccio senza timore di stancarmi… né di dispiacere a Colui che io cerco in questi movimenti disordinati del mio pensiero insoddisfatto. Io non ho detto abbastanza a qual punto l’anima che prega deve credere all’Amore del Dio al quale essa rivolge la sua preghiera.

Sì, la preghiera è come un faccia a faccia. L’anima e Dio sono sullo stesso piano. Occupano la stessa stanza segreta; sono come Padre e bambino, come sposo e sposa, come amico e amico. La conversazione deve avere questo carattere essenziale: l’intimità nata dai più stretti legami familiari. Il bambino vede e ama con la luce e l’amore del Padre… e vede ciò che Egli vede. Non vede tutto ciò che vede il Padre, ma vede tutto quello che Lui gli dona di vedere… ed è felice di questa unione che il Padre gli accorda, grazie alla quale lo genera e che è, in tutta verità, comunicazione della sua vita divina.

Questa ferma fiducia in Dio-Amore, in Dio che si dona e genera, è irresistibile. ” Dite a questa montagna di gettarsi in mare, se lo fate con un cuore colmo di fiducia, essa lo farà ” (Cfr. Mt 21,21; Mc 29,23. Qui e nei passi successivi si ha, più che una puntuale citazione testuale, un’evocazione tematica). ” Tutti coloro che pongono in Dio la fiducia, Dio li salva “. ” Poiché avete avuto fiducia in me, io vi libererò e la vostra anima sarà salva “. ” Abbiate fiducia nel Signore ed egli avrà pietà di voi “. ” Nessun uomo che ha riposto la sua fiducia in Dio è rimasto confuso “.

Queste sono dichiarazioni autentiche dello Spirito d’Amore e sono di una limpida chiarezza. Il dubbio non è dunque possibile. Ma questa fiducia va molto lontano. Nessuna prova, nessun ritardo debbono scalfirla. ” Dio può uccidermi – dice Giobbe – ma anche nella morte io conterei su di Lui ” (Gb 13,15 Volg).

La fiducia deve tenere una giusta via di mezzo, che è difficile, tra la presunzione che sopprime lo sforzo umano e il dubbio che, una volta compiuto tale sforzo, non crede all’onnipotenza dell’Amore o all’amore dell’Onnipotente.

Tutte le altre condizioni della preghiera irresistibile si riconducono, più o meno, a quelle che sono state ora esposte. L’ardente amore della peccatrice, della quale Gesù dice: ” Molte colpe le sono rimesse poiché un grande amore ha inondato il suo cuore ” (Lc 7,47); la preghiera collettiva alla quale il Maestro promette l’efficacia; le opere di misericordia che attirano su coloro che le compiono la divina pietà; il perdono generoso accordato liberamente a coloro che hanno potuto offenderci; la conversione del cuore che ci rimette veramente dinanzi al Dio sommamente buono; la confessione della nostra propria miseria, che ci tiene nella verità e nella luce; l’insistenza nel domandare, che caratterizza la fiducia ostinata; la pazienza nella prova; lo zelo della gloria divina: ecco ciò che lo Spirito Santo è felice di trovare nelle anime di coloro che fanno appello al suo Amore. Nella voce di queste anime, Egli riconosce la sua voce e risponde.

Monache Certosine: Abito, Professione solenne, Consacrazione verginale

Monache Certosine :

– Abito – Professione solenne – Consacrazione verginale –

Abito

Nel tentativo di non voler trascurare nessun aspetto della vita certosina, oggi cercherò di illustrare nei dettagli alcune caratteristiche specifiche del ramo femminile dell’Ordine di San Bruno. In questo articolo odierno, mi soffermerò ad illustrare tre elementi distintivi: l’abito, la professione solenne e la consacrazione verginale. Va subito precisato, che l’abito delle consorelle certosine è molto simile a quello dei Padri, e quindi: abito bianco, cocolla con le bande laterali per le professe, con l’unica differenza che al posto del cappuccio le monache hanno il soggolo con il velo. Osservando la stretta clausura esse non parlano mai con nessuno, e nelle rare occasioni lo fanno con il velo abbassato e sempre in compagnia di altre consorelle. Parallelamente al ramo maschile, nel ramo femminile vi sono sia le monache del chiostro, le quali si dedicano più intensamente alla solitudine della cella, sia le monache converse e donate che hanno l’incarico di quei lavori che non possono essere svolti in cella. E’ evidente che entrambi le forme di vita claustrale siano complementari, indispensabili l’una all’altra perché che si sviluppi e si compia la vocazione all’interno di una Certosa. In ogni convento certosino femminile, ci sono uno o due Padri certosini che garantiscono le funzioni sacerdotali, ed insieme a loro vi sono anche due Fratelli conversi che svolgono quei lavori che non posso essere svolti dalle loro consorelle. Padri e Fratelli vivono in un edificio separato dalla certosa.

Professione Solenne

Il cammino per poter giungere alla professione solenne è lungo, in ogni certosa vi è una foresteria che consente alle giovani attratte dalla vocazione certosina di trascorrere una decina di giorni, nei quali è possibile condividere il regime di vita austero. Coloro che conservano l’intento potranno fare una esperienza più lunga, chiamata “postulato”. Durante questo periodo della durata da sei mesi ad un anno, la postulante si accosta gradualmente alla austerità della regola, superato questa esperienza positivamente e con il consenso della comunità, la giovane può iniziare il “noviziato” ricevendo l’abito certosino. In questa fase le novizie leggono essenzialmente i principali autori certosini e studiano le loro sorgenti nel monachesimo d’Oriente e d’Occidente, basate sulla solitudine e la purezza del cuore. Trascorsi due anni in questa condizione, la novizia dopo accurata riflessione ed ascoltato il parere della comunità, decide di donare se stessa facendo professione di stabilità. In essa, promette a Dio per tre anni la sua stabilità, e la conversione di vita, in cui si include: l ‘Obbedienza, la Castità e la Povertà. Successivamente ella potrà rinnovare questi voti per altri due anni, e se la vocazione permarrà potrà giungere alla professione solenne. Altrettanto accade per le consorelle converse che chiamasi donate, ovvero quelle che hanno deciso di consacrare la propria vita a Dio ma senza prendere i voti. Il vincolo della “donazione” è inizialmente temporaneo, ma trascorsi cinque anni si potrà optare di rinnovarlo ogni tre anni, oppure trasformarlo in “donazione perpetua”.

Consacrazione verginale

Dopo aver ricevuto la professione solenne le monache indosseranno il velo bianco, esse non prima di quattro anni (fino al 15 maggio 2018) * e di venticinque anni di età, potranno ricevere la “consacrazione delle vergini”. Quest’ultimo è un rito solenne, che si svolge con una cerimonia estremamente particolare, secondo gli antichi Pontificali.  La consacrazione verginale, viene conferita infatti alla presenza del Vescovo il quale, dopo averli benedetti, dona alla certosina il velo nero e l’anello d’oro, rispettivamente simbolo della separazione definitiva dal mondo, e del vincolo indissolubile con lo Sposo, Cristo. Ad essa viene inoltre consegnata una croce, simbolo del sacrificio estremo, ed un libro dei canti che essa dovrà elevare al Signore. La monaca certosina, viene poi rivestita con una corona(ora in disuso), una stola sacerdotale ed un manipolo indossato sul braccio destro. Quanto alla corona, simboleggia la gloria di Cristo e sulla quale vi è scritto: “Io sono la serva di Gesu Cristo”. Per quanto concerne la stola ed il manipolo, sono questi emblemi che conferiscono loro alcuni privilegi liturgici. Tra questi vi sono proclamazione liturgica del Vangelo in alcune occasioni, il cantare l’Epistola alla loro messa conventuale, ed usare la stola quando cantano il vangelo all’ufficio notturno. Questi ornamenti sacri saranno indossati per intero dalla certosina solo per il cinquantesimo anniversario della propria consacrazione, ed in occasione  della sua morte, allorquando saranno esposti e sepolti con lei!!!

Godiamoci insieme questo

“La preghiera” di A. Guillerand XIV° capitolo

La Preghiera

Dinanzi a Dio

di Dom Augustine Guillerand

CAPITOLO XIV

La preparazione alla preghiera

La preghiera è come un faccia a faccia con Dio. Un’anima non prega che alla condizione di volgersi verso di Lui; prega nella misura in cui rimane così rivolta; cessa di pregare quando distoglie lo sguardo da Dio.
La preparazione alla preghiera è dunque il movimento che ci distoglie da tutto ciò che non è Dio e che ci volge verso di Lui. Per ciò, questa bella parola che definisce essenzialmente la preghiera e che precisa il movimento: la preghiera è un’ascensione, un’elevazione.
Ci si prepara a pregare quando ci si distacca dal creato e ci si eleva fino al Creatore.
Il pensiero essenziale da cui nasce questo distacco è quello del nostro nulla. Da ciò, la parola profonda del Salvatore: ” Chi si abbassa si eleva ” (Cfr. Mt 23,12; Lc 14,2 e 18,14). Da ciò, la sua vita terrena fatta di un abbassamento continuo e sempre più profondo. San Bernardo non esita a dire: ” Ciò ci mette faccia a faccia “. Da ciò, la pace delle anime cadute quando, rialzate da Dio, si trovano alla sua presenza. L’abisso riconosciuto, confessato: è in questo fondo che esse trovano Dio. Lo trovano perché Egli si mostra. Il solo ostacolo è ” l’io “. La confessione della miseria lo abbatte; abbattuto ” l’io “, lo specchio è puro e Dio vi genera la sua immagine. L’anima è tutta ripiena di questi tratti che si fondono nella divina Armonia e nella Bellezza perfetta. Tutto questo insieme di perfezioni che costituiranno il nostro eterno rapimento e che si riconducono a quest’unico movimento dell’Essere che illumina donandosi e che fa tutto essere e tutto vedere in questa luce del dono di sé, l’anima, liberata e innalzata sopra se stessa, dinanzi a questa Luce e a questo Amore, ne riproduce l’immagine, diviene a sua volta immagine, fa ciò che l’Essere fa, partecipa a ciò che Egli è.
E quello che spiega nostro Signore in questa parola fondamentale del sermone della montagna, e che tutte le considerazioni umane sulla preghiera ripetono senza fine e senza intenderne la ricca pienezza: ” Quando vorrete pregare, entrate nella dimora intima dell’anima, e là, dopo aver ben chiuso la porta, parlate al Padre vostro che vi vede in queste profondità segrete… e diteGli: ” Padre nostro, che sei nei cieli ” … ” (Cfr. Mt 6,6-9).
La presenza a se stessi, la fede in Colui che ne è il fondo segreto e vi si dona, il silenzio con tutto ciò che non è Lui per essere tutto per Lui, ecco la preparazione alla preghiera.
Evidentemente un tale stato d’animo non si realizza senza essere preparato da tutto un insieme di circostanze. E questo in pratica non si sa abbastanza. Ci si prepara alla preghiera conducendo una vita divina, e la preghiera, in definitiva, è questa vita divina. Tutto ciò che ci fa a immagine di Dio, tutto ciò che ci pone al di fuori e al di sopra del creato, ogni sacrificio che ce ne distacca, ogni sguardo di fede che in un essere ci mostra Colui che è, ogni movimento d’amore vero, disinteressato, che ci mette all’unisono dei Tre in Uno, tutto questo è preghiera e ci prepara ad una preghiera più intima. Tutto questo realizza la parola divina del discorso della montagna: ” 1. Chiudete la porta, e 2. Parlate al Padre “. Pronunciandola, questa parola, il Verbo divino mostrava a qual punto conosceva il nostro essere e le sue leggi, si rivelava il nostro Autore e si faceva il nostro Redentore; il Verbo divino manifestava che Egli ci ha fatto e che solo Egli può rifarci.
Noi non bastiamo a noi stessi; noi non troviamo in noi stessi ciò che può renderci completi; noi abbiamo bisogno di un complemento.
lo mi esprimo male quando dico: questo complemento non è in noi. Esso è in noi, ma è in una parte di noi che è come al di là di noi stessi. In noi, come in Dio, vi sono diverse dimore. Dio occupa la dimora del fondo, la più remota, il cubiculum, la camera da letto. Essa è in noi, ma a causa del peccato noi ne siamo usciti. Quando Eva ha guardato il frutto proibito e ha teso la mano per raccoglierlo e le labbra per mangiarlo, ha abbandonato questa camera intima, questo vero paradiso terrestre in cui Dio veniva a visitare i nostri progenitori e a parlate con loro. Da allora Dio è in noi, ma noi non vi siamo più.
La preparazione alla preghiera consiste nel rientrare in noi stessi. Rinuncia, distacco, raccoglimento, quali che siano le parole che si usano, la realtà è la stessa ed è tutto il segreto della preghiera: ” chiudete ed entrate “. Occorrono due parole per tradurla, ma essa è un’unica realtà. E’ un movimento; poiché tutto ciò che ci unisce a Dio è movimento. Le due parole si riferiscono ai due termini: se si parla del termine che si abbandona, si dice e si realizza ” chiudete “; se si pensa al termine raggiunto: ” entrate “. Bisogna chiudersi a ciò che non è; bisogna entrare in Colui che è. Tutto il segreto della preghiera sta in questo.