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Lettera di Bernardo di Chiaravalle a Guigo

Lettera di Bernardo di Chiaravalle a Guigo

Oggi voglio proporvi la lettura di questa meravigliosa lettera scritta da Bernardo di Chiaravalle a Guigo I (1109-1136) quinto priore della Grande Chartreuse. Abbiamo già visto, come i due erano legati da profonda amicizia, testimoniataci dal dipinto realizzato nel 1623, da Vicente Carducho e raffigurante la visita di Bernardo alla Grande Chartreuse avvenuta nel 1123. Successivamente i rapporti tra i due si consolidarono pur rimanendo principalmente epistolari. La lettera oggetto della mia proposta, e contraddistinta nella raccolta di epistole con il numero undici, ed è quella che  Bernardo scrive al priore certosino tra il 1124 ed il 1125, ovvero quando ha all’incirca trentacinque anni e con una dozzina di anni di vita monastica all’attivo. In questo testo indirizzato a Guigo, egli comincia ad introdurre il concetto inerente i quattro gradi dell’amore, che approfondirà nell’opera “De diligendo Deo” (Dio dev’essere amato). E’ letteralmente sublime l’intero contenuto del testo, che vi riporto e sul quale vi consiglio di meditare approfonditamente avvalendovi di questa analisi esplicativa a cui vi rimando. Epistola di San Bernardo

Epistola XI, ad Guigonem priorem et caeteros Cartusiae Major. religiosos.

Ho ricevuto con profonda gioia la lettera di vostra santità, che da tempo desideravo ardentemente. L’ho letta e quante erano le sillabe che avvicendavo sulle labbra, altrettante scintille avvertivo nel cuore; con esse s’è riscaldato entro di me il mio cuore, come con quel fuoco che il Signore ha mandato sulla terra. O quanto arde in quelle meditazioni un fuoco da cui sprizzano siffatte scintille.

Il vostro saluto infiammato e infiammante mi è stato, a dir la verità, così gradito e lo è tuttora, come se non provenisse da un uomo, ma proprio da colui che manda il saluto a Giacobbe, come dice il salmista. Ritengo, infatti, di non aver ricevuto uno di quei saluti che si è soliti ricevere per via, di passag­gio, occasionalmente; mi sono vista venire incontro una benedizione cosi gradita e imprevista che pareva uscire dalle viscere della carità. Benedetti dal Signore, voi che avete avuto cura di prevenirmi con benedizioni di una tale dolcezza e che, scrivendo per primi, avete infuso al vostro figlio la fiducia per rispondere; già da tempo vi anelavo, ma non avevo il coraggio di scrivervi. In realtà temevo di scomodare con importuni scrittarelli la quiete santa che godete nel Signore, di interrompere anche per un momento quel costante e sacro vostro silenzio riguardo alle cose del secolo.

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Godo per me, godo per voi, per l’utilità che ne ricavo, per la sincerità che voi manifestate. Infatti, è vera e sincera carità quella che certamente sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera; è la carità che ci fa amare il bene del prossimo come il nostro. Perché chi ama di più o addirittura in esclusiva il proprio bene, si espone ad essere giudicato di non amare il bene a modo, perché lo ama per la propria utilità, non per la sua natura. E un uomo siffatto non sa obbedire al Profeta, che dice: Celebrate il Signore, perché è buono. Dunque c’è chi loda il Signore perché è buono con lui, non perché è buono in sé. Perciò apprenderà che è diretto a lui il rilievo disonorevole che parte dal medesimo Profeta: Ti loderei quando gli avrai fatto del bene.

Vi è chi loda il Signore, perché è potente, vi è chi lo loda perché è buono con lui, e v’è infine chi lo loda perché semplicemente è buono. Il primo è un servo e teme per sé; il secondo è un mercenario, e brama per sé; il terzo è un figlio e s’affida al padre.

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Sia chi teme sia chi brama, entrambi agiscono per se stessi; solo la carità che risiede nel figlio non cerca il suo interesse. Perciò credo che di essa sia stato detto: La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima, perché è la sola che può allontanare l’anima dall’amore di sé e del mondo e dirigerla verso Dio. Non sono né il timore né l’interessato amore personale a convertire l’anima. Chi li sente muta volto o comportamento, ma non muta mai il sentimento intimo.

Un’azione gradita a Dio la fa talvolta anche il servo, ma poiché non la fa volontariamente, si rivela dimorare ancora nella sua durezza di cuore. La fa anche il mercenario; ma poiché non la fa se non in vista di un compenso, si rivela guidato dalla bramosia personale.

Insomma dove c’è riguardo alla proprietà persona­le, là c’è tendenza all’egoismo; dove c’è tendenza all’egoismo, lì c’è isolamento; ma dove c’è l’isolamento, lì indubbiamente ci sono sporcizia e corruzione.

Rimanga perciò al servo come sua legge propria il timore, dal quale è incatenato; rimanga al mercenario la sua cupidigia, da cui è inceppato quando ne subisce l’assalto e la seduzione. Ma di questi sentimenti nessuno è senza macchia o riesce a convertire le anime. È la carità a convertirle, perché dà loro la libera volontà.

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Direi che l’amore è immacolato in chi si abitua a non conservare nulla del suo. Per chi non ha nulla di suo, tutto quello che ha è di Dio; e poiché è di Dio, non può essere impuro. Dunque la legge immacolata di Dio è la carità che cerca non ciò che sia utile al singolo, ma ciò che lo è di molti. Ed è chiamata legge di Dio, sia perché ne vive egli stesso, sia perché nessuno può possederla se non per dono di lui.

Non sembri paradossale ciò che ho detto, che anche Dio vive sotto una legge, perché essa altra non è che quella dell’amore. Infatti, nella somma e beata Trinità, che cosa conserva quella somma e ineffabile unità se non l’amore? L’amore è legge dunque, è legge del Signore, legge che lega e tiene stretta in unità la Trinità nel vincolo della pace.

Ma nessuno pensi che a questo punto io consideri la carità come una qualità o un qualche accidente — altrimenti direi, e non se ne parli neppure — che in Dio vi è qualcosa che non è Dio. Invece, la carità è la sostanza stessa divina, il che non è né nuovo né insolito, dato che Giovanni dice: Dio è amore.

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Che io sia spinto dal tuo Spirito, o Signore Dio mio, sì che possa rendere testimonianza al mio spirito di essere uno dei figli di Dio, dato che per me la legge è la stessa che per te, e come tu sei, così sono anch’io in questo mondo. Quelli che fanno come dice l’Apostolo, ossia che non hanno alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, costoro stanno indubbiamente in questo mondo nella stessa maniera come vi è Dio, e non sono servi o mercenari, ma figli.

Eppure non sono figli senza legge, tranne che qualcuno non la pensi diversamente perché è scritto: La legge non è fatta per il giusto. Ma bisogna sapere che altra è la legge promulgata dallo spirito di servitù nel timore, altra è la legge concessa dallo spirito di libertà nella dolcezza. A quella non sono sottoposti i figli, ma senza questa soffrirebbero.

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Buona legge e soave è la carità, che non solo è lieve e dolce da portare, ma rende sopportabili e leggere anche le leggi dei servi e dei mercenari. Queste, peraltro, non le distrugge ma fa in modo che si completino, come dice il Signore: Non son venuto per abolire, ma per dare compimento alla legge. La carità addolcisce quella, regola questa, leviga l’una e l’altra.

La carità non sarà mai senza timore, ma sarà un timore santo; mai senza desideri, ma ben regolati. La carità dà compimento alla legge del servo, quando infonde la devozione; e porta a compimento la carità del mercenario, quando regola la bramosia.

Perciò la devozione frammista al timore non lo annulla, ma lo santifica. Viene soltanto tolta l’idea del castigo, senza la quale la legge non poteva sussi­stere finché riguardava esclusivamente i servi; ma il timore rimane nei secoli dei secoli, però casto e filiale. Perciò, nella frase: L’amore perfetto scaccia il timore bisogna intendere che la causa è presa al posto dell’effetto; si allude alla pena, la cui idea non manca mai al timore servile, come ho detto.

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Così la bramosia è regolata a dovere dalla soprag­giungente carità, in quanto il male viene eliminato in assoluto, e al bene è preferito il meglio; anzi il bene non è desiderato se non in vista del meglio.

Quando per grazia di Dio questo risultato sarà pienamente raggiunto, sarà amato il corpo e ogni bene del corpo, ma solo in vista dell’anima, l’anima in vista di Dio, Dio infine per se stesso. Ma siccome siamo fatti di carne e nasciamo dalla concupiscenza della carne, è necessario che in noi tale bramosia — o l’amore incipiente — nasca dalla carne. Se questa è diretta nel giusto ordine, avanzando per gradi sotto la guida della grazia, alla fine sarà assimilata allo spirito. Infatti, non vi fu prima ciò che è spirituale, ma quello che è animale, e poi lo spirituale, ed è necessario che prima rechiamo l’immagine dell’essere terrestre e poi quella del celeste.

Da principio quindi l’uomo ama se stesso per se stesso. Egli è carne e non è capace di intendere nulla fuori di sé. Quando vede che con le sole sue forze non può sussistere, per mezzo della fede comin­cia a ricercare e ad amare Dio, in quanto a lui necessario. Perciò in un secondo momento ama Dio, ma in vista di sé, non in vista di lui.

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Quando, sotto la spinta della propria necessità, l’uomo comincia ad onorare il Signore e a frequentarlo con la meditazione, la lettura, la preghiera, l’obbedienza, ecco che, in conseguenza di tale familiarità, Dio a poco a poco insensibilmente gli si rivela e gli comunica la sua dolcezza. Allora, dopo aver gustato quanto è dolce il Signore, l’uomo passa al terzo grado, cioè ama Dio non in vista di sé, ma in vista di lui.

Per lo più si rimane a questo grado, e non so se in questa vita sia possibile realizzare pienamente il quarto grado, dove l’uomo ama se stesso solo in vista di Dio. Se qualcuno lo ha sperimentato, ce lo dica; a me, lo confesso, ciò sembra impossibile.

Ma questo accadrà sicuramente quando il servo buono e fedele sarà introdotto nella gioia del suo Signore e saziato dell’abbondanza della casa di Dio. Allora, come ebbro, meravigliosamente dimentico di sé, quasi cessando di appartenersi, si sprofonderà tutto in Dio e aderendo a lui, sarà con lui un solo spirito.

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