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La vita interiore di F. Pollien Capitolo VII

La vita interiore di F. Pollien Capitolo VII

LA VITA INTERIORE

semplificata e ricondotta al suo fondamento

Dom François Pollien

copertina libro

CAPITOLO VII

LE SODDISFAZIONI CREATE

  1. Varietà dei piaceri creati. – 61. La goccia d’olio. – 62. Prima e dopo il peccato. – 63. Piacere unicamente strumentale.
  1. Varietà dei piaceri creati. – È un fatto indiscusso: di questa felicità, che io gusto nel mio accrescimento per Dio, le creature non sono che il canale, non essendo esse la sorgente. Questa è in Dio, unico principio della mia felicità (n. 44). Ma le creature hanno in se stesse e comunicano anche a me gioie di un ordine e di una portata affatto diversa; sono le soddisfazioni create. Per maggior chiarezza riserverò la parola « soddisfazione » ai piaceri contenuti nel creato, a tutto ciò che mi viene da esso, e che io provo allorché uso i miei strumenti vitali.

Vi sono infatti per me, nelle creature, piaceri infinitamente vari, posti in esse dal loro autore: piaceri materiali della vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto e del tatto, le bellezze della natura e dell’arte, i fascini della musica, i profumi dei fiori, i sapori degli alimenti, ecc.; piaceri morali della famiglia, dell’amicizia, della stima, della virtù praticata, ecc.; piaceri intellettuali della letteratura e della scienza, della scoperta o della contemplazione della verità; piaceri soprannaturali, infine, nella preghiera, nelle pratiche religiose e nei divini influssi della grazia. Quanti piaceri! Come sono vari ed estesi! Che cosa sono essi nell’idea di Dio che li ha creati e qual è il loro compito?

 

  1. La goccia d’olio. – Per sapere che cosa sono questi piccoli piaceri non ho che da vedere dove si trovano. Dove sono? Nelle creature. Che cos’è la creatura? Strumento, nient’altro che strumento. Per conseguenza, il piacere che sta in essa non è da più di essa. È dunque un piacere strumentale, una qualità data da Dio agli strumenti posti a mio uso. Perché questa qualità? Per facilitare l’uso degli strumenti.

Un utensile tagliente non può tagliare sempre: si smussa; e quando ha perso la finezza della sua lama bisogna ridargliela passandolo sulla pietra. La macchina che gira rapidamente si scalderebbe e si deteriorerebbe presto, senza la goccia d’acqua o d’olio, che mantenga la dolcezza negli attriti e una temperatura costante. Così le mie facoltà si logorano presto, si spossano; ci vuole anche per esse la goccia d’olio che addolcisca, la goccia d’acqua che rinfreschi, il colpo di cote che affili. Hanno bisogno di slancio e di vigore, di ardore e di forza, di agilità e di brio. È necessaria, dunque, secondo l’estensione e la necessità delle azioni imposte loro dal dovere, questa gioia del Signore che è la loro forza (cf. Ne 8, 10). Quando le ruote dell’anima sono unte, le mie labbra cantano con una facilità meravigliosa le lodi del mio Dio (cf. Sal 62, 6). Ecco dunque l’ufficio di quest’olio di letizia, che Dio ha posto nelle creature a servizio delle anime che vogliono amare la giustizia e odiare l’iniquità (cf. Sal 44, 8).

 

  1. Prima e dopo il peccato. – Ecco che cos’è il piacere nel pensiero di Dio ed ecco il suo ufficio e il motivo per cui la bontà infinitamente previdente l’ha posto in tutti gli strumenti. Nel primo piano divino ogni creatura era strumento e nessuna era un ostacolo. Ognuna portava la sua goccia d’olio, ossia la sua gioia che ne facilitava l’uso a favore di Dio. Purtroppo, il peccato ha sconvolto questo bell’ordine, e perciò si trovano ostacoli ad ogni passo e dolori in ogni incontro. Dio non aveva creato né gli ostacoli né i dolori; essi sono la conseguenza del peccato. Gesù Cristo, riparando l’ordine sconvolto, non tolse né l’ostacolo né il dolore, ma diede ad entrambi un’utilità di cui tratterò in seguito (nn. 396-397).

Malgrado il peccato, restano ancora molti piaceri. L’olio della letizia non manca affatto alle mie facoltà. Ovunque incontro un dovere da compiere trovo degli strumenti adatti, e in essi spesso anche il piacere che me ne facilita l’uso. Perché il piacere della famiglia? Per facilitare ai genitori ed ai figli l’importante dovere dell’educazione. Perché il piacere dell’amicizia? Per dare a due anime unite dai suoi legami lo slancio verso il bene. Perché il piacere del cibo? Esso risponde al dovere fondamentale della conservazione dell’individuo. Perché il piacere della preghiera, dei sacramenti, dell’orazione e di tutti i favori spirituali? Perché risponde al grande e santissimo dovere delle relazioni divine che esso facilita. Così il piacere corrisponde sempre ad un dovere per facilitarne l’adempimento. Il piacere sarà più intenso quanto più importante sarà il dovere.

 

  1. Piacere unicamente strumentale. – Questo piacere è dunque veramente una soddisfazione, poiché risponde a un bisogno delle mie facoltà e lo appaga. Ma esso non è che una soddisfazione strumentale di cui debbo servirmi, e non una soddisfazione finale, in cui posso riposarmi; è un mezzo e non un fine. Quando dico che sono fatto per la felicità e che essa è il fine secondario della mia esistenza, non intendo parlare di quella felicità che mi viene dalle creature. Non vi è per me nessuna ragione di fine in esse. Il mio fine è in Dio; la mia felicità finale è in lui. Le creature non sono che mezzi.

Sbagliare circa il piacere creato e vivere per goderne è sconvolgere mostruosamente il piano divino. Ohimè, quanto è frequente ciò! È su questo punto infatti che sbaglio ogni qualvolta esco dall’ordine. Vedrò in seguito (n. 113ss) come in ciò consista l’unico disordine. Io cerco di riposarmi nella gioia anziché farla servire al dovere. Per allontanarmi da Dio adopero ciò che dovrebbe rendermi più facile il glorificarlo.

Certamente, il piacere è buono quando lo uso con ordine. Se invece ne abuso, diventa il peggiore di tutti i mali e la sorgente di tutte le mie aberrazioni. Felice l’uomo che sa usarne! infelice colui che ne abusa! Possa io imparare a non mai pervertire le idee di Dio! Nessun piacere è cattivo in se stesso; soltanto l’abuso può renderlo tale… Ogni piacere che serve a facilitare il dovere è sano, fortificante, elevante. Quando invece si oppone ad esso, diventa pernicioso, deleterio, umiliante. Da un lato, quanto bruti fa esso! ma dall’altro quali virtù nutre! Tocca a me decidere sul modo di usarne; bisogna però far ciò con moderazione, poiché, a causa del peccato originale, le soddisfazioni più legittime, soprattutto quelle dei sensi, sono un pericolo. Non solo esse rischiano di passare al primo piano nell’intenzione, ma è difficile all’uomo che gusta tali cose provare attrattive soltanto per le gioie permesse. Se egli obbedisce all’inclinazione della sua natura decaduta, amerà presto anche le altre. Per restare padroni delle proprie tendenze, bisogna tenerle a freno; da ciò, pur indipendentemente dai motivi di fede, la necessità della mortificazione per condurre una vita veramente cristiana (n. 398 ss). Questa necessità sarà ben più grande se si vuol tendere alla santità e sforzarsi di amare Dio con tutto il cuore, sbarazzandosi da ogni adesione alle soddisfazioni create.

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La valanga assassina

La valanga assassina

29 certosini seppelliti sotto laneve g. chAdrien Sacquespée

                                    Certosini seppelliti sotto la neve                                                                                               (Adrien Sacquespée)

Cari amici, vi parlerò oggi del disastro che avvenne, sabato 30 gennaio 1132 e che stravolse la quiete monastica dei primi certosini insediatisi a Cartusia, il primitivo luogo donato loro dal vescovo Ugo di Grenoble. I monaci seguaci di san Bruno, che erano situati in quel deserto da ormai mezzo secolo furono sorpresi da una valanga, che distrusse quasi interamente l’eremo originale.  In realtà non si trattò di una valanga (non ci sono percorsi di valanghe nel Grand Som, solo  pochi corsi d’acqua che entrano nel bosco), ma di una enorme frana che si verificò nella parte superiore del  massiccio Grand Som portando con sé alberi e detriti che spinsero un enorme quantità di neve la quale devastò tutto al suo passaggio. Sette monaci rimasero uccisi, rimanendo sepolti sotto le macerie e la neve, solo una cella rimase integra e miracolosamente solo pochi confratelli ed il Priore rimasero illesi. Soltanto dodici giorni dopo il tragico evento, grazie all’aiuto di persone dei villaggi circostanti che aiutarono i certosini a scavare tra la neve, furono trovati i corpi senza vita dei poveri religiosi morti. Furono ritrovati nel seguente ordine:

Guillaume (Fratello converso) Pierre (Padre) Nicolas (Fratello converso) John ( novizio ) Isard (Padre) Etienne (Padre) ed Andouin (Padre).

Negli annali dell’Ordine si narra che quest’ultimo fu ritrovato prodigiosamente vivo! I confratelli, riuscirono ad impartirgli il sacramento della estrema unzione e morì in data 11 febbraio tra l’amore dei monaci sopravvissuti alla tragedia.  Le reliquie di queste povere vittime si conservano alla Grande Chartreuse.  Per evitare che tale catastrofe potesse ripetersi, il luogo della prima costruzione fu abbandonato, e l’allora priore Guigo I decise di ricostruire il complesso monastico in un luogo più riparato, a qualche centinaia di metri di distanza. Fu ricostruito tutto in legno con la sola eccezione della chiesa edificata in pietra, la comunità fu ampliata con alcuni monaci provenienti dalla certosa di Portes per sostituire gli sventurati confratelli periti. Oggigiorno, quel che resta del primigenio insediamento certosino sono la Cappella di san Bruno,  la piccola chiesetta di Notre-Dame di Casalibus ed una grande croce che indica l’antico cimitero.

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Cappella di San Bruno

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Notre-Dame di Casalibus

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La Grande Chartreuse a valle della Croce

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la Grande Croce

Ancora sulla “cella di rigore”

Ancora sulla “cella di rigore”

monaco penitente

Al termine del recentissimo articolo riguardante la “cella di rigore” presente all’interno delle certose, avevo rivolto un appello a tutti coloro in grado di fornire ulteriori informazioni al riguardo. Le vostre interazioni, non si sono fatte attendere. Ed è mio piacere fare un altro articolo su quanto da voi fornitomi, sempre al fine di arricchire la conoscenza su questo tema.

L’amico lettore Giulio Armani sotto forma di commento mi ha inviato la sua preziosa testimonianza circa la certosa di Calci, eccola:

Riguardo alla cella di rigore, ricordo che nella certosa di Calci ne esiste una, la visitai, accompagnato da uno degli ultimi monaci residenti in quella casa, all’inizio degli anni settanta. Rimasi molto colpito dell’esistenza di tale “carcere”. L’ingresso sembrava quello di una comune cella come tutte le altre nel chiostro grande. Si salì una scala e arrivammo al primo piano, c’era una piccola stanza con una finestra dalla quale si vedeva solo il cielo, affianco un’ altra stanza, quasi un corridoio, che per mezzo di una finestrella comunicava con la cella, alla parte una croce o, non ricordo bene, un piccolo altare.Mi fu detto che li veniva celebrata la Messa per il recluso. Tutto era disadorno e abbandonato. Chiesi se recentemente fosse stata “abitata”, il monaco mi rispose che l’ultimo ospite risaliva alla metà del milleottocento e la colpa per meritarsi tale trattamento era quella di aver mangiato carne durante un viaggio!”

Successivamente ho registrato la testimonianza dell’amico Fabrizio Girolami, il quale oltre a fornirmi la sua personale esperienza, legata ad un sopralluogo effettuato alla certosa di Trisulti, per verificare l’esistenza della suddetta “cella di rigore”, mi allegava due foto dimostrative. Egli era stato stimolato a tale ricerca da un articolo pubblicato nel 1916 su “Civiltà Cattolica”, nel quale si parla della cella di rigore situata nell’area dell’antico chiostro (sul quale è stato poi sopraelevato quello attuale del 1700). Dalle foto che vi allego si evince chiaramente una piccola celletta contigua ad una cappellina della stessa misura, quest’ultima con un piccolo altare che si può osservare di fronte alla grata dall’interno della cella stessa.

interno cella di rigore Trisulti Foto F. Girolami

 Certosa di Trisulti Interno “cella di rigore” foto di Fabrizio Girolami

cella di rigore trisulti fot Fabrizio Girolami

Certosa di Trisulti grata che consente la visuale dell’altare contiguo

Come vedete cari amici lettori il vostro contributo è stato essenziale per confermare la presenza nelle certose di questa singolare cella,

La vita interiore di F. Pollien Capitolo VI

La vita interiore di F. Pollien Capitolo VI

LA VITA INTERIORE

semplificata e ricondotta al suo fondamento

Dom François Pollien

copertina libro

CAPITOLO VI

L’USO DELLE CREATURE

  1. Le creature. – 54. L’uso. – 55. Gli strumenti. – 56. Modo di servirsene. – 57. Per Dio. – 58. Per me. – 59. Quaggiù e lassù.

  1. Le creature. – Ho considerato, nelle loro nozioni, prime e fondamentali, le mie relazioni con Dio: la sua gloria come fine essenziale; la mia felicità in lui, come fine annesso al primo; la subordinazione dell’una all’altra e le conseguenze che ne derivano. Bisogna ora che veda, nei loro princìpi generali, i miei rapporti essenziali con gli esseri creati.

L’esistenza che Dio mi ha data, non posso conservarla da me stesso. Venuto dal nulla, vi ricado per il mio proprio peso; Dio solo ha la vita in se stesso (cf. 1Tm 6, 16; Gv 5, 26). Io non ho la vita in me stesso. Né il mio corpo, né la mia anima trovano in se stessi i mezzi della loro sussistenza, ma devono cercarli fuori di essi e chiederli alle altre creature messe per questo a mio servizio. Che cosa sono dunque per me le creature? qual è l’uso che di esse debbo fare? Specifichiamo meglio il significato di queste parole.

Per creature o creato, termini che verranno usati indistintamente, bisogna intendere non soltanto gli esseri creati da Dio nel mondo spirituale e corporeo, con le loro qualità, potenze e ordinamento, ma anche tutto ciò che è prodotto da questi esseri nei loro movimenti, azioni e reazioni, ossia tutto ciò che, fuori di Dio, riguarda l’essere e le sue operazioni; per conseguenza, ogni cosa naturale e soprannaturale nella sua essenza e nella sua azione. Cielo e terra, angeli e uomini, chiesa e società, grazie e sacramenti, animali e piante, ecc. ecc., attività e forza degli esseri, avvenimenti cosmici, umani e divini, tutto, senza eccezione è espresso da queste parole generiche: creature, creato, che, qui, non saranno mai ristretti al significato usuale, secondo il quale esse designano solo gli esseri materiali. Ciò è assai importante da ritenersi.

 

  1. L’uso. – Ora, che cosa si intende per uso? Essendo i termini creature, creato, universali, bisogna che io dia al termine uso un significato altrettanto esteso. Volendo infatti definire la vita, le sue relazioni e i suoi doveri, mediante i principi più generali, ho bisogno di trovare una legge che, al disopra di tutte le regole speciali, che domina e illustra, mi dica il loro perché, il loro valore, il loro senso, e mi risparmi di discendere a molteplici e dettagliate spiegazioni. Se esiste veramente una legge universale, assoluta, uniforme, costante; una legge che, quale principio primo, formuli per la vita e per tutto ciò che la riguarda, l’ufficio di quella in rapporto a questo e di questo in rapporto a quella; una legge che, come il sole, rischiari ogni situazione e ogni relazione; se essa esiste, perché privarmi della sua luce? Questa legge esiste veramente; un solo principio basta a tutto, e a questo principio basterà mettere come titolo: l’uso del creato.

Che cos’è dunque l’uso? È mettere a profitto della vita e del suo fine tutto ciò che viene o può venire a contatto con esso. Una volta stabilita la regola unica di questo uso, non sono più costretto a perdermi in tanti piccoli sentieri, per determinare minutamente in quale maniera devo usarne con gli uomini, le cose, gli avvenimenti, la grazia, ecc. Il principio superiore non sopprimerà certo le regole inferiori, ma apporterà ad esse la luce necessaria per precisarle e connetterle; ed esse troveranno in questo, verità, unità e vita.

 

  1. Gli strumenti. – L’uso dunque del creato non può essere determinato se non in quanto lo sarà l’ufficio di esso in rapporto con la vita e il compito di questa in rapporto col creato. Qual è dunque questo ufficio? Una parola lo definisce totalmente e, definendolo, esprime e riassume tutta la legge dell’uso. Questa parola, la cui portata è immensa, è la seguente: il creato è strumento e nient’altro che strumento. La legge, dunque, dell’uso esige di adoperarlo solo come tale. Strumento di che? Di vita per me e per gli altri. Nessun contatto col creato può e deve avere altro fine o altro compito che di servire ad un accrescimento di vita. Tutto è stato fatto per la vita; niente per la morte, opera del peccato. Io stesso, creatura fra le creature, devo essere strumento di vita per altri, come altri lo sono per me.

 

  1. Modo di servirsene. – Poiché il creato può servire alla mia vita solo come strumento, non debbo usare di esso se non come si adoperano gli strumenti. Come si adoperano questi? Si adoperano per il lavoro al quale sono stati destinati. Così si prende un coltello per tagliare, una lente per vedere, una carrozza per essere tra-sportati da un posto ad un altro. Chi sognerebbe di richiedere al coltello il servizio della lente, o a questa il servizio della carrozza? Nessun uomo ragionevole adopera un utensile per un uso diverso da quello al quale è destinato; soltanto i bambini o i dementi si divertono in usi ridicoli o pericolosi. Inoltre, ci serviamo dello strumento solo in quanto è utile. Ciò è nella natura dello strumento e nel modo di servirsene.

 

  1. Per Dio. – Il creato, però, in che cosa è utile alla mia vita? E’ utile in vista del fine da raggiungere: la gloria di Dio, alla quale è annessa la mia felicità.

La mia vita dev’essere come una cetra accordata per cantare, assieme a tutte le vite, l’inno di lode al nome del Creatore. E i rapporti con le creature, qualunque essi siano, sia quelli che scelgo come quelli che subisco, gli incontri voluti da me o imposti dagli avvenimenti, le relazioni con le cose, i movimenti attorno, sopra e sotto di me, interni ed esterni, naturali e soprannaturali, devono essere come tanti tocchi successivi che fanno vibrare le corde dell’anima e del corpo, della mente, del cuore e dei sensi, in armonia con la volontà e il desiderio del loro autore. E non solo per farle vibrare, ma anche per formarle e adattarle alla divina armonia. Dio se ne serve a questo scopo, e ciò ch’egli ha stabilito per me, me lo dà, come ha offerto ad Israele la terra delle genti e il possesso del lavoro di quei popoli, quale mezze per custodire i suoi precetti e osservare le sue leggi (cf. Sal 104, 45). Se la mia vita fosse pienamente conforme al piano divino, niente la disturberebbe ed essa non toccherebbe nulla che non riproduca, come in cielo, una nota di sacro concerto.

 

  1. Per me. – Accanto all’utilità principale della sua gloria, Dio ha posto nelle creature un’altra utilità: la mia felicità. Egli non ha voluto essere solo a godere della sua gloria; il suo amore volle farmi partecipe dei suoi beni. Per questo ha avuto quel meraviglioso ritrovato di tenerezza per cui le creature, strumenti della sua gloria, diventano, nel medesimo tempo, strumenti della mia felicità. Ogni creatura dice prima di tutto: Gloria a Dio; indi: Pace al suo servo (cf. Sal 34, 27). Così io divento socio di Dio, partecipe dei benefici dell’immensa opera della creazione.

Che dico, partecipe di benefici? Ho tutti i benefici, poiché, al dire di san Francesco di Sales, questa è la porzione della stessa divina bontà con noi. Dio ci lascia il frutto dei suoi benefici riservandosi l’onore e la lode. Egli non ha bisogno che noi siamo suoi servi, dice sant’Agostino, ma noi abbiamo bisogno che egli sia il nostro padrone, per operare in noi e possederci. Ed anche per questo è l’unico vero Signore e padrone, perché noi lo serviamo senza utilità da parte sua, ma tutta l’utilità ridonda a noi ed a nostra salute. Se Dio avesse bisogno di noi, non sarebbe più totalmente padrone, poiché lui stesso sarebbe schiavo di una necessità che troverebbe la sua soddisfazione in noie. Ecco il prodigio del suo amore per me. Egli ha fatto tutto per la sua gloria e per il mio vantaggio.

 

  1. Quaggiù e lassù. – Dio vuole che su questa terra io cresca, che aumenti per l’eternità la capacità del mio essere per glorificarlo. Le creature sono incaricate di apportarmi questo aumento. Ora, ogni progresso è per me una gioia, poiché l’essere gode nella misura con cui si completa. Ogni creatura, completando il mio essere per Dio e secondo Dio, mi arreca nello stesso tempo una parte proporzionata di felicità, la quale dà alle mie aspirazioni una parte più o meno larga di soddisfazione e di riposo. Nella dilatazione del mio essere in vista di Dio, per mezzo delle creature, ho delle gioie vere, profonde e sostanziali. Queste gioie, pur venendo dalle creature, non sono delle creature, ma di Dio e debbono considerarsi in relazione a Dio e al mio progresso in lui; esse sono parziali poiché la mia elevazione divina non avviene che per gradi. Ma verrà l’immensa gioia, l’eterna felicità, alla quale mi prepara il lavoro fatto in me per mezzo delle creature. Queste dunque mi portano sulla terra un po’ della vera felicità e mi preparano all’infinita gioia della salute eterna. O bontà del mio Dio! se vi conoscessi!… o amore! se vi amassi!…

San Bernardo da Chiaravalle visita Guigo I°

San Bernardo da Chiaravalle visita Guigo I°

La visita di Bernardo a Guigo alla Grande Chartreuse . V. Carducho

In questo dipinto, Vicente Carducho testimonia la visita effettuata da San Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), fondatore dell’Ordine cistercense al suo amico Guigo I° (1083- 1136). Quest’ultimo fu colui che concepì le Consuetudines, che regolano la vita dei certosini, i due erano da tempo amici e si scambiavano epistole ed appunto visite. Lo scenario rappresentato nel quadro è l’ingresso della Grande Chartreuse, notiamo al centro della rappresentazione, i due amici salutarsi fraternamente alla presenza di altri certosini che assistono al commiato. Sullo sfondo vediamo un cavallo finemente bardato, che viene condotto a San Bernardo. In lontananza per ricordarci che Guigo I°, è l’elaboratore della regola, egli viene simbolicamente raffigurato nell’atto di consegnarla a due suoi confratelli. Ciò sta a dimostrarci che il testo delle Consuetudini  era riconosciuto già all’epoca come pilastro della vita claustrale certosina.  Anche in questo dipinto vengono rappresentate più scene a compendio del messaggio che il pittore vuole darci. Straordinario il paesaggio arricchito da un cielo plumbeo che sembra essere alimentato dal fumo che fuoriesce dal comignolo di una cella monastica.

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News: Un film su san Bruno

News: Un film su san Bruno

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Il primo film documentario su San Bruno

Vi annunciamo l’uscita del film Saint Bruno, Père des Chartreux del regista francese Marc Jeanson. Questo film di 50 mm è il primo documentario realizzato nella storia dedicato interamente a San Bruno, ed è stato prodotto dalla Grande Chartreuse.

L’origine ne è stata la celebrazione nel 2014 del V° centenario della sua canonizzazione: in quest’occasione una grande esposizione è stata organizzata dai monaci certosini nel museo della Grande Chartreuse. Vi erano esposte 80 opere antiche e moderne, dal 1615 al 2014, con l’intento di scoprire l’anima di San Bruno e di mostrare come la sua paternità rimane straordinariamente presente ancora oggi.

Il film utilizza molto questa magnifica base iconografica, di cui gran parte non era mai stata prima presentata al pubblico. Nel documentario tutta la vita di San Bruno viene raccontata quasi unicamente attraverso le antiche cronache, illustrate con delle riprese fatte nei luoghi dove Bruno ha vissuto, in Francia e in Calabria. Vi si ascoltano anche importanti testimonianze dei suoi contemporanei, fra i quali Pietro il Venerabile, come anche brani delle Consuetudini di Certosa la primissima regola dei Certosini scritta da Guigo quinto priore di Chartreuse.

San Bruno dopo essere stato uno dei più eminenti studiosi di teologia del suo tempo, attratto dalla vita eremitica dei primi Padri del deserto, decise di lasciare l’agitazione del mondo e abbandonare «le ombre fugaci del secolo» per mettersi alla ricerca del «Dio vivente».

Giunto nel 1084 nella valle di Chartreuse con sei compagni, vi inizia, nell’austerità delle montagne, una forma di vita monastica, interamente votata a Dio, unica in Occidente per il suo equilibrio di solitudine e di comunione.

Il film rende molto bene l’itinerario affascinante della vita di quest’uomo che ha attraversato l’Europa (Colonia, Reims, Chartreuse, Roma, Calabria), spinto sempre più dal desiderio di una vita umile e solitaria nascosta in Dio e trascinando con sé una gran moltitudine di monaci e monache nel corso dei secoli: l’Ordine Certosino.

Nella seconda parte del documentario viene quindi evocata quella vita monastica che da lui è stata iniziata e che, dopo più di nove secoli, si svolge immutata, ancora oggi in questi monasteri di silenzio.

Gustando questo film si comprende come sia possibile cogliere un’analogia tra la bellezza sensibile espressa dalle opere d’arte o dai luoghi in cui Bruno ha vissuto e la bellezza spirituale che irradia dalla sua santità. Segno di contraddizione per la nostra epoca, splendida avventura umana e spirituale di ogni tempo e di oggi in particolare, il silenzio e la sete di contemplazione che hanno preso San Bruno ci parlano ancora e ci attirano …

DVD

Il DVD propone anche il catalogo interattivo completo dell’esposizione, il video che ne faceva parte e che mostrava anche altre opere mancanti, e la lettera di Papa Francesco inviata ai monaci certosini in occasione del cinquecentenario della canonizzazione. Attualmente è in vendita on line presso il sito del museo della Gran Certosa http://www.musee-grande-chartreuse.fr/it/vente-en-ligne , ma si attende tra non molto la versione italiana a cura della Certosa di Serra San Bruno.

Durata: 50 minuti
Regista: Marc JEANSON
Fotografia: Bruno BACCHESCHI
Produzione esecutiva: DCX
Co-produzione: Monastère de la Grande Chartreuse / Kto
Diffusione su Kto: 5 ottobre 2015
In vendita dal 6 ottobre 2015

Vi allego alcuni illustri pareri su questo docufilm:

“Questo film porta davvero qualcosa di unico, di speciale. Quanto più lo vedo mi sento diversa ogni volta … misteriosa e bellissima.” (BB Parigi) • “E ‘una meraviglia. Un successo per la sua profondità.” ( Una Priora del Monastero delle monache certosine) • “La prima visione mi ha sconvolto” (OB KTO Direttore dei Programmi) “Un lavoro sobrio, leggero, dove fonti primarie certosini sono riuniti per la prima volta nella un insieme coerente. E dove sgorga ancora, luminosa e pura, la paterna fiamma di Maestro Bruno. “(Famiglia Cristiana) 

La vita interiore di F. Pollien Capitolo V

La vita interiore di F. Pollien Capitolo V

LA VITA INTERIORE

semplificata e ricondotta al suo fondamento

Dom François Pollien

copertina libro

CAPITOLO V

SUPERIORITA’ DEL DIVINO

  1. I diritti di Dio. – 48. Questioni circa la via e i mezzi. – 49. I suoi diritti risultano dalla creazione. – 50. Il Signore. – 51. Il servo. – 52. In dipendenza assoluta.
  1. I diritti di Dio. – Il divino non è soltanto anteriore all’umano, ma è di molto superiore. Questa nuova nozione non ripete la prima, bensì deriva da essa come applicazione pratica e la sanziona, assegnando alla condotta la forma di subordinazione che deve avere. L’anteriorità afferma i diritti di Dio a ricevere i miei omaggi; la superiorità stabilisce i suoi diritti a darmi la regola secondo la quale sono obbligato a servirlo. L’una e l’altra attestano i diritti di Dio, li mettono al disopra di tutto, proclamando in essi la ragione fondamentale di ciò che devo fare e del modo con cui devo farlo. Quanto è necessario mettere in risalto i diritti di Dio che l’empietà così arditamente nega e la pietà trascura così inconsciamente! Non saprò mai metterli al posto che loro spetta; soltanto la loro elevazione è capace di elevarmi. Più Dio dominerà la mia vita, più l’attirerà. Sì, o Signore, datemi la grazia di riconoscere il vostro potere, di rispettare la vostra autorità, di sottomettermi alle vostre leggi, onde partecipare, mediante la mia sottomissione, ai beni del vostro regno; di essere ammesso alla vostra eredità e di regnare eternamente con voi nella gloria dell’immortalità.

 

  1. Questioni circa la via e i mezzi. – Il diritto di Dio a reggere la creatura lo vedrò, almeno per la determinazione del suo esercizio, nella seconda Parte, ove mi propongo di studiare le vie del lavoro di costruzione della mia vita. Ivi vedrò come il suo potere mi governi e in che modo io debba sottomettermi. Quest’argomento continuerà pure nella terza Parte, ove mi riserverò di considerare l’impiego dei mezzi, creati da Dio, attualmente nelle sue mani e messi a mia disposizione. Ivi conoscerò come il suo dominio disponga che gli esseri servano alla mia santificazione e in qual modo desideri che adatti i miei propri mezzi allo scopo da lui assegnato. Ma bisogna, fin d’ora, stabilire il principio generale la cui luce rischiarerà anche le riflessioni della prima Parte. Cerchiamo adunque di conoscere quale è il diritto di Dio a reggere gli uomini e il creato. Le conseguenze, per gli uomini, saranno dedotte ne « La Via »; quelle per il creato, ne « I mezzi ».

 

  1. I suoi diritti risultano dalla creazione. – Il diritto di Dio a reggere ciò che ha creato deriva necessariamente dal fatto creativo. Qual è l’uomo che pianta un albero nel suo campo e non ha pieno potere sulla coltivazione e sui frutti di esso? Tuttavia il proprietario, pur essendo il possidente, non ha creato né la terra né la semente né gli elementi né gli strumenti per lo sviluppo dell’albero; egli non dà all’albero né l’energia né la vita né la fecondità. E tuttavia, chi gli può contestare il dominio di coltivazione? L’albero è suo, si dice, e ne fa quel che vuole. Benissimo. Se la ragione riconosce l’inalienabile legittimità di questo dominio, quanto più dovrà affermare la sovrana autorità di Dio sull’uomo, che gli appartiene completamente, anima e corpo, facoltà e attitudini, vita e potenza di vita! quanto più dovrà ammettere il dominio sulle creature, messe a servizio dell’uomo e fatte da Dio in tutto ciò che sono e hanno, in tutto ciò che fanno e possono fare!

 

  1. Il Signore. – Per diritto di creazione, Dio è padrone assoluto. Egli non cessa di affermare, nelle Sacre Scritture, che intende essere e restare il padrone. Che cosa è l’Antico Testamento se non un’affermazione ripetuta attraverso quaranta secoli, dei diritti del Signore? Egli li ha proclamati prima che fossero misconosciuti; ne ha reiterate le dichiarazioni contro tante infrazioni, così che sarebbe impossibile enumerare le volte che ripete: Sono io il Signore. Egli rivendica il suo impero sull’umanità, sull’universo. Benedizione e castighi vengono dalle sue mani. Se si viola il suo dominio, egli ne vendica l’ingiuria; se si rispetta la sua autorità, egli ricompensa la fedeltà. La terribile libertà dell’uomo si rivolta spesso contro di lui; ma le disgrazie che sopravvengono attestano che i diritti divini sono inalienabili. Si possono contestare, ma non sopprimere. Egli è il Signore e resta tale, nonostante tutte le negazioni empie, oblianti o sprezzanti.

 

  1. Il servo. – Se Dio è il Signore, l’uomo è il servo; se il Signore comanda, il servo deve obbedire. Quando il padrone rinuncia a qualche suo diritto, il servo è libero dall’obbligo corrispondente. Ma Dio non rinuncia ad alcun diritto; egli li conserva e li esercita tutti. L’universo è suo e lo governa con la sua provvidenza. L’uomo, che è suo servo e che egli vuol rendere figlio ed erede, è in linea diritta con la sua paternità. Dio ha date le sue leggi al mondo e le creature stanno soggette ai suoi ordini e al suo governo. L’uomo ha pure ricevuto delle leggi; perché, allora, fra gli esseri, dev’essere il solo a contravvenire alle disposizioni e all’azione del suo creatore? Triste lo spettacolo di questa creatura privilegiata, che trova, nei privilegi stessi della sua grandezza, l’occasione di mettersi al di sotto di tutto ciò che obbedisce! L’uomo è chiamato ad essere servo libero, dipendente volontario, figlio amante; e la sua libertà scuote il giogo, la sua volontà rigetta il dominio, la sua filiazione ingiuria la paternità. È dunque il caso di meravigliarsi se lo colpiscono funesti mali? Tutto ciò fa comprendere sempre meglio che la gloria data al padrone è l’unica sorgente di felicità per il servo.

 

  1. In dipendenza assoluta. – Non vi è nulla, in nessuna creatura, che non sia totalmente nelle mani di Dio. Non vi può dunque essere nulla nella mia vita che non gli sia sottomesso. Se non lo sarà per spontanea deferenza, lo sarà per forzata necessità. E poiché voglio sforzarmi a mettere nella mia esistenza l’equilibrio voluto dalla legge di creazione, devo concludere che tutti i miei movimenti liberi debbono essere sottomessi alla direzione di colui che è mio dominatore. Egli ha il diritto ed esige i miei frutti di gloria e la mia collaborazione; ha il diritto ed esige di ordinare gli stessi mezzi che prendo. Che altro posso fare allora se non applicarmi per fare trionfare la sua autorità su questi tre punti? Bisogna che io sappia quello che egli vuole come fine da raggiungere, come via da seguire, come mezzi da adoperare; e dopo averlo saputo, vuole che mi applichi e mi consacri totalmente ad essi. Così egli sarà il mio Signore e io il suo servo. Se saprò, da servo buono e fedele, seguire il padrone secondo i suoi ammaestramenti, arriverò, conforme alla sua promessa, là dove egli è; e dopo averlo seguito, sarò incoronato di gloria dal Padre Celeste (cf. Gv 12, 26).

Dionigi il certosino: La contemplazione della sovressenziale e gloriosa Trinità

Dionigi il certosino: La contemplazione della sovressenziale e gloriosa Trinità

Dal Trattato

Elogio della vita solitaria

La contemplazione della sovressenziale e gloriosa Trinità

Il Padre eterno e il suo Figlio Unigenito si guardano l’un l’altro eternamente e si comprendono in pienezza nella carità con una compiacenza totale e una gioia senza fine per intensità e perfezione. Questo loro contemplarsi, amarsi e comprendersi reciprocamente, in una eternità senza mutamenti, è in essi fonte d’una specie di fervore comune, di amore veemente, fervido e singolare oltre ogni dire: amore che sussiste in sé, comune volontà del Padre e del Figlio, perfettamente uno, sicché quest’amore procede immediatamente da entrambi.

Quest’amore non è chiamato Figlio, ma Spirito Santo, benché sia consustanziale al Padre e al Figlio. Emana ed esce dai due non come una semplice proprietà comune o come reciproca somiglianza, ma come impulso d’amore, come tendenza dell’uno verso l’altro. Egli è l’amore del Padre spirato nel Figlio e viceversa. Giustamente, perciò, è chiamato “amore”, “soffio”, “vincolo”, “unione”, “pace”, “bacio”, “soavità” e “abbraccio” del Padre e del Figlio.

In questa Trinità augusta e beata ciascuna delle divine Persone ama ad un tempo se stessa e le altre due di un amore la cui dolcezza, fervore e intensità superano ogni possibile misura. E poiché ogni Persona contempla le altre due e ne gode pienamente, il loro vicendevole amore è fonte

di infinito diletto. In breve, ogni Persona increata si guarda e guarda le altre due con una letizia infinita, ne gode con somma dolcezza e ama con fuoco inestinguibile. Ecco la vita, la beatitudine e la gloria dell’augusta Trinità. Non è possibile immaginare una realtà più soave, più quieta, più felice di quest’amore intratrinitario, di questo reciproco amplesso dei Tre, della loro gioia personale e comune ad un tempo.

Contempliamo queste realtà indicibili con dolce sobrietà; rallegriamocene con semplicità piena d’amore. Cerchiamo di abbandonare totalmente noi stessi per essere potentemente elevati dall’amore, trasformàti e stabiliti nell’abisso di luce e di verità eterne. Là non presteremo più attenzione alla nostra persona o ai nostri atti; non ricorderemo più niente di quanto

è creato. Là noi saremo una cosa sola con il Signore.

 

La “cella di rigore”

La “cella di rigore”

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Portone accesso cella di rigore  (Villeneuve les Avignon)

L’argomento di cui voglio parlarvi in questo articolo di oggi, lo avevo già trattato nel sito alcuni anni orsono. Vi parlerò della cosiddetta  cella di rigore. Trattasi di un tema alquanto controverso, poiché non supportato da documenti che ne spieghino l’esatto funzionamento e le eventuali prescrizioni che lo regolavano.

Nella certosa francese di Villeneuve-les-Avignon, ed in quella di Scala Coeli ,ad Evora, in Portogallo vi sono rare tracce, testimonianza di quegli ambienti tipici delle fondazioni del Medio Evo destinati a celle di rigore o prigione. Di questa cella particolare, si sa, che era contraddistinta dagli spazi molto ridotti, circa 12 m² e costituita da un tavolo un camino ed un letto, inoltre su di una parete vi era un lucernario, che consentiva al penitente di poter osservare un altare posto in una stanza prospiciente, per poter seguire l’ufficio. Subivano l’onta di questo luogo, tutti quei religiosi che si concedevano qualche sbavatura alla severa regola certosina. Un sistema adoperato dal Priore per raddrizzare quei giovani monaci forti nella vocazione ma deboli nell’assimilare la disciplina.

Come sempre auspico, sarebbe interessante una interazione con chiunque abbia altre informazioni su questo argomento. Vi invito ad inviarmi ulteriori notizie per corroborare questo scarno articolo.

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Cancello ingresso cella di rigore (Scala Coeli) foto di Paulo Falcao Tavares

cella prigione

Grata recinzione (Scala Coeli) foto di Paulo Falcao Tavares

La certezza della reale esistenza di questa cella di rigore è testimoniata anche da una lettera che santa Caterina da Siena, amica dei certosini, scrisse ad un monaco recluso in una di essa,in una imprecisata certosa. Vi allego il testo:

Ad un Monaco della Certosa essendo in carcere

Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.

A voi, dilettissimo e carissimo fratello in Cristo Gesù, io Catarina, serva e schiava de’ servi di Dio, scrivo, e confortovi nel prezioso sangue del Figliuolo suo; con desiderio di vedere il cuore e l’anima vostra unito e trasformato nel consumato amore del Figliuolo di Dio. Perocchè senza questo vero amore non possiamo avere la vita della Grazia, nè portare i pesi con buona e perfetta pazienzia. E questa vera carità non veggo, carissimo fratello, che possiamo avere, se l’anima non ragguarda lo inestimabile amore che Dio ha avuto a lui; e singolarmente vederlo svenato in sul legno della santissima croce, dove solo l’amore l’ha tenuto confitto e chiavellato.

Dicovi, carissimo fratello, che non sarà veruna amaritudine che non diventi dolce, nè si gran peso che non diventi leggiero. Ho inteso la molta fadiga e tribulazioni, le quali voi avete; cioè reputiamo noi, che siano tribulazìoni, ma se noi apriremo l’occhio del cognoscimento di noi medesimi, e della bontà di Dio, ci paranno grandi consolazioni. Del cognoscimento di noi, dico; cioè, che noi vediamo, noi non essere; e come siamo sempre stati operatori d’ogni peccato e iniquità. Perocchè quando l’anima ragguarda sè avere offeso il suo Creatore, sommo ed eterno bene, cresce in uno odio di sè medesima, intanto che ne vuole fare vendetta e giustizia; ed è contenta di sostenere ogni pena e fadiga per satisfare all’offesa che ha fatta al suo Creatore. Onde, grandissima grazia reputa che Dio gli abbia fatta, che egli il punisca in questa vita, e non abbia riservato a punire nell’altra, dove sono pene infinite. O carissimo fratello in Cristo Gesù, se noi consideriamo la grande utilità a sostenere pene in questa vita, mentre che siamo peregrini, che sempre corriamo verso il termine della morte, non le fuggiremo. Egli ora ne segue molti beni dallo stare tribolato. L’uno si è, che si conforma con Cristo crocifisso nelle pene e obbrobri suoi. Or che può avere maggiore tesoro l’anima che essere vestita dagli obbrobri e pene sue? L’altro si è, che egli punisce l’anima sua, scontando i peccati e i difetti suoi, fa crescere la grazia, e porta il tesoro nella vita durabile, per le sue fadighe, che Dio gli dà, volendola remunerare delle pene e fadighe sue.

Non temete, carissimo fratello mio, perchè vedeste o vediate che il dimonio, per impedire la pace e la pazienzia del cuore e dell’anima vostra, mandi tedi e tenebre nell’anima vostra, mettendovi le molte cogitazioni e pensieri. Ed eziandio parrà che ‘l corpo vostro voglia essere ribello allo spirito. Alcuna volta, ancora, lo spirito della bestemmia vorrà contaminare il cuore in altre diverse battaglie; non perchè creda che l’anima caggia in quelle tentazioni e battaglie, perocchè già sa che egli ha deliberato d’eleggere la morte innanzi che offendere Dio mortalmente con la volontà sua; ma fàllo per farlo venire a tanta tristizia, parendogli offendere colà dove non offende che lasserà ogni esercizio. Ma non voglio che facciate cosi; perocchè non debba l’anima mai venire a tristizia per neuna battaglia che abbia, nè lassare mai veruno esercizio, o officio, o altra cosa. E se non dovesse fare altro, almeno stare dinanzi alla croce, e dire: Gesù, Gesù! Io mi confido in domino nostro Jesu Christo. Sapete bene: perchè vengano le cogitazioni, e la volontà non consente, anco vorrebbe innanzi morire, non è peccato: ma solo la volontà è quella cosa che offende.

Adunque vi confortate nella santa e buona volontà, e non curate le cogitazioni: e pensate, che la bontà di Dio permette alle dimonia che molestino l’anima vostra per farci umiliare e ricognoscere la sua bontà, e ricorrere dentro a lui nelle dolcissime piaghe sue, come il fanciullo ricorre alla madre. Perocchè noi benignamente saremo ricevuti dalla dolce madre della Carità. Pensate che egli non vuole la morte del peccatore; ma vuole che si converta e viva. é tanto smisurato amore, che ‘l muove a dare le tribolazioni, e permettere le tentazioni quanto le consolazioni; perocchè la sua volontà non vuole altro che la nostra santificazione. E per darci la nostra santificazione, diè sè medesimo a tanta pena, e all’obbrobriosa morte della santissima croce. Permanete dunque nelle piaghe dolci di Gesù Cristo, e nella santa dilezione di Dio. Gesù dolce, Gesù amore.

 

La vita interiore di F. Pollien Capitolo IV

La vita interiore di F. Pollien Capitolo IV

LA VITA INTERIORE

semplificata e ricondotta al suo fondamento

Dom François Pollien

copertina libro

ANTERIORITA DEL DIVINO

  1. Le due pagine del libro della creazione. – 43. La gloria, sorgente di felicità. – 44. In Domino. – 45. La gioia del Signore. – 46. Supremazia divina.
  1. Le due pagine del libro della creazione. – Poiché il divino è talmente, per essenza, anteriore all’umano, ne deriva logicamente, come conseguenza pratica, che nessun ragionamento, nessun fatto reale può posporre l’interesse divino a quello umano. L’ordine è troppo essenziale per poter essere impunemente capovolto. Io non posso perciò né vedere, né volere, né cercare la mia felicità prima dell’onore di Dio. Egli ha un diritto inalienabile di precedenza e di eccellenza. « Un discepolo non è da più del Maestro, né un servo da più del suo padrone » (Mt 10, 24). Gloria di Dio e felicità dell’uomo sono due pagine di un medesimo foglio, che si susseguono e che non bisogna né separare, né invertire sotto pena di travolgere il senso del libro della creazione.

Dunque: subordinazione logica e pratica del mio interesse a quello di Dio. Egli il primo; io il secondo; la sua gloria prima di tutto; la mia felicità poi. Quest’ordine s’impone alle mie convinzioni, ai miei affetti, alle mie azioni.

  1. La gloria, sorgente di felicità. – L’anteriorità del divino non è soltanto un fatto di ragione, ma è anche un fatto di vita. La mia felicità non è solo posteriore alla gloria di Dio ma deriva da essa; in pratica, non può essere diversamente. Infatti, io non posso salvarmi, se non servo Dio. Nel servizio il merito, dal merito la ricompensa. Come non si può concepire un figlio prima o senza madre, così non si può pensare ad un interesse al di sopra o all’infuori di quello di Dio. Solo la gloria può generare la felicità. Nostro Signore l’attesta ai suoi apostoli: « Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15, 11). Che cosa dice loro? Di dimorare nel suo amore mediante l’osservanza dei suoi comandamenti, cioè di glorificare con lui il Padre suo, secondo le leggi che egli ha dato.

La gioia di Gesù sta nella gloria del Padre suo, e la gioia degli Apostoli non sarà piena, pienamente vera, se la gioia di Gesù non sarà in loro. Essi, dunque, devono attingere dalla gloria, per rendere piena la loro felicità.

  1. In Domino. – La conclusione prende un nuovo aspetto. L’inizio della mia felicità, attinta dalla gloria di Dio, non è un fatto posto una volta per sempre e che si possa separare dalla sua causa, più di quanto si possa separare il tronco dalle sue radici o il ruscello dalla sua sorgente. Ogni atto sarà beatificante in quanto è glorificante. La mia gioia deve nascere dalla gloria e restare in essa. Il giusto avrà la sua gioia nel Signore (cf. Sal 63, 11). Gioite nel Signore ed esultate, giusti (cf. Sal 31, 11). Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi (Fil 4, 4). La Scrittura abbonda di passi che ripetono questo pensiero profondo: la gioia del giusto è nel Signore. – Che significa la gioia del giusto? – La gioia che gli è propria, la sua, perché c’è una gioia esclusivamente del giusto. Vi dò la pace, la mia, e non quella del mondo, dice il Salvatore (Gv 14, 27). Questa gioia del giusto, che è la sua propria, la vera gioia, la sola vera, perché essa è la sola conforme all’ordine divino, questa gioia, dov’è? dove si attinge? donde viene? dove va? dove dimora? In Domino, nel Signore; essa è in Dio, si attinge da Dio, viene da Dio, va a Dio, dimora in Dio.
  1. La gioia del Signore. – Dio, Dio solo vuole essere la sorgente piena ed infinita della mia felicità. È in lui, in lui solo che vuole beatificarmi; e in quale misura! e in qual modo!… Egli vuole consumare la mia vita nell’unità della sua, darmi in eterno l’estasi della visione beatifica, inebriarmi delle ricchezze della sua casa, farmi godere i torrenti delle sue delizie (cf. Sal 35, 9). La felicità sarà così piena che, non solo potrà entrare in me, ma io entrerò in essa; traboccherà in me da tutte le parti e da nessun lato ne toccherò i limiti. Entra nel gaudio del tuo Signore (cf. Mt 25, 21), sarà l’ineffabile parola che inviterà il servo all’eterno banchetto. Gaudio talmente grande che è soprannaturale; talmente soprannaturale che supera la capacità propria di ogni creatura possibile. Dio non ha voluto contentarsi di ricevere da me una gloria puramente naturale, bensì ha vo-luto dare alla mia natura, nella sua unione con lui, una capacità soprannaturale per glorificarlo. Ugualmente, egli non si accontenta affatto di darmi una capacità naturale per una felicità finita, ma produce in me una capacità soprannaturale per una felicità infinita. Mio Dio! concedete al mio essere di dilatarsi in tutta la capacità soprannaturale di gloria e di felicità che gli avete elargito e che un giorno io giunga alla beatitudine immortale, ove il canto delle vostre lodi sarà il mio banchetto eterno! Beati coloro che abitano nella vostra casa, poiché essi vi lodano per tutta l’eternità (cf. Sal 83, 5).
  1. Supremazia divina. – La supremazia della sovrana maestà deve essere servita, innanzitutto per se stessa; deve dominare, dall’altezza della sua eternità, i miei diritti e le mie speranze di immortalità, di cui è la sorgente; deve orientare i miei progressi, che le serviranno di trionfo; deve imporsi alla mia vita, in terra e in cielo, come fine superiore di quello che sono, sarò e dovrò fare, ad ogni istante, nel tempo e nell’eternità; deve reclamare tutte le mie energie e promettermi la benedizione della mia beatitudine. Questa supremazia dominerà, da una ben maggiore altezza, gli interessi utilitari che le creature e i loro piaceri mi recheranno, come vedrò in seguito. Se la sua dignità sorpassa già di molto la mia vita, quanto più sorpasserà ciò che ne è solo strumento! Questa è la supremazia del fine, ed avrò modo nella prima Parte, in cui voglio studiare il fine, di dedurre tutte le conseguenze fino alla loro ultima conclusione. Una volta riconosciuto il principio dell’anteriorità del divino sull’umano, è impossibile sottrarsi alle deduzioni che conducono alla consumazione dell’unità in Dio.