LA VITA INTERIORE
semplificata e ricondotta al suo fondamento
Dom François Pollien
CAPITOLO IV
L’ISOLAMENTO
Effetti generali
447. Definizione. – 448. I cassetti. – 449. La svogliatezza. – 450. La sterilità.
447. Definizione. – I difetti che pervertono la concezione stessa della vita e ne falsificano lo scopo sono di loro natura i più perniciosi, perché lo scopo domina tutto. Gli altri, che contrastano l’unità della vita e nuocciono al suo ordinamento, sono ugualmente dannosi, perché l’unità è necessaria alla vita e l’ordinamento è necessario all’unità. Segnaliamo, tra gli altri, l’isolamento che altera l’ordine e spezza l’unità degli esercizi, e l’incostanza che è la mancanza di legame e di continuità nei movimenti dell’anima. L’uno causa la sconnessione delle pratiche, l’altro la sconnessione delle facoltà.
Innanzitutto vediamo l’isolamento. Chiamo isolamento l’abitudine di ripartire la propria giornata in parti sconnesse, separate, destinate ciascuna ad un’occupazione distinta, senza che tra esse vi sia corrispondenza né influenza né legame vitale. Non si tratta qui della santissima, utilissima e necessaria abitudine di una regolarità armonica e vivente, che stabilisce ad ogni azione il suo posto e il suo momento, secondo le esigenze del dovere e degli avvenimenti. La regolarità è una grande e indispensabile qualità. Chi vuol vivere per Dio deve vivere secondo una regola. Ho già trattato a sufficienza, nel capitolo precedente (n. 444), la necessità che ciascuno ha di conformarsi alle regole del proprio stato.
Nessun vocabolario dà, come sinonimi, questi due termini: regolarità ed isolamento; sarebbe come dire che salute e malattia sono sinonimi. L’isolamento, infatti, è la malattia e la morte della regolarità. Isolare, confinare, chiudere, significa arrestare la circolazione della vita, stabilire una separazione mortale che produce l’effetto di una fasciatura o quello dell’amputazione di un membro. Bisogna svincolare la regolarità dal suo isolamento, per renderla libera e feconda.
448. I cassetti. – Questa previsione materialistica della regolarità, questo regolamento meccanico, fa della vita un mobile a scompartimenti. Al mattino apro un cassetto: meditazione. Mezz’ora dopo lo chiudo; ciò basta per quel giorno. Più tardi ne apro un altro: ufficio divino; tre quarti d’ora ed è richiuso. Così per le altre pratiche ed occupazioni; ognuna ha il suo cassetto. Gli esercizi di pietà sono, in tal modo, confinati in un angolo della giornata, separati dalla corrente vitale e non esercitano sull’anima che l’influenza del momento, se pure la esercitano… L’insieme della mia vita è sconnesso, privo di unità.
Il pensiero di Dio è rinchiuso in alcuni cassetti di esercizi, e non esce che ad intervalli fissi. Talora esso appare, ma non come abitudine dell’anima, bensì come atto transitorio. È un ricordo della memoria, o una scintilla dell’immaginazione, ma non un principio vitale. Esso non compenetra l’essere, non ispira i pensieri, non alimenta l’amore, non dirige le azioni. Dovrebbe essere la vita della mia vita; invece non è che un accessorio; dovrebbe unificare l’anima, le sue azioni, i suoi affetti, le sue idee, la sua vita intera e farne un tutto compatto, coerente; invece io vivo troppo fuori di esso. La mia vita, i miei esercizi diventano così una successione abbastanza disordinata di particolari spesso in lotta gli uni contro gli altri.
449. La svogliatezza. – Gli esercizi di pietà sono allora compiuti molto male. Non orientando la mia vita, perché non ne sono l’anima, mi riescono di peso. Essi stonano troppo nell’insieme delle mie occupazioni e preoccupazioni. L’anima mia, dovendo farsi violenza per arrestare il corso delle sue disposizioni abituali ed elevarsi ai sentimenti richiesti per questi esercizi, ha fretta di sbarazzarsi di questo costringimento e farla finita con essi. Sono un peso che mi addosso con pena, che lascio con piacere e da cui mi esento quanto più mi è possibile. Io soccombo così alla precipitazione e alla svogliatezza, conclusione affatto naturale di questo triste modo di isolare gli esercizi di pietà. Se non arrivo sempre a questo punto, i miei esercizi non hanno però alcuna espansione; concedo loro il tempo strettamente richiesto, li faccio approssimativamente, ma non progredisco.
450. La sterilità. – Isolando i miei esercizi, li sterilizzo e li annullo. « La religione vera e viva, dice il Solov’èv, non è una specialità, un dominio separato, un angolo a parte nell’esistenza umana. Rivelazione diretta dell’assoluto, la religione non può essere qualche cosa; essa è tutto o nulla ». Ciò che Solov’ev dice della religione, io lo dico degli esercizi di pietà, che ne sono l’applicazione alla vita pratica (n. 229). Se essi non penetrano interamente la vita, sono nulla.
L’esperienza m’insegna questa triste verità. Perché i miei esercizi si trascinano penosamente a guisa di moribondi? Perché, non formando il tutto della mia vita, ma solo un angolo separato, non sono altro che agonizzanti, pronti ad emettere l’ultimo gemito, ed ai quali riesco a stento mantenere un soffio di vita. Tutto li uccide, ed essi si uccidono a vicenda, perché sconnessi, distaccati, urtano in tutto e cozzano tra loro. Questi urti sono mortali. Vedrò più avanti (n. 462) come si possano evitare e come gli esercizi possano rivivere e diventare nuovamente il tutto della mia vita.
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