In questo giorno di festa, cari lettori, vi propongo un delizioso sermone di Dom Andrè Poisson. Egli lo lesse alla sua comunità l’8 dicembre del 1983
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“Il rigore della clausura diventerebbe un’osservanza farisaica se non fosse il segno di questa purezza di cuore a chi solo è promesso di vedere Dio”. (SR6.4)
LA SOLITUDINE SECONDO BRUNO
Immacolata Concezione 1983
Maria immacolata, puro specchio dell’Altissimo, accoglienza perfettamente limpida del Verbo di Dio, permane per l’eternità il modello mai eguagliato di tutta la via contemplativa. In lei si adempie, per sempre, la beatitudine dei cuori puri e, di lei, i nostri Statuti dicono che è la sola fiamma segreta che dona senso alla nostra solitudine. In questa luce verginale della Madre di Dio io vorrei, ancora oggi, che ci mettessimo all’ascolto di San Bruno. Lasciamo che egli ci parli e che ci dica ciò che era per lui la solitudine, di cui lo Spirito Santo gli aveva insegnato la profondità.
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Innanzitutto, sottolineiamo che Bruno, nelle sue lettere, non sembra fermarsi per nulla alla solitudine materiale, anche se è evidente che essa costituisce le fondamenta di tutto ciò che scrive. Parlando a Raoul della vita che egli conduce in Calabria, si accontenta di dire: “Io abito in un deserto separato, in ogni suo lato, da tutte le abitazioni” , senza insistere di più sulla lontananza dal mondo.
Scrivendo ai suoi figli della Certosa, non gli viene in mente di affrontare il tema della solitudine del luogo della Certosa, tanto la cosa è chiara. Egli ci ha vissuto. Ha sperimentato il taglio radicale che vi si effettua nei confronti delle regioni abitate circostanti. Cosa potrebbe egli aggiungere che non conoscano e non vivano già i suoi fratelli? Forse vi è un richiamo discreto di tutto ciò, quando egli dice ai: “suoi figli amatissimi in Cristo… : Io ho imparato l’inflessibile rigore della vostra osservanza saggia e veramente degna di elogi”.
Ma alla fine sentiamo bene che il cuore di Bruno pensa ad altro e non a parlare della salvaguardia del deserto.
Per contro, noi lo sentiamo molto vicino al testo degli Statuti col quale abbiamo incominciato, quando prosegue nella medesima lettera: “Io ho sentito il nostro felicissimo fratello Landuino dirmi il vostro santo amore e il vostro zelo instancabile per la purezza del cuore e della virtù”.
Bruno è un maestro in materia di solitudine, ma la sua inclinazione è di scrutarne la dimensione spirituale, senza indugiare nell’osservanza esteriore che essa implica, con evidenza, ai suoi occhi.
Il primo sentimento che sgorga sotto la penna di Bruno è che la solitudine vera, la solitudine stabile e profonda è un dono totalmente gratuito di Dio: “Rallegratevi, miei cari fratelli, della vostra beata sorte e dell’abbondanza delle grazie che Dio vi ha prodigato… Rallegratevi di essere entrati in possesso del riposo e della sicurezza, avendo potuto gettare l’ancora nel porto più nascosto” . La solitudine è una grazia da ricevere con riconoscenza. Essa non è l’opera della nostra volontà, per perseverante che sia. Essa non è il frutto d’una tecnica umana. Come non avere desta attenzione per l’insistenza con la quale Bruno rammenta questa verità che noi corriamo il rischio di dimenticare in eterno? “Molti vorrebbero arrivarci; molti vi si sforzano senza mai riuscirci; molti infine, dopo esserci giunti, non vi sono ammessi, poiché ad ognuno di loro il cielo non l’ha accordato “.
E Bruno non esita a concludere: temiamo di “perdere questa beatitudine così desiderabile per una ragione o per l’altra” se non vogliamo “provare pena continua” . La solitudine, soprattutto la solitudine interiore, quella in cui si gioisce nella pace del riposo e della sicurezza, questa solitudine si può perdere. Che il Signore ci conservi un cuore riconoscente alla sua grazia.
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Fermiamoci su di un altro aspetto della vita solitaria, tale la si percepisce sotto la penna di Bruno. Essa è austera, aspra, esigente. Senza dubbio egli non ha sviluppi speciali consacrati a questo tema, ma lo si percepisce in filigrana lungo tutto il corso delle lettere. E’ una realtà normalissima agli occhi di Bruno e lui ne parla soprattutto a proposito delle conseguenze pratiche di questo “inflessibile rigore” dell’osservanza solitaria. Egli menziona a Raoul, per esempio, “le fatiche dello spirito troppo fragile” che gli sono imposte dal “rigore della disciplina regolare e dagli esercizi spirituali “ .
Più significativo ancora è il piccolo incidente sopravvenuto nella comunità della Certosa, il quale obbliga Bruno ad aprire gli occhi dei monaci sul loro dovere di fronte alla santità vacillante del loro padre e priore. Certo, essi lo amano molto profondamente, ma per fedeltà al rigore della loro vita essi non osano intervenire e procurargli addolcimento, di cui è tuttavia evidente che egli abbisogna.
Da parte sua, Landuino, temendo di correre il rischio d’incitare al rilassamento l’uno o l’altro dei suoi fratelli, forse “preferisce mettere la sua vita in pericolo piuttosto che mancare in qualche cosa al rigore dell’osservanza”.
Di fronte a questo eccesso, Bruno reagisce con prontezza. “Ciò è inaccettabile!”, poiché è sicuro che non vi è alcuna possibilità di trascuratezza fra i compagni di Landuino.
Eccoci dunque immersi in un mondo monastico in cui è di rigore una grande austerità. Bruno, tuttavia, non teme di dire che essa è “saggia e degna di elogi”. E la migliore prova è l’atmosfera di gioia che essa irradia. Bisognerebbe moltiplicare le citazioni che fanno percepire la gioia permanente di Bruno, quella alla quale egli invita i suoi fratelli, quella che egli promette a Raoul se, a suo turno, verrà nel deserto. Poiché si tratta veramente di una grazia del cielo che fiorisce in solitudine: “Qui, in premio dello sforzo del combattimento, Dio dona ai suoi valorosi la ricompensa attesa: la pace che il mondo ignora e la gioia nello Spirito Santo” .
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Diciamo una parola, infine, della straordinaria tenerezza che irradia dalle parole di Bruno, poiché si tratta della sua propria confessione, di una dimensione essenziale della vita solitaria, tale egli la vive e tale egli la desidera condividere con coloro che ama. Tenerezza per Dio, ma ugualmente tenerezza per gli uomini. Cominciamo da quest’ultima.
L’abbiamo già notato: nulla ci porta a credere che per Bruno la solitudine sia un rifiuto degli altri, un muro alzato tra lui e i suoi fratelli. Al contrario, lo si sente attento a tutte le dimensioni di un’autentica carità. La sola parola un po’ dura riguarda i “laici oziosi e girovaghi “ che, in prossimità della Certosa, rischierebbero di contaminare i fratelli conversi se essi non “li fuggissero come la peste”.
Per esser brevi, fermiamoci ad un solo passaggio poiché è senza dubbio il più significativo: quello in cui Bruno domanda ai suoi fratelli della Certosa di meglio vigilare sulla santità di Landuino. In termini appena velati, Bruno fa sentire loro che essi sono prigionieri di un’osservanza troppo materiale, così come il loro priore senza dubbio. E tuttavia che testimonianza di tenerezza fraterna Bruno offre agli uni e agli altri!: “Ho voluto custodire vicino a me il fratello Landuino a causa delle sue gravi e numerose malattie. Ma per lui è fuori questione di ritrovare lontano da voi la santità, la gioia, la vita, né altro che valga ed ha opposto un rifiuto. Le sue lacrime abbondanti per voi, i suoi sospiri ripetuti testimoniano apertamente quanto voi contate per lui e di quale amore senza macchia egli vi ami tutti. Io, pure, non ho voluto forzarlo al fine di non ferire alcuno: né lui, né voi che mi siete così cari in ragione delle vostre virtù”.
Il cuore di Bruno si lascia vincere senza resistenza dall’amore di Landuino per i suoi fratelli. Non è indifferente, in effetti, al priore della Certosa di essere in cella a mille miglia dai suoi fratelli o vicinissimo a loro. La sua solitudine, per essere autentica, deve essere una comunione d’amore vissuta ogni giorno con loro, in mezzo a loro.
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La tenerezza divina che dischiude nel cuore di Bruno la vita nel deserto, si trova soprattutto cantata in ciò che io chiamavo l’Inno alla solitudine (A Raoul, 6 e 7). Al di fuori di tutte le teorie, Bruno lascia semplicemente parlare l’esperienza che sta vivendo. Si esita a cominciare o a parafrasare questo racconto dell’incontro segreto tra Dio e il nostro beato Padre. Non sarebbe meglio dire che noi dobbiamo soprattutto sforzarci di seguirlo? Noi siamo veramente vicino alla sorgente nascosta che scaturisce dal fondo del deserto. Che noi sappiamo percorrere tutte le tappe necessarie per giungervi e attingervi sull’esempio di Bruno. Egli ci ha confidato il suo segreto. Egli ci dice, così, che cosa sia la solitudine per lui. Egli non la vede come un luogo di orrore e di spoliazione inumano, ma gli dona i tratti di queste donne della Bibbia, di cui la tenerezza misteriosa e nascosta gli è sembrata più significativa. La solitudine è la bella Rachele poco feconda, è la bella Sunammita che deve infuocare il nostro cuore, è la migliore parte attribuita da Gesù a Maria di Betania.
Che la Vergine Immacolata ci aiuti a scoprire questa solitudine, luogo d’incontro con Dio. Maria, madre di Gesù: non è lei, più di chiunque altro, questa solitudine benedetta e piena di grazia dello Spirito Santo?
Amen
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