
i Padri nel coro
Prosegue oggi l’approfondimento sul canto certosino, estratto dal testo scritto da Dom Benoit du Moustier Lambres, quindi fonte fedele, ed esplicativo sul canto dei certosini.
Ecco a voi il settimo capitolo….
LE CHANT DES CHARTREUX
Dom BENOIT-M. LAMBRES, O. Cart. (certosa di La Valsainte)
VII DISCIPLINA CORALE, USI
La prima codificazione delle regole certosine – le Consuetudini di Guigo I (tra I 121 e I 128) – non contiene altre prescrizioni riguardanti la disciplina corale se non quelle che regolano la recordatio, una classe di canto obbligatoria per tutti, compreso il Priore (Consuetudines, IV, 24; VII, I; IX, 3).
Ci siamo ritrovati per questo nel chiostro dopo Nona , il sabato e la vigilia di tutte le feste di 12 lezioni, per esercitarci nel canto dei lezionari e nella di caetera necessaria, cioè di tutto ciò che richiedeva anche la preparazione. Come già indica il termine recordatio, questo esercizio aveva lo scopo di memorizzare il repertorio. A quel tempo, e ancora molto tempo dopo, imparammo la canzone a memoria, altrove come in Certosa. I libri dei canti erano particolarmente lunghi da trascrivere e la pergamena necessaria alla loro preparazione era costosa: per avere abbastanza foglie per un intero celebre antifonario, dovevi uccidere un intero gregge di pecore!
Da qui anche l’uso frequente di abbreviazioni nel testo e nelle melodie, che rendevano difficile la lettura se non si era preparati. Inoltre, l’illuminazione era molto carente. Siamo stati quindi obbligati a conoscere i canti a memoria. Ogni certosa, di solito, aveva solo uno o due antifonari, che servivano per imparare i canti a memoria e anche come ausili per la memoria durante l’Ufficio, per coloro che ne avevano bisogno. Quindi, l’antifonario è stato esposto al leggio, ed illuminato da una candela.
All’inizio del XIV secolo. ancora, l’autore certosino del trattato “De origine et veritate perfecte religionis” attesta che ipsum cantum tam diurnum quam nocturnum … quasi addiscunt mentetenus, et cordetenus cantant, ut per inspectionem libri non possit devotio impediri” (Norimberga, ms. C. VI. 80, fo 2Io). – Notare la giustificazione spirituale che è stata innestata nella quasi necessità dell’ordine materiale di questa pratica. Quasi un secolo dopo, un cerimoniale certosino, dopo aver indicato con quali parti il novizio dovrebbe iniziare a memorizzare il repertorio dei canti, aggiunge: Deinde, si Deus dederit sibi gratiam, potest totum antiphonarium impectorare, prout olim in Domo Cartusie consueuit. Questo fraseggio lascia intravedere un rilassamento nell’usanza citata. Tuttavia, sempre nel 1430, un’ordinanza capitolare regola il cerimoniale che deve essere seguito da coloro che devono andare a cantare ad librum, all’unico libro, che era al leggio.
Un monaco certosino del XV secolo, autore dell’opuscolo “De triplici statu religionem ingredientium”, prescriveva la stessa pratica e ne evidenziava i vantaggi spirituali: Valde enim magna consolatio bene psalterium mente scire et magnus sequitu inde fructus spiritualis dulcedinis et deuotionis , quo priuantur in aliis ordinibus ubi libris utuntur et luminibus (Monaco, ms. 753I, fo 264). Questo testo mostra anche che i canti a memoria tendevano a scomparire negli altri Ordini. Di questo utilizzo, l’attuale pratica dei certosini conserva preziose vestigia. Durante le lunghe funzioni notturne, vengono illuminati solo i libri, il resto della chiesa rimane nella semioscurità. Per i canti che conosciamo a memoria, anche questa illuminazione discreta si spegne. Durante le lezioni vengono illuminati solo il libro usato dal lettore che è al leggio e quello usato dal monaco responsabile della sua correzione, se sbaglia. Gli Statuta Antiqua del I259 ci forniscono le prescrizioni abbastanza rudimentali, anche se talvolta minime, che ancora oggi governano la disciplina corale dei certosini. Riproduce il testo di san Girolamo apparso all’inizio del prologo all’Antifonario primitivo, aggiungendo un commento che prescrive alcuni virtuosismi vocali. Riportiamo poi a lungo un’esortazione di San Bernardo sul modo di partecipare al canto in modo generoso e raccolto. Le prescrizioni per garantire la regolarità della salmodia sono prese quasi alla lettera dal trattato “Instituta Patrum de modo psallendi sive cantandi” dell’abbazia di San Gallo. Sembrano supporre che, nella salmodia, le finali fossero allora meno lunghe che nell’usanza seguita oggi dalla maggior parte dei cori non certosini. Per capirlo basta ricordare che tutti i monaci di quel tempo (come ancora oggi i certosini) cantavano cum annotati tutti i salmi dell’Ufficio monastico, notevolmente più lungo dell’Ufficio romano, che non lascia molto tempo libero per soffermarsi sulle cadenze. La stessa legislazione (Antiqua Statuta) ci insegna che c’erano, come ancora oggi, due grandi cantori (cantores chori) che, ciascuno nel proprio coro, mantennero buon ordine e che a loro volta presero la direzione. del coro per una settimana. Secondo l’Instituta Patrum, le intonazioni erano le più brevi possibili (come ancora oggi): appena una o due parole, solo una suggestione del tono. Molte peculiarità degli usi corali certosini possono essere spiegate o dalle esigenze della vita eremitica, o dal numero esiguo previsto per formare una comunità, o anche dalle condizioni climatiche della culla dell’Ordine: la Grande Chartreuse, in le Alpi del Dauphinoise. Così il coro ha solo una fila di stalli per lato, e, in questi stalli, i monaci sono separati dai vicini da alte partizioni. Quasi sempre hanno la testa coperta dal cappuccio. L’austerità eremitica proibisce qualsiasi accompagnamento, qualsiasi strumento musicale, ogni tentativo di infiltrazione di decantazione o polifonia. L’edizione degli Statuti nota con il nome di Tertia Compilatio (I509) ha indubbiamente codificato un uso antico, prescrivendo che l’Ufficio divino deve essere celebrato con canti in tutte le case dove sono presenti almeno otto religiosi del coro (Priore compreso) in grado di cantare. Questo piccolo numero, che per diversi secoli non supererà mai la cifra di 24, spiega ad esempio che i due cori non si alternano nel canto del Gloria e del Credo; che i versi dei Responsori Graduali e dell’Alleluia siano cantati da tutti insieme; che in generale gli assoli sono rari; che evitiamo lunghezze inutili non raddoppiando mai le antifone durante l’Ufficio. Il canto di questi eremiti è quindi, infatti, molto comune; una schola che riserva il canto delle parti più difficili, è sconosciuta ed impensabile.
L’accordo recitativo la, con flessione in una Terza maggiore, conferisce alle orazioni, alle lezioni ed alle Preci un sapore serio e antico. Le accentuazioni more hebraico, con le mediantes e le terminazioni “spezzate” (correptae) che includono, aggiungono varietà ai recitativi, aumentando la difficoltà per i cantanti. Una consuetudine secolare è che Gloria Patri e tutte le altre dossologie, rallentano discretamente il ritmo del canto. Tutto il Sanctus, con il suo Benedictus, deve essere cantato profondamente inclinato; questo spiega ulteriormente perché i certosini abbiano per il Sanctus solo due delle melodie più arcaiche e più semplici, l’atteggiamento prescritto non consente uno sforzo musicale maggiore. Con tutte queste usanze osservate fedelmente per quasi nove secoli, il canto certosino contribuisce potentemente a creare questa particolarissima atmosfera molto speciale che danno così forte l’impressione che, in Certosa, si viva di valori che sono al di sopra degli incessanti mutamenti del tempo, e che allo stesso tempo sono di tutti i tempi: Stat crux dum volvitur orbis (emblema dell’Ordine)
Filed under: Canti, Testi | Tagged: canto, certosini, coro, Dom Benoit du Moustier, gregoriano, origini, Testi | 1 Comment »