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Celebrando il beato Niccolò Albergati

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Oggi 10 maggio, si celebra la memoria del beato Niccolò Albergati, insigne figura dell’ordine certosino e della Chiesa.
Voglio celebrarlo, proponendovi la narrazione del soggetto della foto del dipinto che ho allegato in questo articolo. La tela attribuita ad Ercole Graziani, raffigura il beato certosino Niccolò Albergati che appare in sogno a Tommaso Parentucelli da Sarzana, predicendogli il pontificato, il quadro proveniente da una delle cappelle laterali, è oggi esposto nella sacrestia della certosa di Bologna.

Ma chi era Tommaso Parentuccelli?

Il certosino Niccolò Albergati, una volta eletto vescovo della città di Bologna, volle accanto a sè il giovane sarzanese il quale si era distinto per le sue conoscenze culturali e per le capacità oratorie e dialettiche. L’incontro con l’Albergati segnò profondamente la vita di Tommaso, facendogli ampliare la preparazione. Lo stesso vescovo lo ordinò sacerdote, nel 1423, diventando segretario del certosino nonchè consigliere, ciò proietterà Tommaso Parentucelli tra i grandi protagonisti della politica e della diplomazia pontificia. Dopo la nomina nel 1426 a cardinale di Niccolò Albergati, Tommaso lo seguirà nelle numerosi missioni diplomatiche e fino alla morte, avvenuta a Siena il 9 maggio del 1443, succedendogli come vescovo di Bologna. Il rapporto tra i due fu intenso e fatto di amicizia e collaborazione, il Parentuccelli condivise con l’Albergati sia la visione ascetica certosina sia i gravosi impegni dell’attività diplomatica del cardinale.
L’episodio raffigurato nel dipinto accadde dopo la morte del certosino, che appare in sogno a Tommaso Parentuccelli predicendogli quanto sarebbe accaduto a breve. Infatti egli fu eletto pontefice dal collegio cardinalizio in conclave a Roma il 6 marzo 1447 ed incoronato il 19 dello stesso mese, Tommaso Parentucelli scelse il nome di Niccolò V per onorare la memoria del suo protettore e amico, il Cardinale Niccolò Albergati.
Di questo episodio della profetica apparizione in sogno, vi allego un’altro dipinto conservato alla certosa di Firenze e realizzato dal pittore Giuseppe Sacconi, a testimonianza di come il futuro pontefice Niccolò V era memore e testimone di quanto accadutogli.

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I due video che seguono potranno meglio farvi comprendere la straordinaria figura del beato certosino, che ho voluto celebrare insieme a voi.

ORAZIONE

O Dio, luce e pastore dei credenti, che hai chiamato il beato Nicolò Albergati dalla solitudine orante al ministero apostolico a illuminare il tuo popolo con la parola e la testimonianza della vita, concedi a noi di custodire fedelmente la sua eredità sotto la guida di Maria, provvida stella sul nostro cammino. Per il nostro Signore.

Amen

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La ricetta “ricostituente” certosina

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Come anticipatovi nel precedente articolo, ecco la originale “soluzione” certosina, ovvero una ricetta dedicata ai monaci malati.
Fin da quando è stato concepito, il trattato “De Esu Carnium”, dunque, è circolato all’interno delle biblioteche delle certose, diventando una sorte di manifesto identitario a cui rifarsi e condiviso da diversi medici che hanno scelto di indossare l’abito certosino. In questo ambito monastico, non bene identificato fu realizzata una particolare ricetta, palesemente ispirata ai dettami di Arnaldo di Villanova e espressamente dedicata ai Certosini ammalati ai quali “è assolutamente vietato l’uso della carne”.

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La ricetta “ricostituente” certosina

I principali componenti di questo ricostituente, sono proprio quelli consigliati da Arnaldo, vino e tuorlo d’uovo, ma la ricetta è arricchita da un’ulteriore preparazione a base di zucchero, perle polverizzate e foglia d’oro, con l’aggiunta eventuale di acqua di rose e cannella. Una ricetta anonima, elaborata in ambiente certosino, che consiste in un rimedio considerato particolarmente efficace per i monaci ammalati che dovevano riacquistare le forze senza infrangere il divieto di nutrirsi di carne.
Ecco il testo originale in latino e la sua traduzione in italiano.

Restaurativum pro Carthusiensibus infirmis qui sunt privati omnino esu carnium.

Recipe vitelle ovorum recentium duo vel tria vinum vernacie vel tyri vel

vini rubei dulcis vel optimi malvatici untias tres. Conquassentur et conmi-

sceantur vitella cum dicto vino. Et omnia simul mixta ponantur in una scu-

tella vitreata. Deinde ponatur scutella in aqua ferventi semper miscendo

cum uno colceari id quod est in scutella ne coaguletur sed deveniat admo-

dum lacteris. Postea detur infirmo. Sed prius imponatur in dicto brodio

medium colear pulveris infrascripti: Recipe margaritarum idest perlarum

que sint pulverizate untiam I, idest dragmam unam. Zuchari finissimi vel

optimi untiam unam; folia auri fini numero // decem. Misce […] et medium

coclear ut predictum […] restaurativo. Et nota quod si infirmus esset febri-

citans adde aque rosate untias II. idest dragmas duas in supradicto restau-

rativo. Quod si infirmus posset sumere ova coquantur ipsa recentia in cine-

ribus ut sint mollia ad modum lacteris. Et dentur simpliciter vitella ovi cum

cocleari pleno dicto pulvere. Postea dentur unzie due vel tres de predicto

vino optimo. Et sic infirmus restaurabitur. Potest etiam poni de predicto

pulvere in omni cibo quia mirabiliter restaurat et laetificat. In casu autem

quod non possent reperiri predicta vina, recipe de vino quod habes et po-

ne in eo de zucharo tantum quod fiat dulce. Ponatur ad ignem ut zucharus

resolvatur. Quo ab igne remoto ponatur in eo parum de optimo cynamomo

ad quantitatem unius agmidole quod vel sit minutatim incisum vel bene

pulverizatum. Et si loco zuchari haberes confectionem que dicitur Manus

Christi adhuc melius.

Explicit restaurativum pro Carthusiensibus valde optimum in infirmita-

tibus constitutis arduis. Expertum mirabilis!

“Ricostituente per i Certosini infermi che sono completamente sprovvisti di cibo”.

Prendete tuorli di uova fresche, due o tre once di vino primaverile o gomme di del vin rosso dolce o tre once della migliore malvatica. Si pesti il tuorlo d’uovo, e si mescoli col detto vino. E lascia che siano tutti mescolati insieme in una ciotola di vetro. Poi si mette il piatto in acqua bollente, mescolando sempre con una mano, in modo che quanto c’è nel piatto non si coaguli, ma diventi un composto di latte. Più tardi sarà dato ai malati. Ma prima si metta la polvere di sotto nel detto mezzo brodio: La ricetta delle perle, cioè delle perle, si polverizzi 1 oncia, cioè un dramma. Un’oncia del miglior velluto; le foglie d’oro sono in numero limitato // dieci. Mescolare […] e un cucchiaio medio come detto […] riparatore. E nota che se fosse malato di febbre, aggiungi 2 once di acqua di rose. cioè due dramme nel suddetto restaurativo. Ma se il malato potesse prendere le uova, dovrebbero essere cotte fresche nella cenere in modo che siano morbide come il latte. E gli viene semplicemente dato il tuorlo di un uovo da riempire a cucchiaiate di detta polvere. Dopo si danno due o tre once del miglior vino. E così i deboli saranno restaurati. Puoi anche mettere la suddetta polvere in qualsiasi alimento perché ripristina e rallegra meravigliosamente. Ma nel caso che i predetti vini non si trovino, fate una ricetta del vino che avete e metteteci solo zucchero quanto basta per renderlo dolce. Si pone sul fuoco per sciogliere lo zucchero. Tolto dal fuoco, mettici dentro un po’ della migliore cannella, della grandezza di un pizzico, o tritata finemente o polverizzata finemente. E se invece dello zucchero aveste una caramella chiamata la Mano di Cristo, sarebbe ancora meglio: è chiaramente un ricostituente per i certosini, ottimo nei casi di gravi infermità. Un’esperienza meravigliosa!

“De Esu Carnium”

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L’articolo che oggi vi propongo è su un tema già trattato in questo blog in diversi articoli. Esso riguarda l’astinenza dalla carne nella dieta dei monaci certosini, e più precisamente vi parlerò del testo dal titolo “De Esu carnium” (sul mangiare carne), scritto dall’illustre medico Arnaldo di Villanova, in difesa dell’astinenza certosina.

Va detto, che tra il XIII ed il XV secolo si sviluppò un enorme dibattito sul divieto imposto dalla regola certosina di mangiare carne, anche in caso di malattia.

Cari amici, come forse già saprete, la limitazione del cibo e la rigida regolamentazione della sua assunzione rappresenta per il monaco una delle manifestazioni più concrete della sua rinuncia al “mondo” ed il punto di partenza di una pratica ascetica, che attraverso la repressione del corpo punta a purificare l’anima da pulsioni e passioni che ostacolano la sua propensione verso Dio. I certosini, rispetto ad altri ordini monastici, si distinguono non solo per la loro scelta di una vita rigorosamente eremitica, ma sono caratterizzati fin dall’inizio da forme di astinenza particolarmente rigide, che culminano nell’esclusione totale della carne dalla dieta, anche in caso di malattia. Questa pratica ha le sue radici nella tradizione eremitica orientale e dei Padri del deserto, che dalle origini dell’ Ordine ha resistito fino ad oggi, vanificando i vari tentativi, avvenuti nel corso dei secoli, di attenuare tale rigore.

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Il trattato “De esu carnium” del medico catalano Arnaldo di Villanova, fu composto tra il 1301 e il 1305, e rappresenta molto probabilmente la prima presa di posizione in difesa della scelta certosina di astinenza totale dalla carne. A causa delle autorevoli affermazioni in esso contenute, questo trattato ha rappresentato una risposta definitiva e poderosa, a coloro che interpretavano fallacemente il rifiuto certosino di concedere la carne ai malati come espressione di mancanza di carità. Arnaldo di Villanova ci tiene a illustrare con fermezza la legittimità della scelta certosina con argomentazioni fondate sul sapere medico, confutando vigorosamente le accuse rivolte all’Ordine di una sostanziale ignoranza della scienza medica.

L’idea che i malati abbiano bisogno della carne per ristabilirsi e prolungare la loro vita, bollata da Arnaldo come novum dogma, non trova riscontro nelle dottrine mediche, e si basa su un sostanziale misconoscimento delle caratteristiche fisiologiche del corpo malato in relazione alla natura dei diversi alimenti: i cibi che, come la carne, servono a ricostituire le facoltà motorie del corpo non sono infatti necessari all’organismo ammalato, anzi lo danneggiano, poiché provocano un calore eccessivo a causa del grasso che contengono; mentre gli giovano quegli alimenti che, per la loro sottigliezza e conformità alla natura del sangue, restaurano le potenze vitali e sono quindi più adatti a riparare gli squilibri provocati dalla malattia. Sbagliata dal punto di vista medico e inconsistente dal punto di vista teologico, l’idea che l’astinenza dalla carne accorci la vita degli ammalati evidenzia l’ignoranza di quanti la sostengono, ed è di fatto smentita dalla proverbiale longevità dei certosini.

Arnaldo segnala anche quella che a suo giudizio è la dieta più adatta per gli ammalati, una dieta a base di tuorli d’uovo e vino, alimenti più affini alla natura del sangue e quindi più adatti a generare gli spiriti vitali.

A distanza di pochi anni, dall’uscita di questo insigne trattato il monaco certosino, Guglielmo de Yporegia (Ivrea), si assunse il compito di difendere la scelta dell’ascetismo più rigoroso con la sua opera più importante, il “Tractatus de origine et veritate ordinis Cartusiensis“, dedicato all’elogio della vita certosina. Egli pur non essendo medico, afferma che la carne non è indispensabile per gli ammalati debilitati, e che altre vivande, come brodi, pesciolini o tuorli d’uovo, si rivelano ben più adatte a restituire la salute a quanti, come i monaci, sono avvezzi ad una dieta estremamente parca. Anche una figura di primo piano del mondo universitario come quella del Cancelliere dell’Università di Parigi, Giovanni Gerson, fervente ammiratore dell’ordine certosino, scrisse nel 1401 un breve trattato dal titolo “De non esu carnium“. In esso viene sancita una complessa difesa del digiuno certosino, sia dal punto di vista teologico che medico. Sia le argomentazioni di Arnaldo, quanto quelle di Gerson, sono riprese nel XV secolo da Dionigi il certosino nel trattato “De praeconio sive laude ordinis cartusiensis“, laddove il rifiuto della carne diviene l’emblema della rinuncia del monaco a se stesso, avvalendosi anche di testi di Bernardo di Chiaravalle e di Guglielmo di Saint-Thierry, nonché degli esempi di santità che hanno scandito la storia dell’Ordine e dei decreti papali che sanciscono nei secoli la legittimità del comportamento certosino.

Nel prossimo articolo vi proporrò una “soluzione” certosina a questo dibattuto tema. Non perdetevelo!

ricettario cartusia

Pasqua tra i certosini

Certosa di Vedana

Cari amici, in questo Sabato Santo, in attesa della veglia di questa notte che dà inizio al tempo pasquale, voglio offrirvi il racconto di un’esperienza vissuta in una certosa.

Ecco per voi il racconto di due giovani parroci, Don Nilo e Don Luciano i quali trascorsero la notte del Sabato Santo della Pasqua 1965 con i monaci certosini presso la Certosa di Vedana. Vi lascio a questa coinvolgente narrazione.

PASQUA

dell’anno del Signore 1965 fra i “Certosini”

“Quando l’orologio segna le 22 e 15, riprendiamo la macchina ed a lenta andatura ci avviamo per la strada che porta a Vedana. Ci pare di essere davvero ben disposti: anima e corpo in forma, per la veglia Pasquale. Mancano dieci minuti alle 23 quando ci presentiamo al portone della Certosa. Il fratello ci ha sentito e, dalla finestrella aperta in alto a sinistra, manda una voce: – Vengo, vengo subito! -Se non fu necessario attendere a bussare, vuol dire che siamo ospiti graditi. Bene, bene!Il portone fu, questa volta, completamente spalancato perché potessimo entrare con l’automobile. Prese le nostre cose sotto il braccio, ci dirigiamo alla cella del padre Procuratore. Silenzio, pace! La rara illuminazione crea ombre gigantesche.

Uno dopo l’altro si odono i lenti rintocchi delle ore ventitré e sembrano animare ed infondere respiro alle maestose mura del Convento. Dal giardino pensile di fronte alla Chiesa, ad ondate sempre più intense, sale e si diffonde per i corridoi e per i chiostri, quasi incenso di primavera un delicatissimo profumo di viole. “Profumo di viole nella Certosa!”. L’esclamazione mi viene spontanea.- Quale soave preparazione alla preghiera!… – soggiunse don Luciano. Rimaniamo alquanto in silenzio a contemplare. I mistici racconti delle cento emozioni sono di gran lunga superati.

Passano così quasi venti minuti…Ecco i monaci! Escono da tutti gli angoli, vestiti di bianco, gravi nell’incedere. Uno alla volta si dispongono nei loro stalli del Coro. Ci disponiamo anche noi, con la cotta tutta sgualcita., sui posti già indicati al mattino: sono quelli che si incontrano, subito a sinistra, dopo aver superato la porta del coro dei fratelli laici. Al primo posto, verso il centro della Chiesa, si mette don Luciano; al secondo il padre dell’ordine di S. Domenico. Il terzo stallo del coro è per me. Non si sbaglia. Osservo il domenicano: è un uomo imponente, dall’andatura solenne; ha la faccia larga, capigliatura ondulata e candida come il vestito. Sembra un vecchio leone; a stento sta nella sua tana. Il colore del volto è caratteristico di chi dovrà andare in paradiso per infarto cardiaco.

Alle 23 e 30, con precisione cronometrica, inizia il rito. Quattro lunghe letture, tratte dai libri del Vecchio Testamento, introducono la meditazione sulla storia della nostra salvezza; alla fine di ognuna viene eseguito, in canto gregoriano, il responsorio. I monaci sviluppano la melodia nel gregoriano antico, piuttosto semplice e primitivo. Davvero cantano con un filo di voce; troppo piano. Seguono le Litanie dei Santi. A volte ci sono invocazioni speciali, proprie dell’ordine certosino. La supplicazione – “Sancte Bruno, ora pro nobis” -, l’ho cantata volentieri e quel nome mi ha richiamato il volto di alcuni amici dei quali, da tempo, non so nulla.

La benedizione del fuoco, dell’incenso, del Cereo, dell’acqua, non ci fu: la liturgia dei monaci esclude, o meglio non ha mai conosciuto tutto questo. È solo elevazione mistica pura e semplice senza eccessivi simbolismi. È comunque delicata, come il profumo di viole che si diffonde dal giardino e penetra anche in Chiesa. Viene cantata la S. Messa. Un vecchio monaco rivestito di ampio manto bianco, con lunghissima stola pendente da un lato, serve il sacerdote celebrante fungendo da Diacono; canta anche il Vangelo.

Mi fece impressione il momento centrale della Messa…All’elevazione dell’Ostia, tutti, in ginocchio, dimostravano visibilmente al “Signore Dio dell’Universo” la loro fede e la loro adorazione. Alla elevazione del Calice, mentre il diacono con un cereo acceso nella mano destra, sollevava con la sinistra la ricca pianeta del celebrante e con forte battito del piede dava un segnale convenuto, i monaci si prostravano a terra. Sembravano quasi annientati sotto la potenza del Signore. Forse qui s’addiceva la vecchia traduzione, “Signore, Dio degli eserciti”!…

Nuovo battito di piede del Diacono e tutti sono ritti ed a mani giunte. A questo rituale, altamente espressivo, don Luciano ed io non ci siamo perfettamente associati. Ci siamo accontentati di raccoglierci con umiltà per adorare il Signore presente sotto i due elementi così bene rappresentativi dell’attività e della letizia umana: il pane ed il vino. Abbiamo ricordato tutti, parenti, superiori, amici. Alla comunione, un monaco esce dal Coro, si distende sul gradino del presbiterio, sotto il grande candelabro di destra, e sembra invocare la misericordia di Dio, con maggiore umiltà di quella usata, a suo tempo, dal centurione.

Usciamo tutti e ci disponiamo genuflessi, in semicerchio, intorno all’altare. Ricevo l’ostia consacrata dalle mani del celebrante; poi, mentre sto per abbassare la testa, don Luciano mi offre un grande calice. Ho compreso all’ultimo momento; è la santa comunione anche sotto le specie del vino. Il rito è solenne e suggestivo; il silenzio della notte lo rende penetrante di commozione. Il padre domenicano sembra estasiato: è in ginocchio con le braccia aperte ed alzate: non si muove. Lo diresti una statua di Michelangelo scolpita nel marmo di Carrara.

Ritornati sugli stalli del Coro diciamo grazie al Signore. È una stupenda visione di pace: – “Beata pacis visio”! -La Messa è subito finita: s’avvia quindi l’Ufficio divino. Spente quasi tutte le luci; dalla grande lampada che scende dall’arco del presbiterio si diffonde una luce tremolante. Sulla predella dell’altare è collocato un candeliere a cinque braccia, sulle quali ardono altrettante candele. Don Luciano, il magnifico padre dell’ordine di S. Domenico ed io leggiamo i testi su un unico antifonario di proporzioni notevoli. Ogni tanto, secondo il bisogno, vi collochiamo sopra, il Salterio o il libro degli Inni.

Anche i monaci sono a gruppi di tre. Solo è invece il padre Priore (Dom Thomas Marie). A turno i padri intonano i canti ed eseguono le letture. Il primo notturno comprende sei lunghi salmi, quattro lezioni e quattro grandi e solenni responsori. Qui nessuno ha fretta di terminare la liturgia: non l’abbiamo neppure noi… Aveva proprio ragione il padre Priore: “… Non abbiamo mai, mai fretta di terminare la preghiera…”! Il “Gloria Patri” è scandito con ostentata lentezza mentre ci si inchina assai profondamente; il palmo delle mani deve toccare le ginocchia.

Una cosa richiamò la nostra attenzione: di tanto in tanto, ora qua ora là, un monaco chinava la testa sulla pagina del Salterio, apriva le mani, e dava un bacio al testo. Era una riparazione pubblica ad una distrazione accolta durante il canto. Per ben due volte la causa del gesto tanto significativo siamo stati noi! Forse questa era la ragione principale per cui il padre Priore non voleva metterci in Coro. Le ore passano. Fuori, nel mondo, la gente dorme. Nessuno pensa che anime innamorate di Dio, ogni notte siano vigilanti in preghiera anche per quelli che non pregano mai. Questa è davvero un’azione altamente benefica e largamente sociale!

Il latino dei testi è alquanto diverso da quello usato sia nel vecchio, come nel nuovo salterio del Breviario romano. Alcuni responsori sono da noi completamente sconosciuti. Davanti al grande leggio collocato nel mezzo del Coro s’avvicendano i monaci per il canto delle lezioni. Al termine, il grosso volume è ricoperto, in segno di rispetto, da un velo di seta bianca. Il secondo notturno si sviluppa con schema simile al primo. I frati sono quasi sempre ricoperti il capo dal cappuccio, la cui ombra conica proiettata sotto il soffitto crea strani ed enormi fantasmi. Una lezione è cantata dal monaco che al mattino s’era ferito alla testa mentre attendeva al lavoro. Portava una medicazione. Lo guardo bene, forse ha la febbre; certamente soffre per il dolore, ma è sereno.

Il più serafico fra tutti, veramente in estasi celestiale, appare il piccolo olandese(Dom Tarcisio Jan Geijer). Per lui la preghiera è tutto, è gioia, è paradiso; non ha alcuna fretta di terminarla. Il terzo notturno è più breve: comprende tre cantici, quattro lezioni e quattro responsori. Lettore al leggio centrale è, questa volta, il Rev.mo Superiore. Segue il Te Deum con melodia abbastanza nota; quindi il canto del Vangelo con l’orazione. Come previsto, la preghiera liturgica continua con le Lodi. Al posto del solito cantico ve ne sono tre. L’inno è quindi eseguito sulla melodia del Veni Creator Spiritus. Al Bendictus avviene l’incensazione dell’altare da parte del padre Priore. Indossa un ampio manto bianco e porta una lunga e ricca stola.

Il rito è solennissimo. Penso che il gran sacerdote dell’antico testamento non dovesse impressionare di più nei suoi gesti ieratici! Le volute di fumo odorante si susseguono rapide; il turibolo è letteralmente lanciato in alto con arte finissima e con notevole frequenza. Gli occhi di tutti sono rivolti là: all’altare di Dio. Avviene poi l’incensazione di ciascun monaco; quindi anche di noi. Questa non fu però eseguita dal padre Priore. Ancora qualche minuto e la preghiera è, questa volta, terminata…

Sono le tre e dieci del mattino di pasqua dell’anno del Signore 1965.- Regina Coeli laetare. Alleluja. -Lenti, uno dopo l’altro, i monaci fanno profondo inchino al Santissimo e per vie diverse se ne vanno alle celle. A dire il vero tutti ci hanno salutato con un sorriso. Non credo abbiano riportato, di noi, cattiva impressione .Il padre Priore ci accompagna alla porta della Chiesa”.

Ci augura: “Buona Pasqua, con tutto il cuore!”.È soddisfatto; in fondo ci siamo comportati bene, quasi come due monaci. Noi ringraziamo con le espressioni più belle e più giuste. Al padre procuratore, che gentilmente ci scorta fino al cortile sottostante, diciamo la nostra sincera letizia per aver passato alcune ore in paradiso. Anche noi abbiamo pregato senza alcuna fretta, proprio come i monaci della Certosa!- Me ne sono accorto, me ne sono accorto! – Fu la sua conferma.- Sfido io, ad un certo punto, la mia lentezza gli costò il bacio del Salterio. Ci saluta dicendo:- Arrivederci! -Il portone è aperto; un fratello laico che dice di essere nativo di San Donà di Piave (dunque un italiano e per di più un veneto!), aspetta la nostra partenza per chiudere…

Certosa di Vedana, Sabato 17 aprile 1965

Dom Emmanuel Ducreux ed il suo Opuscolo

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Cari amici lettori, voglio oggi farvi conoscere un monaco certosino che è vissuto nel periodo tribolato della Rivoluzione Francese, e quindi al centro dei drammatici giorni che turbarono la vita monastica sua e di suoi tanti confratelli.

Emmanuel Ducreux, nacque a Parigi il 4 aprile 1738, emise la professione nella certosa di Bourbon les Gaillon il primo gennaio 1758. Fu nominato Vicario nel 1782, poi fu inviato come sacrista alla certosa di Rouen nel 1783, in seguito fu coadiutore a Val Saint Georges lo stesso anno, ed a seguire procuratore a Bourbon les Gaillon nel 1785, fu eletto infine priore di questa casa nel 1786. Optò per la vita comune nel 1790, poi rifiutò il giuramento ed emigrò con quattro suoi confratelli in Inghilterra. Rimpatriato dopo qualche anno, divenne cappellano dell’ospedale di Rouen. Nel 1816 Dom Ducruex fu il fulcro delle procedure amministrative per la rioccupazione della Grande Chartreuse. La sua morte è annunciata negli annali del 1826.

Egli nel corso della sua esistenza si distinse tra l’altro per avere scritto, un anno prima della rivoluzione. una Vita di San Bruno per la certosa di Bourbon les Gaillon ed alcuni opuscoli.

Voglio proporvi il contenuto di uno di essi, nel quale vi è un orazione funebre per Re Luigi XVI, ghigliottinato a Parigi, il 21 gennaio del 1793. Un testo lungo, ma che lascia trasparire la disperazione per la morte del sovrano cattolico e per i tempi che si sarebbe apprestata a vivere la Francia.

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Preghiera Funebre per Luigi XVI

Nolite flère super me, sed super vos ipsos flete.
Non piangere su di me; ma piangete su voi stessi. In San Luca, cap. xxv, f. 28.

Francesi, Cristiani, Miei Fratelli

Un crimine, un grande crimine, un grandissimo crimine è stato commesso in Francia, e sotto i nostri occhi. Sudditi ribelli, fuorviati, credendosi qualcosa, sebbene non fossero niente, hanno osato, contro ogni ragione, contro ogni giustizia, giudicare, condannare e mettere a morte su un patibolo come un delinquente un innocente, che non avevano anche il diritto di giudicare, un innocente; ehi, che innocente! il migliore dei padri, il migliore dei re, il loro legittimo sovrano, il virtuoso Luigi XVI, che descrivevano come un tiranno, sebbene nulla gli si potesse rimproverare se non la sua eccessiva bontà. È questo crimine atroce, questo crimine orribile, che veniamo a espiare in questo giorno, un giorno per sempre memorabile, un giorno di lutto e afflizione, un giorno che non potremo mai piangere abbastanza, un giorno che sarebbe desiderare la felicità della Francia che non sarebbe mai esistita. Ma purtroppo esiste, ed è per punirci di questo delitto di cui Dio si è dichiarato vendicatore, che ha fatto cadere sulle nostre teste colpevoli questo diluvio di mali che, da vent’anni e più, ci ha travolti. Felice! se avessimo saputo trarne un santo profitto.

Ma sfortunatamente, devo dire; sì: e sarete d’accordo con me, siamo puniti, cristiani miei fratelli, e non siamo corretti. La nazione traviata aveva osato, nel delirio del suo orgoglio, rovesciare il trono e l’autorità, stendere una mano sacrilega sull’unto del Signore, sui suoi pontefici, sui suoi sacerdoti: aveva osato dichiarare ad alta voce in un’assemblea demoniaca che non ci fu Dio, sebbene gli stessi demoni credano il contrario, a profanare gli altari eretti in suo onore, offrendo su questi stessi altari, sui quali scorreva quotidianamente il sangue dell’Agnello immacolato, sacrifici impuri, vittime abominevoli di voluttà infami. Eravamo, in una parola, senza morale, senza leggi, senza re, senza fede. Questo è l’abisso scavato sotto i nostri piedi dalla presunta saggezza dell’epoca; filosofia, anarchia, abuso di potere e dove saremmo rimasti inghiottiti per sempre.
Ma Dio ama la Francia; ama questo regno ornato da tanti secoli di questo bel titolo di regno cristianissimo; e viste le preghiere e i meriti di tante anime sante che in questi tempi tempestosi gli sono rimaste fedeli, le preghiere e i meriti del santo Re-Martire che piangiamo, non ci ha abbandonato, sebbene lo meritiamo, come tante altre nazioni che hanno abiurato la fede, e che, da diversi secoli, sono sepolte in fitte tenebre, e dormono tranquille sulle rive dei fiumi di Babilonia, in mezzo alle ombre della morte.
Oh mio padre! Oh mio Re! Oh Luigi! ottienici dalla bontà divina che essa riaccenda e conservi in Francia la fiaccola della fede che ha sempre brillato da Clodoveo fino ad oggi, quando perdendoti abbiamo perso tutto. O vittima innocente immolata da noi e per noi, dall’alto del cielo dove regni, getta uno sguardo di benevolenza su tutti i Francesi, che tutti, in questo momento, proni, annichiliti ai tuoi piedi, ti chiedono perdono per l’orribile attentato commesso contro la tua sacra persona, e ti prego di ottenere da essa il perdono per tutti i delitti che ne furono la conseguenza. No; non c’è un solo francese che non sia pronto a versare l’ultima goccia del suo sangue per espiare il suo crimine, se con la sua morte potesse restituirti ai nostri desideri, alla vita. Ma non c’è bisogno, fratelli miei cristiani, che Luigi XVI scenda dal cielo dove non cessa mai di intercedere per noi. Un miracolo non meno clamoroso che dobbiamo alla misericordia divina, che guarda sempre con benevolenza la Francia, nonostante gli orribili delitti di cui si è macchiata; miracolo che dobbiamo ai meriti e alle preghiere del nostro buon Re, Luigi XVI, di San Luigi, di tanti santi nostri compatrioti, e più in particolare ancora della Santissima Vergine, sotto la cui protezione Luigi XIII, di pia memoria, ebbe mettere il suo regno ei suoi sudditi; miracolo confessato e riconosciuto come tale dagli stessi miscredenti (nessuno se non un Dio può operare questo prodigio di cui tutti siamo stati testimoni); questo miracolo è il ritorno di Luigi XVII, fratello di Luigi XVI, in questo regno, dopo vent’anni di assenza.
Da tempo lo desideriamo, lo chiediamo, e sempre invano. Giunge finalmente il momento fissato dalla divina Provvidenza: e quando meno ce lo aspettavamo, Luigi XVIII tornò ai nostri desideri. Egli viene per asciugare le nostre lacrime, per porre fine ai nostri mali. Appare in mezzo al suo popolo come un sole splendente dopo una notte profonda. Viene, come un inviato dal cielo, guidato dalla religione, accompagnato da tutte le virtù, portando con sé pace e felicità.
Appena ha fatto qualche passo nella capitale dei suoi Stati, va al tempio per ringraziare Dio della grazia che fa alla Francia di restituirgli il suo legittimo sovrano, per protestargli che non vuole regnare solo da lui e per lui, e chiedergli i favori di cui ha bisogno per riparare i mali che vent’anni di anarchia e di empietà hanno fatto alla Francia. Sollecita preghiere pubbliche e chiede che il formidabile sacrificio sia offerto in espiazione e riparazione dell’ingiuria arrecata alla maestà reale nella persona del suo augusto fratello Luigi XVI, nostro legittimo sovrano. Ma questa riparazione e questa espiazione, fratelli miei cristiani, è tutta per noi. Luigi XVI è in paradiso; tutto ci dà il diritto di presumerlo. È vissuto da santo, è morto da santo. Infatti, questa calma, questa tranquillità con cui Luigi XVI si disponeva alla morte, ed era alla morte; calma e tranquillità che rendono abbastanza chiaro che era sicuro del suo destino, e che ha lasciato questa valle di lacrime solo per andare a godere della vera felicità nel seno di Dio stesso, che ha lasciato la terra solo per andare in paradiso. Calma e tranquillità molto al di sopra delle nostre idee volgari, che solo lui può definire bene, perché solo lui poteva sentirla e assaporarla. Fermiamoci qui per un momento, cristiani miei fratelli; ascoltiamo lo stesso parlare. La semplice lettura del suo Testamento, che fa anche l’elogio della sua pietà, del suo spirito, del suo cuore, lo dipinge molto meglio di quanto potremmo fare noi: sarà difficile per me leggerlo a voi, e voi, Fratelli miei, difficile ascoltarlo, senza versare tenere lacrime.

Qui le ultime parole pronunciate da Luigi XVI, sul patibolo:

“Io perdono i miei nemici; Desidero che la mia morte porti alla salvezza della Francia; “Muoio innocente”.

In ricordo di Benedetto XVI

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Cari amici lettori, a distanza di circa due mesi dalla dipartita terrena del Papa emerito Benedetto XVI, e con la tristezza nel cuore per la sua assenza, voglio ricordarlo con un suo breve testo.

Chi segue questo blog da tempo, ricorderà che nell’ottobre del 2016 vi annunciai l’uscita di un libro del Cardinale Robert Sarah dal titolo “La Forza del silenzio“, che poi vi proposi in successivi articoli un capitolo dedicato ai monaci certosini dal titolo “Come un grido nel deserto“. In esso vi era una preziosa conversazione con il Priore Generale dell’Ordine dei Certosini, Dom Dysmas de Lassus.

Ciò premesso, l’autore del libro dedicò il libro anche al papa emerito Benedetto XVI definendolo “grande amico di Dio e maestro di silenzio e di preghiera”.

A sua volta papa Ratzinger, rimasto entusiasta per questa edificante lettura inviò un testo manoscritto, in tedesco al Cardinale Sarah, il quale lo inserì nel volume come prefazione. Clicca qui per acquistarlo online

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Oggi, nel ricordo di Benedetto XVI, voglio offrire il suo scritto illuminante a voi tutti.

“Da quando, negli anni Cinquanta, lessi per la prima volta le Lettere di sant’Ignazio di Antiochia, mi è rimasto particolarmente impresso un passo della sua Lettera agli Efesini: «È meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se si fa ciò che si dice. Uno solo è il Maestro che ha detto e ha fatto, e ciò che ha fatto rimanendo in silenzio è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può percepire anche il suo silenzio, così da essere perfetto, così da operare tramite la sua parola ed essere conosciuto per mezzo del suo rimanere in silenzio» (15, 1s.).

Che significa percepire il silenzio di Gesù e riconoscerlo per mezzo del suo rimanere in silenzio? Dai Vangeli sappiamo che Gesù di continuo ha vissuto le notti da solo «sul monte» a pregare, in dialogo con il Padre. Sappiamo che il suo parlare, la sua parola proviene dal rimanere in silenzio e che solo in esso poteva maturare. È illuminante perciò il fatto che la sua parola possa essere compresa nel modo giusto solo se si entra anche nel suo silenzio; solo se s’impara ad ascoltarla a partire dal suo rimanere in silenzio.

Certo, per interpretare le parole di Gesù è necessaria una competenza storica che ci insegni a capire il tempo e il linguaggio di allora. Ma solo questo, in ogni caso, non basta per cogliere veramente il messaggio del Signore in tutta la sua profondità. Chi oggi legge i commenti ai Vangeli, diventati sempre più voluminosi, alla fine rimane deluso. Apprende molte cose utili sul passato, e molte ipotesi, che però alla fine non favoriscono per nulla la comprensione del testo. Alla fine si ha la sensazione che a quel sovrappiù di parole manchi qualcosa di essenziale: l’entrare nel silenzio di Gesù dal quale nasce la sua parola. Se non riusciremo a entrare in questo silenzio, anche la parola l’ascolteremo sempre solo superficialmente e così non la comprenderemo veramente.

Tutti questi pensieri mi hanno di nuovo attraversato l’anima leggendo il nuovo libro del cardinale Robert Sarah. Egli ci insegna il silenzio: il rimanere in silenzio insieme a Gesù, il vero silenzio interiore, e proprio così ci aiuta anche a comprendere in modo nuovo la parola del Signore. Naturalmente egli parla poco o nulla di sè, e tuttavia ogni tanto ci permette di gettare uno sguardo sulla sua vita interiore. A Nicolas Diat che gli chiede: «Nella sua vita a volte ha pensato che le parole diventano troppo fastidiose, troppo pesanti, troppo rumorose?», egli risponde: «… Quando prego e nella mia vita interiore spesso ho sentito l’esigenza di un silenzio più profondo e più completo… I giorni passati nel silenzio, nella solitudine e nel digiuno assoluto sono stati di grande aiuto. Sono stati una grazia incredibile, una lenta purificazione, un incontro personale con Dio… I giorni nel silenzio, nella solitudine e nel digiuno, con la Parola di Dio quale unico nutrimento, permettono all’uomo di orientare la sua vita all’essenziale» (risposta n. 134, p.156). In queste righe appare la fonte di vita del Cardinale che conferisce alla sua parola profondità interiore. È questa la base che poi gli permette di riconoscere i pericoli che minacciano continuamente la vita spirituale proprio anche dei sacerdoti e dei vescovi, minacciando così la Chiesa stessa, nella quale al posto della Parola nient’affatto di rado subentra una verbosità in cui si dissolve la grandezza della Parola. Vorrei citare una sola frase che può essere origine di un esame di coscienza per ogni vescovo: «Può accadere che un sacerdote buono e pio, una volta elevato alla dignità episcopale, cada presto nella mediocrità e nella preoccupazione per le cose temporali. Gravato in tal modo dal peso degli uffici a lui affidati, mosso dall’ansia di piacere, preoccupato per il suo potere, la sua autorità e le necessità materiali del suo ufficio, a poco a poco si sfinisce» (risposta n. 15, p. 19).

Il cardinale Sarah è un maestro dello spirito che parla a partire dal profondo rimanere in silenzio insieme al Signore, a partire dalla profonda unità con lui, e così ha veramente qualcosa da dire a ognuno di noi.

Dobbiamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un tale maestro dello spirito alla testa della Congregazione che è responsabile della celebrazione della Liturgia nella Chiesa. Anche per la Liturgia, come per l’interpretazione della Sacra Scrittura, è necessaria una competenza specifica. E tuttavia vale anche per la Liturgia che la conoscenza specialistica alla fine può ignorare l’essenziale, se non si fonda sul profondo e interiore essere una cosa sola con la Chiesa orante, che impara sempre di nuovo dal Signore stesso cosa sia il culto. Con il cardinale Sarah, un maestro del silenzio e della preghiera interiore, la Liturgia è in buone mani.”

Città del Vaticano, nella settimana di Pasqua 2017

Grangia di Talamanca de Jarama

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L’approfondimento che oggi voglio proporvi è su di una importante grangia della certosa spagnola di El Paular. Conosciuta oggi, impropriamente, come Cartuja de Talamanca de Jarama essa è ubicata nella Comunidad de Madrid, al limite settentrionale dell’area urbana, i monaci certosini in progressiva espansione accumularono proprietà nella vallata e quindi decisero di realizzare questo complesso agricolo, motivati soprattutto dalle fertili condizioni del terreno della pianura del Jarama. I lavori di detto complesso dovettero iniziarono nel XVI secolo, modificando una preesistente enclave militare musulmana del IX secolo di cui si scorgono ancora le mura. Questa grangia si distingue per il suo grande valore storico e architettonico, oltre che per le sue notevoli dimensioni (18 mila mq)).
La sua importanza sta nell’aver conservato materiali, impianti e tecniche costruttive, utilizzate tra il XVI e il XVIII secolo, oltre a rispecchiare l’organizzazione economica delle certose, eminentemente agraria, basata sulla coltivazione dei campi e allevamento animale e, quindi, destinata allo stoccaggio di grano, vino, olio, aceto e diversi capi di bestiame.

Per tale motivo il 23 settembre del 1982, è stata dichiarata monumento storico artistico, dunque Bene di Interesse Culturale.
La proprietà è composta da vari fabbricati, attualmente tutti in cattivo stato di conservazione, è strutturata su due livelli ed è concepita intorno ad un chiostro a forma di elle, all’interno del quale troviamo diversi ambienti di interesse storico, come la cucina che ospita al piano interrato la cantina coperta da volte in mattoni, e la piccola ma deliziosa cappella, con bellissimi affreschi sul soffitto e sulle pareti.

A questi ambienti si aggiungono altre, costruzioni ausiliarie con strutture che mantengono solo una parte del loro perimetro in altezza muraria variabile e senza alcun tipo di copertura. In origine la grangia aveva dimensioni maggiori, ma quel che resta è sufficiente per comprenderne la grandezza e l’importanza che ebbe per quel territorio, non solo di rifornire la certosa di El Paular, ma vendere prodotti per una sana economia che ne garantisse la floridità economica.

Menzione a parte il suo caratteristico ed inconfondibile ingresso principale, che presenta un grande portone architravato con bugne, chiuso da due lamiere lignee con cassettoni e chiodi. Sull’apertura spicca un frontone curvilineo delimitato da una modanatura barocca e con lo stemma di Castilla y León.

La cantina, posta nei sotterranei della grangia, fu edificata nel 1703, secondo l’iscrizione posta nell’arco di accesso. È un quadrato lungo quattro sezioni per quattro di larghezza; ognuno di questi è coperto da volte a crociera in mattoni su pilastri quadrati. Lungo le sue pareti spiccano numerose grandi giare, la maggior parte delle quali incuneate con resti di reimpiego (capitelli e basi). L’edificio dispone anche di altri due magazzini.

Il fienile, risalente al 1799, posto al piano terra sopra la cantina e costituito da un vano di analoghe proporzioni, coperto con travi in legno e volta ad intonaco su pilastri.

La cucina, alla quale si accede attraverso un piccolo chiostrino porticato su montanti lignei con basamento.  Il pavimento della cucina è realizzato con macine in pietra.

La cappella, all’interno della quale vi sono ha dipinti murali sul soffitto e sulle pareti che rappresentano l’Immacolata Concezione, la Santissima Trinità, la Pentecoste e l’Agnello Mistico. Ai lati è presente un basamento in finto marmo su cui sono rappresentati Sant’Ugo, San Antelmo e la Maddalena, l’emblema della Casa dei Borbone e lo stemma certosino. Sull’altare vi è invece un bel dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione.

Il definitivo abbandono di questa proprietà avvenne nel 1835 con il decreto di secolarizzazione e confisca emesso da Mendizabal, che costrinse la vendita di tutti i beni dei monaci e l’abbandono dell’area. La grangia di Attualmente di Talamanca de Jarama è di proprietà privata, pur conservando la sua utilità agricola e nota per essere stata utilizzata in numerose occasioni come set cinematografico.

La seconda vita

Per i suoi suggestivi ambienti, la Grangia di Talamanca de Jarama dopo esser diventata di proprietà privata è stata scelta, negli ultimi cinquanta anni, da produttori e registi come quinta scenica per rappresentare ambientazioni riguardanti il seicento spagnolo. Questa location ha visto Marlon Brando, Sigourney Weaver, Arnold Schwarzenegger, Viggo Mortensen, Natalie Portman tra i principali attori che hanno recitato in ruoli storici. Molte sono state infatti le riprese cinematografiche di film, serie televisive e spot pubblicitari, che hanno visto protagonista l’antica grangia certosina come sfondo per la spettacolarità di questo set. Alatriste, Conan il Barbaro, I fantasmi di Goya, I quattro moschettieri, Santa Teresa di Gesù, Farinelli, Capitan Alatriste, Curro Jiménez, Águila Roja, Los Gozos y las sombras, La Celestina, Cervantes, La Cocinera de Castamar, El Ministerio del Tiempo. Sono questi i titoli delle principali pellicole, come ricorda una didascalia all’ingresso del complesso. Nel 2003 e nata Talamanca de Cine, con lo scopo di utilizzare il cinema come risorsa turistica, e in questo modo preservare e diffondere l’ampio percorso storico-cinematografico di questa città. Vi è anche celebrato annualmente, nel mese di giugno, il TALAMANCA FILM FESTIVAL.

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A seguire, due brevi video che ci faranno apprezzare la bellezza e l’importanza di questo sito, antica proprietà certosina, ed oggi importante luogo per realizzazioni cinematografiche.

Dom Raphaël Deparis

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Il personaggio di cui voglio oggi parlarvi e Emanuele Deparis, figlio di Emanuele e Marie Anne Sénès. Secondo di cinque fratelli maschi di cui tre diventeranno sacerdoti e quattro sorelle di cui tre diventeranno suore. Nacque il 18 gennaio del 1744 ed a seguito di una profonda educazione religiosa, decise di entrare nella certosa di Villeneuve-lès-Avignon, e di prendere il nome di Raphaël. Dopo aver effettuato la professione solenne, si distinse per le sue virtù e nel 1774 fu nominato Vicario, poi coadiutore nel 1778. Fu successivamente inviato alla certosa di Durbon dove fu nominato nel 1782 priore. Trascorsi alcuni anni, il primo ottobre del 1787, Dom Raphaël fu nominato priore della certosa di La Verne. Partecipò così all’Assemblea del Clero che si riunì il 31 marzo 1789 nella chiesa domenicana di Tolone per eleggere i delegati agli Stati Generali. Ma la rivoluzione che ne verrà fuori sequestrerà i beni del monastero: il 7 giugno 1790 gli ufficiali municipali di Collobrières effettuarono la necessaria perquisizione; il 10 giugno Dom Raphaël dichiarò di voler rimanere nell’Ordine dei Certosini, come la maggior parte dei sedici religiosi presenti, di cui undici padri e cinque fratelli conversi. Ben presto gli edifici ed i terreni della comunità sarebbero stati messi in vendita come beni nazionali ed i poveri monaci furono costretti alla fuga. Dom Raphaël fu uno dei primi a raggiungere l’Italia, dapprima a Pisa nel 1793, poi a Bologna la cui Certosa divenne Casa Generalizia dell’Ordine in sostituzione della Grande Chartreuse, e infine Roma dove fu nominato nel 1801 scrivano del Reverendo Padre Generale, Dom Antoine Vallet, incarico che mantenne fino al 1 giugno 1810. Tornato in Francia, si stabilì presso la famiglia a Marsiglia dove ricevette la dignità di canonico. Il “fascicolo Barthélémy”, nell’archivio diocesano di Fréjus-Toulon, racconta aneddoti edificanti, se non plausibili, sulla sua fine della vita di cui vi allego qualche stralcio.

Dom Raphaël, fu Confessore Straordinario del Convento della Visitazione a Marsiglia. Un giorno ebbe l’ispirazione di andare a dire la Santa Messa nel convento dove si trovava una delle sue sorelle. Era una domenica; la monaca, che doveva recarsi alla santa mensa subito dopo suor Paris, fu assai sorpresa di sentire la santa religiosa che comunicava alla sorella in viatico: “accipe, soror, viaticum corporis”. Oh ! pensò, Dom Paris ha una distrazione. Terminata la messa e detto il ringraziamento, il superiore diede il segnale per il ritiro;tutte le suore obbedirono, solo una rimase al suo posto, nel dirle che era ora di uscire dal coro e andare in refettorio, scorsero un corpo inanimato: suor Paris godeva già della vista del suo Dio (…)

Purtroppo, Dom Paris non tardò a raggiungere la sua virtuosa sorella: gravemente malato, non potendo più alzarsi dal letto, era stato autorizzato dal vescovo de Mazenod, vescovo di Marsiglia, a far dire la messa nella sua stanza. Il sacerdote di Gémenos, suo fratello, aveva appena celebrato il divino sacrificio e dato la comunione al santo religioso certosino: era l’una dopo mezzanotte quando entrò il medico. Ero obbligato, disse quest’ultimo, ad alzarmi per vedere un cliente del quartiere e non volevo passare così vicino senza salutare Dom Paris. Il malato lo ringraziò molto per l’attenzione e le buone cure che gli aveva prestato, poi lo salutò e pregò il fratello di accompagnare il medico alla porta: un fedele fratello converso rimase solo accanto al malato. Non volevo, confessò allora il santo religioso, dare a mio fratello il dolore di vedermi morire: addio, frate Denis. Gli strinse la mano, baciò il suo crocifisso e si addormentò nel Signore. Quella stessa notte, suor Marie Aimée Fajon, della comunità di questo convento di Marsiglia, morta superiora a Grasse, sentì aprirsi una tenda e, svegliandosi di soprassalto, vide passare davanti a lei un certosino che la benedisse e le annunciò il suo addio. Raccontò ciò che le era successo aggiungendo: – In quel momento fui certa: Dom Paris deve essere morto. Questa notizia è stata presto confermata.»

Dom Raphaël, alias Emmanuel Paris morì a Marsiglia il 4 luglio 1819.

Apertura Anno Giubilare per il Beato Oddone

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Cari amici, come vi avevo già annunciato, lo scorso sabato 14 gennaio, nella città di Tagliacozzo si è svolta la solenne celebrazione di apertura dell’Anno Giubilare, concesso da Papa Francesco con decreto della Penitenzieria Apostolica in occasione degli 825 anni dalla morte del Beato certosino Oddone da Novara, morto nella città marsicana il 14 gennaio del 1198 e sepolto dal 1139 nella chiesa Madre dei Ss. Cosma e Damiano. E come vi avevo promesso, voglio raccontarvi questa giornata memorabile presieduta da Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Giovanni Massaro, Vescovo dei Marsi. Presenti alla cerimonia il Parroco don Ennio Grossi, a cui vanno i miei ringraziamenti per avermi offerto il materiale per realizzare questo articolo, e tra gli altri don Luigi Incerto, Parroco delle Comunità di Aielli, don Renato Ceccarelli, Parroco emerito della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, la Rev.da Madre Abbadessa, Maria Donatella Di Marzio, insieme a tutta la Comunità monastica Benedettina, il Sindaco della Città, Vincenzo Giovagnorio.

In un’atmosfera suggestiva, alle ore 17:00, nel cortile monastico antistante la chiesa, il Vescovo ha presieduto il rito di apertura della porta. Dopo la lettura del decreto della Penitenzieria Apostolica da parte di don Luigi Incerto, la porta della chiesa è stata spalancata ed il Vescovo ha varcato la soglia della chiesa con l’Evangeliario. Quindi la processione ha fatto il suo ingresso nella chiesa alla presenza dei fedeli giunti per venerare il Beato Monaco Certosino.

Nell’omelia il Vescovo ha tratteggiato la figura del Servo presentato nella Liturgia della Parola della II domenica del Tempo Ordinario applicandola all’esempio di Vita del beato Oddone: “Dio ha fiducia nell’uomo e vi si affida – mio servo sei tu Israele sul quale manifesterò la mia gloria – Dio non costruisce la propria gloria da solo ma insieme all’uomo. Dio è colui che si fida dell’uomo e compito dell’uomo è quello di abbandonarsi alle mani di Dio. Ciò che ha caratterizzato la figura del beato Oddo da Novara è proprio il suo amore per Dio, il suo abbandono in Dio. Prima di morire le ultime parole del beato Monaco furono: ‘Aspettami Signore! Ecco io vengo a Te’. Il beato Oddo da Novara si è proprio distinto per questo atto di fiducia totale in Dio”.

Durante la Celebrazione, il Sindaco, Vincenzo Giovagnorio, ha rinnovato l’offerta del cero votivo che durante tutto l’anno arderà davanti alle spoglie del beato: “Reverendissimo Padre, i Cittadini di Tagliacozzo, seguendo l’esempio dei loro avi e volendo riprendere una significativa tradizione, in occasione della solennità liturgica del Beato Oddo da Novara, Sacerdote dell’Ordine dei Certosini e Compatrono di questa Città, offrono questo cero votivo che le chiedono di benedire affinché arda, presso l’urna che contiene le venerate Spoglie, come segno di fede e di speranza e riaccenda la carità dei cuori sull’esempio del santo Uomo di Dio”. La tradizione del cero nasce per ricordare che nel passato l’Amministrazione Comunale sosteneva per intero, il 14 gennaio di ogni anno, le spese dell’organizzazione della festa in onore del beato Oddo.

Prima della Benedizione finale il Parroco, ha ringraziato Mons. Massaro e un particolare ringraziamento alla Comunità Monastica Benedettina: “Se il beato Oddo da Novara è rimasto qui in questa nostra terra – ha detto don Ennio rivolgendosi ai presenti – è stato grazie alla lungimiranza e all’insistenza delle Monache che, sperimentando la santità di questo monaco, vollero che egli rimanesse come loro confessore e guida spirituale. Se questo culto è giunto fino a noi è stato grazie alle Monache che nei secoli fino ad oggi, con affetto e devozione grande lo hanno portato avanti e alimentato”.

Don Ennio ha poi dato Lettura del messaggio inviato dal Procuratore generale dell’Ordine Certosino, Rev.mo P. Jacques Dupont: “In quanto Procuratore Generale dell’Ordine dei Certosini presso la Santa Sede, mi rivolgo a voi per porvi il saluto dei monaci certosini e delle monache certosine, assicurando la loro vicinanza particolare in questo Anno Giubilare. Non smettiamo oggi di ricorrere alla preghiera di Oddone, in primo luogo voi cittadini e cittadine di Tagliacozzo, per poter affrontare le varie insidie che troviamo sul nostro cammino di vita e più ancora di fede. Guardiamo al Beato Oddone come esempio di santità, affinché impariamo da lui a dare a Dio il posto primordiale che deve avere in tutto ciò che facciamo. Sappiamo anche come lui rinunciare ai nostri progetti quando vengono contrariati, perché sempre ci dedichiamo al servizio degli altri, soprattutto dei più bisognosi. La preghiera dei monaci certosini e delle monache certosine vi accompagna in questo Anno Giubilare, affinché si moltiplichino i frutti di grazia in speranza, amore, pace”.

Per l’occasione l’antica tela settecentesca, raffigurante il beato, è stata ricollocata nel suo altare e sotto di essa è stata esposta l’urna contenente le sue spoglie mortali.

Diverse le iniziative che in questo anno si terranno: il 14 di ogni mese un momento celebrativo in comunione con il Monastero benedettino; una mostra dedicata alla vita e al culto del Monaco certosino e un oratorio musicale, sulla figura del beato, pensato dal Parroco, musicato dal maestro Luca Bischetti ed eseguito dai Cori della città.

Le immagini che seguono faranno rivivere a tutti noi l’emozionante rito dell’apertura di questo Anno Giubilare, facendoci partecipare con il cuore e la preghiera in pia devozione del Beato Oddone.

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PREGHIERA

Signore, concedi a tutti coloro che celebrano la festa del Beato Odone, che hanno fisso lo sguardo dell’anima nella contemplazione della tua gloria, e che ,dopo aver perseverato nella fede in questa vita, risplenda in noi la luce della tua presenza nella patria celeste

La Grangia di Boffalora

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Cari amici, voglio oggi proporvi un approfondimento su di una grangia certosina.

Etimologicamente la parola grangia deriverebbe dal francese arcaico “granche”, che a sua volta verrebbe dal latino volgare “granica”, ed indicherebbe il luogo dove si conserva il grano (granarium).

Furono vere e proprie tenute agricole in cui fratelli conversi e donati lavoravano sotto la direzione di un Magister Grangiae, essi oltre a lavorare in loco dormivano, mangiavano e pregavano. Si resero indispensabili quindi la costruzioni di un dormitorio, un refettorio ed una cappella (oratorio).

Questa volta vi parlerò della grangia di Boffalora, in Lombardia e di proprietà della certosa di Pavia.

L’origine di questa Grangia si deve all’atto di donazione, datato 15 aprile 1396 dei vasti possedimenti appartenenti a Gian Galeazzo Visconti a favore dei monaci certosini, quale rendita destinata alla fabbrica di un monastero ed alla relativa dotazione. Da questo atto nascerà la certosa delle Grazie, comunemente nota come certosa di Pavia. Contestualmente all’erezione della certosa, i monaci pavesi avviarono i lavori della grandiosa Grangia di Boffalora, iniziando dai fabbricati dei portici con eleganti volte a crociera con il classico mattone, appoggiate su pilastri di granito i cui capitelli delle colonne, ripropongono l’ordine architettonico di tipo scudato, in tutto simili a quelli della certosa. I monaci, si insediarono in questa struttura dedicandosi alla coltivazione dei fertili campi di loro proprietà, inoltre data la posizione particolare, ovvero sulle sponde del fiume Ticino, il borgo di Boffalora, grazie alla presenza monastica, divenne ben presto fiorente e molto attivo grazie al porto sul Ticino e al Naviglio, via abituale per tutte le merci da e per Milano, mentre il fiume serviva come via di collegamento con Pavia, da dove poi le merci erano dirette al mare. I certosini non solo si dedicarono alla coltivazione dei campi e alla produzione dei beni di prima necessità, ma favorirono anche la bonifica di terreni un tempo inutilizzati, attraverso un sofisticato sistema di irrigazione che garantì un miglior utilizzo del suolo. La produzione principale furono i cereali assieme al fieno che si ricavava dal taglio stagionale dei prati, vi era anche una sparuta presenza di vigneti. Evolvendosi l’insediamento dei certosini portò anche allo sviluppo di un’osteria con alloggio (divenuta poi stazione di posta) che nell’Ottocento venne utilizzata come dogana dal governo austriaco per il punto strategico di passaggio nei pressi del ponte sul Naviglio Grande.

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Lo sviluppo economico della zona si deve alla alacre attività dei monaci, che nel 1778 richiesero la costruzione di una tra le prime filande impiantate in Lombardia.

Nel 1782 l’imperatore Giuseppe II decreta la soppressione di conventi e monasteri, tra cui la certosa di Pavia, incamerandone tutti i beni. A Boffalora i monaci pavesi possedevano 2000 pertiche di terreni, le due osterie con relative camere adibite a Stazione di Posta, la casa di propria abitazione (Ospizio), un prestino con forno, due case con quattro botteghe ciascuna, quattro case da massaro, una folla di carta (cartiera), un mulino e una pila di riso (opificio per la pulitura del riso).

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Tutti gli ambienti della Grangia certosina di Boffalora, oggi corrispondono all’attuale struttura del Municipio e collegati, i quali vennero ristrutturati negli anni ‘60 del novecento. Prima della ristrutturazione vi erano significativi elementi caratteristici della presenza della Grangia. Sul portale d’ingresso, situato allora sul fronte del Naviglio, e sulla pavimentazione di un ampio porticato sorretto da colonne, che sostenevano un loggiato con elegante parapetto in legno, era scolpita a grandi lettere la famosa sigla della certosa di Pavia: GRA-CAR (Gratiarum Cartusia – Certosa delle Grazie) quasi a ricordare l’origine di Boffalora e il legame vitale con la certosa pavese.

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