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Dom Emmanuel Ducreux ed il suo Opuscolo

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Cari amici lettori, voglio oggi farvi conoscere un monaco certosino che è vissuto nel periodo tribolato della Rivoluzione Francese, e quindi al centro dei drammatici giorni che turbarono la vita monastica sua e di suoi tanti confratelli.

Emmanuel Ducreux, nacque a Parigi il 4 aprile 1738, emise la professione nella certosa di Bourbon les Gaillon il primo gennaio 1758. Fu nominato Vicario nel 1782, poi fu inviato come sacrista alla certosa di Rouen nel 1783, in seguito fu coadiutore a Val Saint Georges lo stesso anno, ed a seguire procuratore a Bourbon les Gaillon nel 1785, fu eletto infine priore di questa casa nel 1786. Optò per la vita comune nel 1790, poi rifiutò il giuramento ed emigrò con quattro suoi confratelli in Inghilterra. Rimpatriato dopo qualche anno, divenne cappellano dell’ospedale di Rouen. Nel 1816 Dom Ducruex fu il fulcro delle procedure amministrative per la rioccupazione della Grande Chartreuse. La sua morte è annunciata negli annali del 1826.

Egli nel corso della sua esistenza si distinse tra l’altro per avere scritto, un anno prima della rivoluzione. una Vita di San Bruno per la certosa di Bourbon les Gaillon ed alcuni opuscoli.

Voglio proporvi il contenuto di uno di essi, nel quale vi è un orazione funebre per Re Luigi XVI, ghigliottinato a Parigi, il 21 gennaio del 1793. Un testo lungo, ma che lascia trasparire la disperazione per la morte del sovrano cattolico e per i tempi che si sarebbe apprestata a vivere la Francia.

cop opusc

Preghiera Funebre per Luigi XVI

Nolite flère super me, sed super vos ipsos flete.
Non piangere su di me; ma piangete su voi stessi. In San Luca, cap. xxv, f. 28.

Francesi, Cristiani, Miei Fratelli

Un crimine, un grande crimine, un grandissimo crimine è stato commesso in Francia, e sotto i nostri occhi. Sudditi ribelli, fuorviati, credendosi qualcosa, sebbene non fossero niente, hanno osato, contro ogni ragione, contro ogni giustizia, giudicare, condannare e mettere a morte su un patibolo come un delinquente un innocente, che non avevano anche il diritto di giudicare, un innocente; ehi, che innocente! il migliore dei padri, il migliore dei re, il loro legittimo sovrano, il virtuoso Luigi XVI, che descrivevano come un tiranno, sebbene nulla gli si potesse rimproverare se non la sua eccessiva bontà. È questo crimine atroce, questo crimine orribile, che veniamo a espiare in questo giorno, un giorno per sempre memorabile, un giorno di lutto e afflizione, un giorno che non potremo mai piangere abbastanza, un giorno che sarebbe desiderare la felicità della Francia che non sarebbe mai esistita. Ma purtroppo esiste, ed è per punirci di questo delitto di cui Dio si è dichiarato vendicatore, che ha fatto cadere sulle nostre teste colpevoli questo diluvio di mali che, da vent’anni e più, ci ha travolti. Felice! se avessimo saputo trarne un santo profitto.

Ma sfortunatamente, devo dire; sì: e sarete d’accordo con me, siamo puniti, cristiani miei fratelli, e non siamo corretti. La nazione traviata aveva osato, nel delirio del suo orgoglio, rovesciare il trono e l’autorità, stendere una mano sacrilega sull’unto del Signore, sui suoi pontefici, sui suoi sacerdoti: aveva osato dichiarare ad alta voce in un’assemblea demoniaca che non ci fu Dio, sebbene gli stessi demoni credano il contrario, a profanare gli altari eretti in suo onore, offrendo su questi stessi altari, sui quali scorreva quotidianamente il sangue dell’Agnello immacolato, sacrifici impuri, vittime abominevoli di voluttà infami. Eravamo, in una parola, senza morale, senza leggi, senza re, senza fede. Questo è l’abisso scavato sotto i nostri piedi dalla presunta saggezza dell’epoca; filosofia, anarchia, abuso di potere e dove saremmo rimasti inghiottiti per sempre.
Ma Dio ama la Francia; ama questo regno ornato da tanti secoli di questo bel titolo di regno cristianissimo; e viste le preghiere e i meriti di tante anime sante che in questi tempi tempestosi gli sono rimaste fedeli, le preghiere e i meriti del santo Re-Martire che piangiamo, non ci ha abbandonato, sebbene lo meritiamo, come tante altre nazioni che hanno abiurato la fede, e che, da diversi secoli, sono sepolte in fitte tenebre, e dormono tranquille sulle rive dei fiumi di Babilonia, in mezzo alle ombre della morte.
Oh mio padre! Oh mio Re! Oh Luigi! ottienici dalla bontà divina che essa riaccenda e conservi in Francia la fiaccola della fede che ha sempre brillato da Clodoveo fino ad oggi, quando perdendoti abbiamo perso tutto. O vittima innocente immolata da noi e per noi, dall’alto del cielo dove regni, getta uno sguardo di benevolenza su tutti i Francesi, che tutti, in questo momento, proni, annichiliti ai tuoi piedi, ti chiedono perdono per l’orribile attentato commesso contro la tua sacra persona, e ti prego di ottenere da essa il perdono per tutti i delitti che ne furono la conseguenza. No; non c’è un solo francese che non sia pronto a versare l’ultima goccia del suo sangue per espiare il suo crimine, se con la sua morte potesse restituirti ai nostri desideri, alla vita. Ma non c’è bisogno, fratelli miei cristiani, che Luigi XVI scenda dal cielo dove non cessa mai di intercedere per noi. Un miracolo non meno clamoroso che dobbiamo alla misericordia divina, che guarda sempre con benevolenza la Francia, nonostante gli orribili delitti di cui si è macchiata; miracolo che dobbiamo ai meriti e alle preghiere del nostro buon Re, Luigi XVI, di San Luigi, di tanti santi nostri compatrioti, e più in particolare ancora della Santissima Vergine, sotto la cui protezione Luigi XIII, di pia memoria, ebbe mettere il suo regno ei suoi sudditi; miracolo confessato e riconosciuto come tale dagli stessi miscredenti (nessuno se non un Dio può operare questo prodigio di cui tutti siamo stati testimoni); questo miracolo è il ritorno di Luigi XVII, fratello di Luigi XVI, in questo regno, dopo vent’anni di assenza.
Da tempo lo desideriamo, lo chiediamo, e sempre invano. Giunge finalmente il momento fissato dalla divina Provvidenza: e quando meno ce lo aspettavamo, Luigi XVIII tornò ai nostri desideri. Egli viene per asciugare le nostre lacrime, per porre fine ai nostri mali. Appare in mezzo al suo popolo come un sole splendente dopo una notte profonda. Viene, come un inviato dal cielo, guidato dalla religione, accompagnato da tutte le virtù, portando con sé pace e felicità.
Appena ha fatto qualche passo nella capitale dei suoi Stati, va al tempio per ringraziare Dio della grazia che fa alla Francia di restituirgli il suo legittimo sovrano, per protestargli che non vuole regnare solo da lui e per lui, e chiedergli i favori di cui ha bisogno per riparare i mali che vent’anni di anarchia e di empietà hanno fatto alla Francia. Sollecita preghiere pubbliche e chiede che il formidabile sacrificio sia offerto in espiazione e riparazione dell’ingiuria arrecata alla maestà reale nella persona del suo augusto fratello Luigi XVI, nostro legittimo sovrano. Ma questa riparazione e questa espiazione, fratelli miei cristiani, è tutta per noi. Luigi XVI è in paradiso; tutto ci dà il diritto di presumerlo. È vissuto da santo, è morto da santo. Infatti, questa calma, questa tranquillità con cui Luigi XVI si disponeva alla morte, ed era alla morte; calma e tranquillità che rendono abbastanza chiaro che era sicuro del suo destino, e che ha lasciato questa valle di lacrime solo per andare a godere della vera felicità nel seno di Dio stesso, che ha lasciato la terra solo per andare in paradiso. Calma e tranquillità molto al di sopra delle nostre idee volgari, che solo lui può definire bene, perché solo lui poteva sentirla e assaporarla. Fermiamoci qui per un momento, cristiani miei fratelli; ascoltiamo lo stesso parlare. La semplice lettura del suo Testamento, che fa anche l’elogio della sua pietà, del suo spirito, del suo cuore, lo dipinge molto meglio di quanto potremmo fare noi: sarà difficile per me leggerlo a voi, e voi, Fratelli miei, difficile ascoltarlo, senza versare tenere lacrime.

Qui le ultime parole pronunciate da Luigi XVI, sul patibolo:

“Io perdono i miei nemici; Desidero che la mia morte porti alla salvezza della Francia; “Muoio innocente”.

Grangia di Talamanca de Jarama

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L’approfondimento che oggi voglio proporvi è su di una importante grangia della certosa spagnola di El Paular. Conosciuta oggi, impropriamente, come Cartuja de Talamanca de Jarama essa è ubicata nella Comunidad de Madrid, al limite settentrionale dell’area urbana, i monaci certosini in progressiva espansione accumularono proprietà nella vallata e quindi decisero di realizzare questo complesso agricolo, motivati soprattutto dalle fertili condizioni del terreno della pianura del Jarama. I lavori di detto complesso dovettero iniziarono nel XVI secolo, modificando una preesistente enclave militare musulmana del IX secolo di cui si scorgono ancora le mura. Questa grangia si distingue per il suo grande valore storico e architettonico, oltre che per le sue notevoli dimensioni (18 mila mq)).
La sua importanza sta nell’aver conservato materiali, impianti e tecniche costruttive, utilizzate tra il XVI e il XVIII secolo, oltre a rispecchiare l’organizzazione economica delle certose, eminentemente agraria, basata sulla coltivazione dei campi e allevamento animale e, quindi, destinata allo stoccaggio di grano, vino, olio, aceto e diversi capi di bestiame.

Per tale motivo il 23 settembre del 1982, è stata dichiarata monumento storico artistico, dunque Bene di Interesse Culturale.
La proprietà è composta da vari fabbricati, attualmente tutti in cattivo stato di conservazione, è strutturata su due livelli ed è concepita intorno ad un chiostro a forma di elle, all’interno del quale troviamo diversi ambienti di interesse storico, come la cucina che ospita al piano interrato la cantina coperta da volte in mattoni, e la piccola ma deliziosa cappella, con bellissimi affreschi sul soffitto e sulle pareti.

A questi ambienti si aggiungono altre, costruzioni ausiliarie con strutture che mantengono solo una parte del loro perimetro in altezza muraria variabile e senza alcun tipo di copertura. In origine la grangia aveva dimensioni maggiori, ma quel che resta è sufficiente per comprenderne la grandezza e l’importanza che ebbe per quel territorio, non solo di rifornire la certosa di El Paular, ma vendere prodotti per una sana economia che ne garantisse la floridità economica.

Menzione a parte il suo caratteristico ed inconfondibile ingresso principale, che presenta un grande portone architravato con bugne, chiuso da due lamiere lignee con cassettoni e chiodi. Sull’apertura spicca un frontone curvilineo delimitato da una modanatura barocca e con lo stemma di Castilla y León.

La cantina, posta nei sotterranei della grangia, fu edificata nel 1703, secondo l’iscrizione posta nell’arco di accesso. È un quadrato lungo quattro sezioni per quattro di larghezza; ognuno di questi è coperto da volte a crociera in mattoni su pilastri quadrati. Lungo le sue pareti spiccano numerose grandi giare, la maggior parte delle quali incuneate con resti di reimpiego (capitelli e basi). L’edificio dispone anche di altri due magazzini.

Il fienile, risalente al 1799, posto al piano terra sopra la cantina e costituito da un vano di analoghe proporzioni, coperto con travi in legno e volta ad intonaco su pilastri.

La cucina, alla quale si accede attraverso un piccolo chiostrino porticato su montanti lignei con basamento.  Il pavimento della cucina è realizzato con macine in pietra.

La cappella, all’interno della quale vi sono ha dipinti murali sul soffitto e sulle pareti che rappresentano l’Immacolata Concezione, la Santissima Trinità, la Pentecoste e l’Agnello Mistico. Ai lati è presente un basamento in finto marmo su cui sono rappresentati Sant’Ugo, San Antelmo e la Maddalena, l’emblema della Casa dei Borbone e lo stemma certosino. Sull’altare vi è invece un bel dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione.

Il definitivo abbandono di questa proprietà avvenne nel 1835 con il decreto di secolarizzazione e confisca emesso da Mendizabal, che costrinse la vendita di tutti i beni dei monaci e l’abbandono dell’area. La grangia di Attualmente di Talamanca de Jarama è di proprietà privata, pur conservando la sua utilità agricola e nota per essere stata utilizzata in numerose occasioni come set cinematografico.

La seconda vita

Per i suoi suggestivi ambienti, la Grangia di Talamanca de Jarama dopo esser diventata di proprietà privata è stata scelta, negli ultimi cinquanta anni, da produttori e registi come quinta scenica per rappresentare ambientazioni riguardanti il seicento spagnolo. Questa location ha visto Marlon Brando, Sigourney Weaver, Arnold Schwarzenegger, Viggo Mortensen, Natalie Portman tra i principali attori che hanno recitato in ruoli storici. Molte sono state infatti le riprese cinematografiche di film, serie televisive e spot pubblicitari, che hanno visto protagonista l’antica grangia certosina come sfondo per la spettacolarità di questo set. Alatriste, Conan il Barbaro, I fantasmi di Goya, I quattro moschettieri, Santa Teresa di Gesù, Farinelli, Capitan Alatriste, Curro Jiménez, Águila Roja, Los Gozos y las sombras, La Celestina, Cervantes, La Cocinera de Castamar, El Ministerio del Tiempo. Sono questi i titoli delle principali pellicole, come ricorda una didascalia all’ingresso del complesso. Nel 2003 e nata Talamanca de Cine, con lo scopo di utilizzare il cinema come risorsa turistica, e in questo modo preservare e diffondere l’ampio percorso storico-cinematografico di questa città. Vi è anche celebrato annualmente, nel mese di giugno, il TALAMANCA FILM FESTIVAL.

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A seguire, due brevi video che ci faranno apprezzare la bellezza e l’importanza di questo sito, antica proprietà certosina, ed oggi importante luogo per realizzazioni cinematografiche.

Il certosino calligrafo

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Cari lettori, nell’articolo di oggi voglio parlarvi della calligrafia e dello studioso certosino dedicatosi a questa particolare arte.

Ma che cosa è la calligrafia?

La parola calligrafia deriva dal greco καλός calòs”bello” e γραφία graphìa “scrittura”, essa è la disciplina che insegna a tracciare una scrittura regolare, elegante e ornata, conferendo alla scrittura stessa un significato di bellezza.

Nell’antichità è stata sviluppata spesso in ambito religioso, nei monasteri, laddove era possibile indulgere all’arte come forma di comunicazione. Abbiamo visto, in un precedente articolo, che nelle certose non vi erano scriptorium, ma ogni monaco all’interno della propria cella aveva a disposizione tutto l’occorrente per poter scrivere. Inoltre il gesto manuale dello scrivere ed esercitare la grafia, con la sua lentezza ed impegno abitua alla pazienza, alla sedimentazione dei pensieri, al rilassamento agevolando la capacità di concentrazione. Un vero stratagemma per placare la mente e trovare la quiete d’animo con l’arte della calligrafia.

Premesso ciò, in ambito certosino vi fu un personaggio di rilevante spessore per questa disciplina. Dom Agostino da Siena realizzò un volume pubblicato a Venezia nel 1573, ritenuto di valido riferimento per l’argomento.

18 opera

Qesto testo, intitolato: “Opera del Reverendo padre Dom Agostino da Siena” risulta essere un vero manuale di calligrafia, nel quale egli ci insegna a scrivere vari tipi di lettere, sia cancelleresche che mercantesche. Inoltre vengono inseriti in appendice, una ricetta per fare l’inchiostro ed un sistema per temperare le penne e consigli posturali, componenti essenziali per tale arte. Ho deciso di offrirvi questi insegnamenti del certosino calligrafo, che dedicò i suoi studi a questa nobile disciplina.

Il libro inizia così….”Essendo stato sempre diligente investigatore di cose….

RECETTA PER FAR INCHIOSTRO,

che per caldo non farà muffa, ne feccia in fondo del vaso. Ho ritrovato in pochi luoghi, doue sono stato, che si sappia far buono inchiostro, qual al mio giudicio è molto necessario all’uso umano, però, acciò ne habbiate perfetta recetta, ho mandata quella fuori, acciò per nessun tempo si levino le lettere, come si vede in molti  libri feriti, e da choro, e instrumenti,che in brevità di tempo, con  fatica si vedeno, e non si possono leggere, Se acciò non vi sia piu quello abuso, mando in luce la sottoscritta esperienza. Piglia onze trenta di vino bianco, grande piu che poi trovarlo, perche’l vino grande cava meglio la sustantia ,e l’anima dalla galla, che non fa l’acqua, e nel detto vino, mettervi onze tre di galla d’Istria piccola, e crespa, franta, e non pesta, perche se la pelli, l’inchiostro in pochi giorni diventa grosso come macco (cremoso), e mettere la detta galla in infusione nel detto vino, per giorni dodeci, circa, attento che dui giorni piu, o manco non importa, e ogni giorno fatela mescolare quattro o sei volte perche importa assai,e nel giorno duodecimo, e ultimo, non la mescolate altramente, ma colate con una pezza di lino un poco grossetta, il vino che sia chiaro, il resto mettesi da banda, che non vale nulla, e nel detto vino mettervi dentro onze due di vitriolo Romano, e fate che sia buono. Perche nel vitriolo consiste la negrezza dell’inchiostro, e come gli hai messo il vitriolo, mescola il detto inchiostro per un mese e poi metteli dentro oncia una di gomma arabica, che fia chiara, e si spezzi come vetro, che quella è la vera gomma ,e fate che la gomma sia stata un giorno in infusione nel vino bianco, che venga liquida come trementina, perche s’incorpora piu facilmente con l’inchiostro, havrete un’inchiostro finissimo, ma nota che l’inchiostro fino a tanto, che non s’è riposato per quindeci,o venti giorni, non puoi mostrare la sua perfezione, e negrezza, e quello è quanto si puoi far per inchiostro finissimo.

MODO DI TEMPERARE LE PENNE.

Io ti potrei far longa diceria, ma attendi a quelle poche parole, che io scriverò qui a tuo ammaestramento. Prima dei sapere, che le penne debbono esser tonde, chiare, e fatto il primo taglio della péna, farai il fecondo ,e’l terzo, a tal che la sia come un becco di sparviero,e poi su l’ungia, tagliala in sguinzo, e se la iscarnarai un poco, sarà piu dolce nel scrivere, e sopra il tutto, attendi a quello che dico del tenire ben la penna in mano. Sappi che la penna, quando scrivi, la vuol guardar alla punta della tua spalla destra, ma fa che la sia de l’ala desta, che fa miglior scrivere, e quando la farà de l’ala stanca, che la guardarà al contrario, tieni pur la mano al modo, che essendo dritta la guardasse la punta della spalla, perche sempre non fi può haver penne de l’ala destra, e non ti pensar d’imparar a temperare cosi al primo, che questo se impara alla giornata, si come si va imparando a scrivere.

Memorie di uno zio certosino 2

thumbnail_Tio Vicente Acuarela. (2)

Continuano i ricordi del nipote del certosino Fratel Tomas Maria, condivido con voi, miei cari lettori, queste commoventi memorie.

La partenza per la certosa e gli inizi.

Quella mattina Vicente si è alzato, ha preso un autobus da Consuegra ed è andato a Madrid per andare a Burgos, non ha salutato nessuno, quando si è svegliato, il letto dove dormiva Vicente era vuoto, Dio ha messo per strada il suo primo cugino e che lo ha incontrato sull’autobus. Logicamente gli chiese “Vicente amico, dove vai da queste parti?” Immagino che avrebbe confessato quella pia menzogna “Ciao Trini, sai…per via delle carte e delle procedure” quando voleva rendersi conto che Vicente è scomparso per prendere un treno che lo avrebbe portato alla Certosa di Miraflores (Burgos), dice Dom Antonio Lopes, che era un avvocato e poi priore a Évora che sono entrati insieme e per questo gli hanno mostrato tanto affetto. Vi rimasero tre anni prima di essere trasferiti al Convento di Santa María Scala Coeli a Évora (Portogallo). Vicente, all’ingresso come novizio nella Certosa di Miraflores, divenne Fratello Tomás (dato che era il giorno in cui si commemorava il suo Santo, non so quale dei Tomases fosse) e María per la sua fervente devozione mariana. Quando divenne Fratel Tomás María Martín-Benito Romero, dopo tre anni con padre Antonio si trasferirono alla certosa a Evora (Portogallo). Subito si intravedono i punti di forza e di debolezza nella personalità di Fratello Tomás, subito in lui emergono le virtù del lavoro e viene nominato capo dell’agricoltura e dell’allevamento da cui deriva l’indipendenza economica del convento. Ci raccontava ridendo un aneddoto in relazione alla festa del 1° maggio (festa del lavoro) in Spagna e Portogallo.
“-Fratello, cosa fai oggi sul trattore?
-Cosa farò? lavorerò
-E non sai che giorno è oggi?
-Sì, uno di maggio.
-Fratello, oggi è festa, festa dei lavoratori e tra una risata ha detto loro “e quale modo migliore per santificare questa giornata che lavorare”

Tio Vicente con mi padre

La sua attività

Divenne l’autista della Certosa e ricordo che Padre Soto Domecq (a quel tempo priore) si fidava pienamente di lui per venire al mercato nazionale del bestiame a Talavera de la Reina (molto vicino a quella che era la sua casa a Consuegra) per occuparsi delle vendite di bovini cherole (bovini da carne) che venivano venduti per la sussistenza del convento. Ricordo di aver visto con sorpresa l’indice di una delle sue mani di mio zio con una falange in meno “una mucca l’ha mangiata mentre mangiava” disse con una risata e quando aprii gli occhi enormi per via della mia età e della sorpresa.. tornando serio, mi disse che aveva avuto un incidente con il magazzino che gli si era tagliato un dito.
Padre Soto Domecq, non voleva viaggiare con nessuno se non con fratello Tomás, “guida veloce e sicuro“. In una delle nostre visite, ci ha portato a visitare un vigneto a graticcio allestito dalla Fondazione e siamo andati con lui nel furgone tipo pick-up Peugeot così comune in quel paese. Andava così forte (la fama della cattiva guida dei portoghesi era molto diffusa in Spagna) che mio padre gli disse “Non vai molto veloce?” a cui mio zio ha risposto “Io viaggio sempre con il Signore e lui ci protegge in questo momento” e l’unica cosa rimasta era di tenerci stretti dove potevamo, ahahah. Quanto buonumore il mio zio certosino!

I suoi racconti

Fratello Tomás ha dovuto vivere un episodio storico, drammatico, momento nei quali l’unica arma con cui i poveri certosini potevano difendersi era la loro fede. La Rivoluzione dei Garofani, rivolta militare avvenuta in Portogallo il 25 aprile 1974. Quel giorno la notizia si diffuse da tutti i civili che lavoravano per il marchese che aveva donato alla certosa e le sue terre, per proteggere i monaci e temendo che sarebbero stati fucilati, sono stati invitati a rimuovere le loro abitudini e indossare le tute per fingere di essere personale civile. I monaci certosini, rifiutarono con il Priore che disse: “sarà ciò che Dio vuole” e rosario in mano, si affidarono all’intercessione della Vergine Maria. Si sentivano le voci dietro le mura della clausura sempre più forti e il miracolo della Vergine Maria si rifletteva nel momento in cui terminavano la preghiera, le grida e le voci si dissipavano in quel preciso momento dell'”amen”. La Rivoluzione terminò 24 ore dopo la sua nascita. Fratello Tomás ci raccontava sempre di questo episodio ogni volta che andavamo e finiva dicendo che fu un vero e proprio miracolo, rimanere indenni.

Dolci ricordi

Durante le visite che gli facevamo, quando finiva di parlare con mio padre e con gli adulti, toccava a noi, prendeva me e mia sorella e ci chiedeva della scuola, dei nostri amici, dei nostri hobby e ci chiedeva sempre di essere “bambini modello” visto il suo fervore La vocazione mariana consigliava sempre la stessa lettura “Il silenzio di Maria” consigliandomi di leggerlo per applicazione alla mia vita con un… “Resta con me” e un ammiccamento di complicità al quale mia madre interveniva sempre con un’esclamazione di disapprovazione.

Ho parlato dei suoi punti di forza ma i suoi punti deboli erano evidenti, ed era di sicuro la sua poca formazione accademica, sapeva solo leggere, scrivere e un po’ di cultura generale. Ma… Padre Antón Lopes nelle nostre ultime visite alla Certosa mi ha raccontato con stupore come gli avesse chiesto di insegnargli a parlare “quella lingua”.

Quale lingua Fratello? “

“Quella con la quale si canta”

“Ah il latino?!!!”

“Si quella lingua!”.

Fratel Thomas e Padre Antao Lopes
Fratello Tommaso, mio zio, ha imparato il latino e ha guidato a lungo la voce cantata nel coro, ed è stato un caso eccezionale di partecipazione di un fratello al coro… era sorprendente perché nonostante la sua scarsa formazione riusciva a discutere di filosofia, leggeva testi di filosofi nella sua cella.

Tutte le lettere che lui ci scriveva iniziavano con un “Caro Pepe, Socorro e nipoti, sono grasso, felice e felice, grazie a Dio…” e le ricevevamo con enorme gioia, mia madre mi dettava e io scrivevo, mio padre scriveva e lui ha scritto la sua, proprio come mio zio Félix e l’abbiamo inviata tutti insieme… grazie a queste e-mail, che ti ho inviato, ne ho rilette alcune con una lacrima di nostalgia affiorante e ho potuto vedere come prediceva la situazione che l’agricoltura sta attraversando oggi in Spagna.

Mentre scorrono lacrime di profonda commozione, ed in attesa di altri ricordi spero che questi racconti possano aver interessato i lettori di Cartusialover. Sono lieto di aver avuto l’opportunità offertami da questo blog, di ricordare il mio caro zio certosino.

Scriptorium e certosini

guigo

« Ad scribendum vero, scriptorium, pennas, cretam, pumices duos, cornua duo, scalpellum unum …» Guigo

Ho deciso di realizzare questo articolo con l’intento di chiarire un dubbio, o meglio ancora, di stabilire a chi ancora incorre in errore il rapporto dei certosini con lo scriptorium. Innanzitutto, precisiamo di cosa parliamo, per scriptorium si intende letteralmente “luogo di scrittura”, e comunemente questo termine è usato per indicare la stanza dei monasteri medievali europei dedicata alla copiatura dei manoscritti degli amanuensi monastici, prima dell’introduzione della stampa. Uno scriptorium, dunque, era situato in un’area adiacente o annessa ad una biblioteca. In altre parole, la presenza di una biblioteca all’interno di un monastero implicava la vicina esistenza di uno scriptorium.

Ma non nelle certose!

I certosini, difatti, concepivano il loro lavoro di copiare testi religiosi come il loro lavoro missionario per valorizzare la Chiesa, ma la rigida solitudine dei certosini imponeva che il lavoro manuale dei monaci fosse praticato all’interno delle loro singole celle. Furono molti i confratelli certosini che si dedicarono a questo laborioso compito di trascrivere testi, ed anche rilegarli. Per poter svolgere questa mansione, ogni cella era attrezzata con una stanza dedicata a tale scopo, con pergamene, una penna, un calamaio e un righello. Basti pensare, che Guigo nella redazione delle “Consuetudines Domus Cartusiae”, indica con precisione la dotazione personale del monaco certosino in cella. « Ad scribendum vero, scriptorium, pennas, cretam, pumices duos, cornua duo, scalpellum unum …»

Guigo, inoltre, consigliava ai confratelli di stare attenti ai libri che ricevevano dalla biblioteca per copiare:

« Lasciate che i fratelli si prendano cura che i libri che ricevono dall’armadio non si sporchino di fumo o di sporcizia; i libri sono come il cibo eterno delle nostre anime; mi auguro che siano custoditi con la massima cura e realizzati con il massimo zelo»

Memorie di uno zio certosino

Hermano Tomás María.

Carissimi amici lettori, per l’articolo di oggi dobbiamo ringraziare un cartusiafollower speciale, che ha avuto nella sua famiglia uno zio che ha indossato l’abito certosino per oltre 40 anni. Egli ha voluto inviarmi delle notizie, delle foto e delle curiosità sul suo rapporto con la certosa per tutte le volte che è andato a trovare suo zio, Fratel Tomas Maria, alla cui memoria questo articolo è dedicato. Tanti sono gli aneddoti, che egli ha voluto narrarmi, e che ho raccolto in due articoli. Leggiamo questo appassionante racconto, composto da ricordi che riaffiorano dopo tanti anni.

Il viaggio

Mio zio Vicente (Fratel Tomas), è una persona molto molto speciale per me. Ricordo quel viaggio in primis con mio nonno, i miei genitori e mia sorella e mia zia (la sorella) passaporto in mano che arrivava alla dogana di Badajoz dopo un lunghissimo viaggio per quelle strade nazionali degli anni 70. Ricordo di aver passato la notte a l’Hotel Rio a Badajoz e una volta nell’entroterra del Portogallo, nella regione dell’Alentejo per dormire a Estremoz, a Borba o se eravamo fortunati vicino ad Evora. Erano tanti anni che la famiglia si separava e noi uomini dormivamo in quella locanda dove San Bruno era il protagonista della decorazione, io scherzavo sempre con mio zio Felice con il quadro della morte di San Bruno, perdonatemi, ma guardarlo mi faceva venire i brividi ed io chiudevo velocemente gli occhi per addormentarmi il prima possibile.

L’incontro

Quando siamo arrivati alla Certosa, abbiamo aspettato Fratel Tomás, o mi è sempre parso così. Uscì Fratello Antonio, che svolgeva le funzioni di portiere, un uomo molto alto che ci accoglieva sempre con il sorriso e che veniva dal Mozambico, con una carriera degna di un atleta, si precipitò ad avvertire nostro zio. Fratello Tomás ha sempre tenuto un ordine nel saluto: fino alla morte del padre, il primo, è sempre stato lui (mio nonno Marcelino) Non ho conosciuto mia nonna, si dice a Consuegra che sia morta di dolore quando ha saputo che Vicente, il suo secondogenito, decise di ritirarsi in certosa, in realtà, morì appena un anno dopo che suo figlio entrò in convento a causa di una trombosi. Poi salutò sua sorella Felisa, poi suo fratello José (mio padre), poi suo fratello Félix, seguita da mia madre (sua cognata), che la salutava sempre porgendole la mano, mai con un bacio e poi a noi (i nipoti) Se baciava mia sorella, era per la sua età (era una bambina) anche se credo di ricordare che le ultime visite quando era più grande, le ha dato anche due baci.

Racconti di famiglia

Vicente, il secondo di quattro fratelli, è nato in una famiglia di contadini, ma non una famiglia tipica. Mio nonno aveva un notevole capitale fondiario e una cantina. Mio zio Félix, il più giovane dei quattro, fin da giovanissimo diceva che Vicente dava la paghetta settimanale che mio nonno assegnava a una famiglia molto bisognosa del quartiere dove abitava. Durante i lavori agricoli si dice che cantasse benissimo le canzoni dell’epoca e si facesse applaudire. Aveva anche una ragazza.
Io sono nato nel 1969 e prima ancora che fossi un progetto, José, che sarebbe diventato mio padre e mio zio Vicente, incoraggiato dai Padri Francescani di Consuegra che venivano ad ascoltare la Messa domenicale, venivano esortati a fare gli esercizi spirituali a Toledo, fu in quel momento che si destò la sua vocazione religiosa, mio padre disse “quegli esercizi hanno cambiato mio fratello“. Vicente non volle mai confessare quella sollecitudine spirituale che manifestava, si interessò segretamente alla vita contemplativa, tanto segretamente da utilizzare il confessionale della Chiesa dei Padri Francescani per scambiare lettere con il Priore della Certosa di Miraflores in colui che gli mandò prove che dovette superare per corroborare la durezza e le esigenze dell’ordine certosino. Mio zio Felix, quando dormiva nella sua stessa stanza, mi ha detto che si è svegliato con le lenzuola insanguinate e con un “shhshhh!!” gli ha chiesto per favore di mantenere quel segreto, l’uso del cilicio, lavandole lui stesso. Come ho già detto, la gentilezza di Vicente ha raggiunto limiti insospettabili, alzandosi alle 3 del mattino per aiutare un camionista che era stato fermato nel fiume Amarguillo che attraversa Consuegra (resta un mistero di chi l’abbia avvertito in quel momento!). Non saprò mai se la sua ragazza Victoria (deceduta di recente), è riuscita a dirgli addio, quello che so è che è sempre stata molto coinvolta nel lavoro in chiesa e che ha cantato bene o meglio di lui. Non si è mai sposata. Mi dicono (non posso assicurarlo) che la parrucca dai capelli lunghi che mostra l’immagine del Cristo di Veracruz, patrono di Consuegra, sono i suoi capelli naturali, come posso dire non posso assicurarlo, ma mi ha stupito quando me ne hanno parlato.

“Omnes et omnia videat”

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L’articolo odierno è tratto da un post pubblicato sui canali social della Certosa monumentale di Calci, oggi visitabile come museo. Trattasi di una bizzarra curiosità che voglio proporre alla vostra attenzione.

Come voi sapete, miei cari lettori, la massima comunità di una comunità monastica certosina è guidata da un Padre priore, il quale come tutti gli altri monaci ha una cella che si affaccia sul chiostro. Ha però la peculiarità di avere una dimensione maggiore, o meglio di estendersi in altri ambienti di solito molto curati, con stanze di rappresentanza atte ad ospitare eventuali ospiti illustri e non. Loggiati, studioli e talvolta meridiane o orologi e biblioteche impreziosiscono questi spazi, adornati solitamente da pregevoli dipinti affreschi e mobili. Essenzialmente il Padre Priore ha la possibilità di poter controllare l’intera certosa con tutti i suoi spazi monastici.

Premesso ciò ecco per voi questa singolare tabella che veniva affissa sulla porta della cella priorale, attraverso essa il priore indicava di volta in volta gli ambienti in cui poteva essere rintracciato in caso di necessità, in basso anche una sorta di orologio per indicare forse il tempo della sua assenza. Insomma grazie all’ingegno come al solito nulla era lasciato alla casualità!

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Inoltre forte è l’espressione simbolica in certosa, motivo per cui il sovraporta che decora l’accesso alla cella sul lato del chiostro è caratterizzato da un soggetto fortemente simbolico. Sul copricapo priorale campeggiano tanti piccoli occhi bene aperti, esplicito riferimento alla onnivegenza, il tutto accompagnato da un messaggio di grande chiarezza: “Omnes et omnia videat”, ad indicare la capacità del priore di vedere tutti ed ogni cosa, a monito per tutti i confratelli.

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Ma vorrei sapere se qualcuno è in grado di testimoniare la presenza di qualcosa di simile in qualche altra certosa, sarebbe interessante saperlo.

La Grangia di Aversa

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Ritorno in questo articolo a parlarvi di una antica grangia certosina. Questa volta vi farò conoscere la Grangia di Aversa in provincia di Caserta appartenuta alla certosa di San Martino di Napoli. Come già vi ho esposto in altri articoli, il termine grangia etimologicamente deriverebbe dal francese arcaico “granche”, che a sua volta verrebbe dal latino volgare “granica”, ed indicherebbe il luogo dove si conserva il grano (granarium).

Furono vere e proprie tenute agricole in cui fratelli conversi e donati lavoravano sotto la direzione di un Magister Grangiae, essi oltre a lavorare in loco dormivano, mangiavano e pregavano. Si resero indispensabili quindi al loro interno la costruzione di un dormitorio, un refettorio ed una cappella (oratorio). Ciò premesso, proviamo a localizzare ciò che resta di questo antico possedimento certosino. Si possono scorgere attualmente alte mura perimetrali di una imponente costruzione, nei pressi della chiesa di S. Antonio nei pressi di Corso Umberto. Questa grangia, fu la più importante dell’agro aversano a causa della sua importante ubicazione. Ma non solo una importanza agricola e commerciale, ma essa fu abbellita nella sua struttura architettonica da valenti artisti. Purtroppo oggi non vi sono tracce visibili dello splendore e dei pregevoli interventi architettonici, ma da antichi documenti, si evince che i certosini di San Martino nel 1638 commissionarono al celebre architetto bergamasco Cosimo Fanzago la realizzazione di una cappella. Egli la realizzò con l’aiuto del suo ultimogenito figlio Carlo, mentre gli affreschi furono realizzati da un’altro grande artista caro ai certosini napoletani. Massimo Stanzione Soprannominato il “Guido Reni napoletano” per il suo talento pittorico e protagonista di vari cicli pittorici alla certosa di san Martino, contribuì nel 1642 alle decorazione qui nella grangia di Aversa. Pur non essendovi rimasta traccia dei loro interventi, possiamo immaginarne l’alto valore artistico, che rendeva questa grangia particolarmente prestigiosa.

Attualmente non restano che pochissimi elementi superstiti, rappresentati da una serie di terranei, adibiti nella loro funzione originaria a depositi per gli attrezzi, a stalle per animali da traino e da cortile, a deposito per le derrate: su cui si sviluppavano le camere superiori e le terrazze, ora in parte trasformate in appartamenti.

Al di sotto del cortile troviamo un’imponente cisterna d’acqua, la quale ebbe la funzione di rendere autonoma idricamente questa cittadella monastica, raccogliendo l’acqua piovana, a simiglianza della cisterna monumentale del chiostro grande della certosa napoletana.

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Un seme argentino: Dom Jorge Falasco

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Cari amici, nell’articolo di oggi vi ritorno a parlare della certosa argentina di San Josè, lo spunto mi viene offerto da un breve ma delizioso video. In esso potremo ammirare lo svolgimento dell’attività claustrale svolta da una comunità alquanto numerosa e giovane, frutto di un lavoro incessante svolto dai primi certosini che giunsero in Argentina.

Tra questi vi era Dom Jorge Falasco, di cui oggi parlerò.

Apprezziamo dapprima il video.

Ed ora attraverso la descrizione della sua vocazione, fatta in un suo scritto, Dom Jorge Falasco ci descrive il suo percorso particolare che lo condusse a ad essere uno dei fondatori della certosa di San Josè.

Uno dei primi semi che hanno fatto germogliare questa fervida certosa!

Premesso che, Jorge Falasco nacque nel 1947, da subito fu affetto da crisi epilettiche manifestatasi fino ai due anni di età, allorchè scomparvero, improvvisamente, dopo una visita al santuario di Nostra Signora di Luján. Successivamente egli si dedicò agli studi che lo avrebbero condotto a diventare un medico cardiologo, ecco la narrazione degli eventi succedutisi e che sconvolsero la sua esistenza.

Ho diviso in due parti la sua testimonianza.

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Prima parte

Un sabato di fine 1976 un amico mi chiama per incontrare alcune monache carmelitane in via Ezeiza, a Buenos Aires. Visto che era sabato e ho approfittato del weekend per leggere, allenarmi e aggiornarmi, ho cercato di evitare l’impegno e di mandare un altro medico. Inoltre, di solito non ci si prendeva cura dei pazienti a casa. Ma il mio amico ha insistito e mi ha convinto. Nel mentre stavo facendo un elettrocardiogramma sulla ragazza più giovane, circa quanto la mia età, lei improvvisamente e inaspettatamente mi ha chiesto cosa avrei fatto della mia vita. Non sono riuscito a darle una risposta chiara e precisa e lei, vedendo la mia esitazione, mi ha convinto ad accettare di recarmi per qualche giorno al monastero benedettino di Luján per mettere in ordine i miei propositi. La Madre Priora, che era presente, acconsentì e mi promise che in 24 ore avrebbe organizzato tutto per me. Sarebbe stato un modo per ringraziare i miei servigi. Pochi giorni dopo sono partito per il Monastero di San Benito, a Luján. Lì sono stato ricevuto dal suo abate, Dom Martín de Elizalde (attuale vescovo di Nueve de Julio). Sono stati cinque giorni intensi (il tempo mi è sembrato di più). Lì ho incontrato un seminarista del Paraná che stava facendo il suo ritiro prima della sua ordinazione diaconale. Appena mi ha visto e mi ha fatto alcune domande, mi ha convinto ad andare in Paraná. L’idea mi sembrò buona e gli dissi di farmi incontrare il Vescovo del Paraná, che in quel momento si trovava a Buenos Aires. Non sarebbe stato facile perché oltre ad essere arcivescovo di Paraná, era vicario militare e presidente della Conferenza episcopale. Due giorni dopo fui convocato per un incontro con il vescovo Adolfo Servando Tortolo, al Collegio Champagnat quella stessa notte. Ero lì nel tempo e nella forma. Mi sono fermato a vederlo dopo aver aspettato il mio turno dietro alcuni generali e brigatisti. Mi ha molto colpito il suo vestito: con tonaca rossa, zucchetto, fusciacca… Non avevo mai visto un vescovo da vicino. Fu breve e spedito: dovevo lasciare tutto il prima possibile ed entrare in Paraná. Ed è così che il 1 marzo 1977, dopo aver trasferito le quote dell’Unità Coronarica ai miei colleghi e i miei beni a mia sorella, ho preso l’autobus a Retiro per il Paraná. non sarei tornato più indietro. Sono arrivato in seminario all’alba. Per la prima volta mi trovavo in un ambiente corretto ecclesiastico. Il Padre Rettore mi ha fatto un progetto personale per fare due anni di filosofia in uno. Vale a dire, sono entrato direttamente al secondo anno e ho dato gratuitamente le prime materie. La mia gratitudine al Seminario è immensa. In sette mesi ho fatto due anni di Filosofia. Non ho mai studiato così tanto e con così tanto frutto. Il mio insegnante di metafisica Luis (Lucho) Melchiori mi ha dedicato lunghe ore con indicibile pazienza. Ho conosciuto, apprezzato e amato San Tommaso. La dottrina dell'”esse” come atto dell’essere e la sua applicazione allo studio della realtà mi ha dato le basi necessarie e sufficienti per dare solidità e stabilità non solo alla mia fede ma anche a tutte le conoscenze acquisite nella mia vita universitaria e professionale. Ho anche collaborato con il Seminario Minore impartendo agli studenti corsi di Anatomia e Fisiologia. In Seminario mi sono fatto grandi e cari amici, oggi alcuni di loro vescovi. Non ho parole per ringraziare questo trattamento che la Chiesa mi ha riservato all’inizio della mia vita consacrata.

Segue nel prossimo articolo…

(Estratto da “Prehistoria de la Cartuja San José”, scritto da P. Jorge Falasco)

Le infermità tra i certosini

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«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità

La XXX Giornata mondiale del malato, che ricorre oggi 11 febbraio, in cui si celebra la memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, ed istituita da papa Giovanni Paolo II nel 1992, fu concepita per rappresentare un momento speciale di preghiera, per dedicare attenzione al malato ed a tutti coloro che lo assistono quotidianamente. Va ricordato che nel 2013 papa Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni nel corso di questo giorno di festa, e ha citato la sua salute in declino come la ragione del suo gesto.

Il nostro pensiero va dunque alle persone malate ed a coloro che le assistono, ed in particolare a quanti, in tutto il mondo, in questo momento particolare, patiscono gli effetti della pandemia del coronavirus. Premesso ciò, non possiamo trascurare come vengono accuditi gli infermi ed i malati all’interno di una comunità monastica certosina, e come vengono trattate le infermità tra i certosini.

L’Ordine certosino da sempre ha avuto una particolare attenzione a questo tema, al punto di dedicare un’ intero paragrafo nel capitolo Libro III – La Comunità– 27 degli Statuti, nel quale si spiega come gestire le malattie e la cura agli infermi nel rispetto della povertà che hanno professato e conformi allo spirito di solitudine.

Gli infermi

L’infermità o la vecchiaia ci invitano ad un nuovo atto di fede nel Padre che con tali prove ci configura più intimamente a Cristo. Così, associati in modo particolare all’opera della Redenzione, ci uniamo più strettamente con tutto il Corpo Mistico.

Il priore mostri una speciale sollecitudine e misericordia verso gli infermi, i vecchi e quelli che sono nella prova. Ciò si raccomanda anche a tutti coloro ai quali è affidata la cura degli infermi. Secondo la possibilità della casa, si fornisca caritatevolmente agli ammalati tutto ciò che è necessario e giovevole. Tutti i servizi, anche i più intimi, a cui essi non possono attendere da sé, siano compiuti umilmente dagli altri, in modo che si reputi felice chi ha ricevuto un tale incarico. Coloro che soffrono di qualche malattia nervosa, particolarmente molesta nella solitudine, siano aiutati in ogni modo, così da comprendere che possono dare gloria a Dio, purché, dimentichi di sé, si abbandonino con fiducia alla volontà di Colui che è Padre.

I malati però, come dice S. Benedetto, siano ammoniti di far bene attenzione a non contristare chi li serve, chiedendo cose superflue o impossibili o magari lagnandosi. Ricordandosi della vocazione abbracciata, riflettano che come vi è differenza tra il religioso sano e il secolare sano, allo stesso modo il religioso infermo deve comportarsi diversamente dal secolare infermo, per evitare – ciò non avvenga – che durante la malattia l’animo si ripieghi su se stesso e resti vana la visita del Signore.

I malati dunque siano invitati a meditare sulle sofferenze di Cristo, e chi li serve sulle sue misericordie. Così i primi diverranno forti nel sopportare e i secondi pronti nel soccorrere. E mentre quelli considerano di essere serviti per Cristo e questi di servire per lui, i primi non si inorgogliscono e i secondi non si scoraggiano, perché gli uni e gli altri attendono dal medesimo Signore la ricompensa della fedeltà al proprio dovere: i malati del patire, gli infermieri del compatire.

Come poveri di Cristo, ci accontenteremo del medico ordinario della casa o, se il caso lo dovesse esigere, di uno specialista delle città vicine. Se, oltre al medico abituale, un padre è costretto a consultare uno specialista, il priore gli può concedere di recarsi in una delle città vicine stabilite dai Visitatori col consenso del Capitolo Generale o del Reverendo Padre, purché sia di ritorno lo stesso giorno. Ugualmente il priore può permettere che un monaco sia ricoverato in ospedale; conviene, tuttavia, che ne venga informato il Reverendo Padre.

I nostri malati, per amore della solitudine, ricevono, per quanto è possibile, le cure necessarie nella propria cella.

In tutte queste circostanze abbandoniamoci con animo docile alla volontà di Dio e ricordiamoci che mediante la prova dell’infermità veniamo preparati alla felicità eterna, ripetendo col salmista: Quale gioia, quando mi dissero: ”Andremo alla casa del Signore”.

I medicinali vengono usati con grande parsimonia, e solo nei casi veramente necessari e previa licenza del padre priore, ciò appare dissonante con la presenza nei secoli nelle certose di spezierie molto attrezzate ed in grado di produrre farmaci e medicamenti di vario genere. Ciò va ricondotto alla estrema generosità e misericordia dei certosini, i quali per quanto fossero austeri e severi con se stessi, erano altrettanto prodighi con gli estranei. Le spezierie erano di fatto al servizio dei pellegrini indigenti che trovavano conforto bussando alle certose sicuri di ricevere assistenza. Va segnalata, inoltre, la diffusa riluttanza tra i monaci a ricorrere a cure ospedaliere, per l’attaccamento alla cella ed alla vita claustrale spesso approfittano della malattia sopraggiunta per “santificarsi” non chiedendo mai aiuto o difficilmente lo accettano. Accolgono la sofferenza con gioia!

A seguire diverse immagini e qui un breve video che ci fanno cogliere l’amore con il quale i monaci infermi o molto anziani, vengono assistiti e curati dai confratelli con caritatevole devozione.

Grazie al sito amico escadoceu.…..per le immagini.