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Un sermone per l’Ascensione

Cari amici, oggi si celebra la festività dell’Ascensione, ed ho deciso di offrirvi uno splendido sermone del Reverendo Padre Dom Andrè Poisson, concepito per commemorare questa festa liturgica del 1984. Il testo è alquanto lungo, gradevolissimo e vi consiglio di leggerlo e meditarlo!

Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto ritornerò e vi prenderò con me” (Gv 14,3)

La promessa di Gesù, che annuncia ai discepoli che Lui stesso s’impegna a preparare il posto che essi occuperanno vicino a Lui nei secoli a venire, trova eco nella nostra orazione propria di San Bruno. Rileggiamola attentamente, poiché essa apre delle prospettive molto ricche sullo svolgimento della nostra vita monastica, in piena consonanza con le proposte di Bruno stesso nelle sue lettere. Ecco questa orazione: Dio onnipotente ed eterno, Tu prepari nel cielo un posto per coloro che rinunciano al mondo; nel tuo immenso amore accogli la nostra umile preghiera: per l’intercessione del nostro padre San Bruno donaci di essere fedeli ai nostri impegni e di raggiungere attraverso una via sicura il termine che hai promesso a coloro che ti saranno restati uniti fino alla fine. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

* * * * * * *

Ciò che più colpisce in questa preghiera è il modo accentuato in cui essa è rivolta all’avvenire. Essa considera la nostra vocazione non sotto l’aspetto di una pienezza appagante del momento presente, ma nella prospettiva della durata, in cui il senso profondo non si manifesta che una volta ultimata la corsa. Ciò è vero per ogni vita cristiana, ma in modo assoluto nel caso di una vita monastica nel deserto: non riconoscere ad essa altra giustificazione soddisfacente che il termine che la disorienta. Sotto questa prospettiva diciamo che la nostra vocazione è innanzitutto escatologica: il mondo presente è una via che ci conduce al di là di esso. Viviamo senza aver da costruire nulla di stabile quaggiù. Ma, alla stessa maniera dei compagni di cui ci parla San Bruno in Calabria, noi dobbiamo prendere alla lettera la consegna donata da Gesù stesso: vivere in stato di veglia continuo, nell’attesa ininterrotta del ritorno delle nozze del nostro Maestro (A Raoul 4). Qualunque sia la solidità dei monasteri di pietra nei quali viviamo, alla fine “ non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14). Non è il senso primo della vocazione di San Bruno, quando nel giardino della casa d’Adamo egli fu travolto dallo Spirito Santo? “Infiammato di divino amore, scrive egli molto tempo dopo,… abbiamo deciso di lasciare senza indugio il secolo fugace per metterci alla ricerca delle verità eterne” (A Raoul 13). Una ferita si è formata nel cuore del Maestro di Università di Reims, improvvisamente divenuto ardente d’amore per Dio. Eccolo scavalcare tutte le tappe transitorie di questo mondo mutevole, per partire alla ricerca dell’eternità, il solo dono che potrà fargli il Signore, divenuto ormai l’Unico che conta ai suoi occhi. Tale è la logica alla quale non si può sfuggire se ci si mette alla scuola di Bruno: desiderare d’incontrare Dio è lasciarsi divorare dalla sete d’eternità. Gli Statuti Rinnovati, al seguito del Concilio, sviluppano fino alla fine la portata di questa dimensione escatologica della nostra vocazione: “La nostra vita, essi dicono, mostra che i beni del cielo sono già presenti quaggiù; essa è un segno precursore della resurrezione e come un’anticipazione dell’universo rinnovato” (SR 34.3). Noi abbiamo fatto la scelta, in maniera irrevocabile, d’orientare la nostra vita verso la resurrezione, là dove noi saremo appagati dalla sola pienezza che valga: la contemplazione di Dio stesso. Tutta la nostra esistenza terrestre si trova, così, segnata dal sigillo della contemplazione diretta dal solo Bene e a causa di ciò noi diveniamo testimoni per il mondo a venire, portatori nella nostra esistenza di una realtà che è già un pregustare lo stato di resurrezione. Dio voglia che la testimonianza che ci chiede di dare al mondo, trasformi innanzitutto i nostri propri cuori!

* * * * * * *

L’orazione di San Bruno mette in evidenza una seconda dominante della nostra vita: la fedeltà. E’ una grazia che noi imploriamo umilmente, perfettamente coscienti del fatto di non potervi far fronte con le sole nostre forze. Il testo dell’orazione parla di “fedeltà ai nostri impegni”. Bisognerebbe dare a queste parole un significato giuridico rigoroso e vedervi il pensiero stretto di non mancare alla lettera alla nostra formula di professione o di donazione? Ciò sarebbe, mi sembra, restringere in maniera indebita il senso di una preghiera di cui l’orientamento è tutto spirituale. L’impegno fondamentale che abbiamo preso è quello di seguire San Bruno nella sua scelta di “lasciare il secolo fugace” e di “mettersi alla ricerca delle realtà eterne” ( A Raoul 13). Bruno stesso ci orienta in questa direzione nella lettera ai suoi fratelli della Certosa. Anche se non bisogna forzare il senso dei consigli che a loro dona, mi sembra che egli attiri chiaramente la loro attenzione sulla sollecitudine con la quale essi devono vegliare, al fine di non far decadere la qualità della loro vita religiosa, raggiunta per grazia di Dio e per la loro generosità. La sua intenzione è assai chiara quando egli s’indirizza ai conversi. Egli conclude il paragrafo che è loro destinato con questo avvertimento: “Restate, miei fratelli, là dove siete pervenuti e fuggite come la peste la schiera malsana dei laici incostanti” (Ai suoi figli della Certosa 2.4), i quali potrebbero nuocervi molto se voi vi lasciaste influenzare dai loro esempi. Questi sono, punto per punto, la negazione di ciò che fa la qualità eccezionale dell’obbedienza contemplativa dei conversi della Certosa: un’obbedienza ammirabile, ma portatrice di vero frutto solamente se si renderà capace di essere fedele a sé stessa nel corso degli anni. Diversamente, essa non condurrà i fratelli al luogo che Dio ha loro preparato nel cielo. Si scopre un orientamento analogo alla fine del canto d’azione di grazie indirizzato da Bruno ai suoi figli, avendo raggiunto la tranquillità del porto più nascosto. Che bisogno ha lui di ricordare loro che “nessuno che abbia goduto di questa buona sorte così desiderabile e l’abbia persa… non ne abbia provata una pena continua…” (id.1.4) se non perché li vede esposti al pericolo? La nostra vita nel deserto è bella, è attraente, ma mette a nudo le fragilità del nostro cuore, nella misura in cui mette alla prova le inclinazioni legittime della nostra natura. Gli Statuti lo ricordano: “La santa vocazione che ci hanno trasmesso i nostri Padri ci impegna su una via molto alta: il rischio di mancare è tanto più grande per noi, non tanto forse per errori manifesti, quanto per l’inclinazione naturale dell’abitudine” (SR 33.1). Riconoscere che noi siamo continuamente esposti è una forma di saggezza. Senza di essa ci mancherebbe una visione realista della vita nella quale ci siamo impegnati. Non per crearci delle vane inquietudini, ma per ricevere da Dio, nella fiducia, la fedeltà di cui noi abbiamo bisogno. E perché non considerare questo dono, ininterrottamente rinnovato dal Padre dei cieli, come un anticipo di ciò che ci donerà in cielo?

* * * * * * *

Rimane, da considerare, un’ultima dimensione della nostra vita. L’orazione di San Bruno la evoca in maniera abbastanza discreta, ma mi sembra utile soffermarci, poiché essa rappresenta una componente importante del nostro equilibrio. L’orazione termina con questa richiesta: “Donaci di raggiungere il premio che Tu hai promesso a coloro che ti saranno rimasti fedeli fino alla fine”. La realtà evocata qui è vicina alla fedeltà di cui abbiamo appena parlato, ma differisce da essa : è la perseveranza, in altre parole, la capacità d’assumere un ritmo di vita umanamente abbastanza piatto, per lunghi periodi, in cui la monotonia della cella e del deserto non è spezzata da nulla d’importante. Generalmente, la vita certosina si dispiega con una cadenza lenta nel corso degli anni, i quali si accumulano senza fare rumore. E’ questa durata che diviene strumento d’incontro con Dio. Il testo latino dell’orazione impiega una formula quasi intraducibile, ma tuttavia eloquente: “perseverantibus in te”: “coloro che restano in te”. Rimanere in Dio senza fare rumore, “rientrare in sé stessi e lì dimorarvi”, dice San Bruno, “la pace che ignora il mondo”, egli riprende un po’ più in là (A Raoul 6). Percepiamo una dimensione preziosa della nostra esistenza e, tuttavia, ci fa male parlarne. Le permanenze nel deserto degli amici che Dio si riserva e di cui la Bibbia ci parla sono solitamente contraddistinte dal numero simbolico 40. Israele dimora 40 anni nel deserto; Mosè 40 giorni nella nuvola sul Sinai; la marcia di Elia nel deserto verso l’Oreb dura 40 giorni. Allo stesso modo Gesù, prima di essere tentato, rimane 40 giorni in preghiera nel deserto. Ciò rappresenta sempre l’idea di una permanenza molto lunga, utile, in cui Dio è l’unico sostegno di colui che egli attira a Sé. Queste lunghe permanenze sono apparentemente vuote. La durata si giustifica da sé stessa: non è importante ciò che si fa, ma ciò che si diviene, la disponibilità che si acquisisce ad incontrare l’Altissimo. Quest’interminabile durata non è, in fondo, la maniera più vera, più radicale di mettere in pratica il progetto di Bruno: “lasciare il secolo fugace”? Lasciarlo, non solamente nei suoi segni esteriori, ma là dove è più solidamente radicato, cioè in noi stessi? Lasciarlo, passando al vaglio del tempo, senza pietà, tutta la sostanza del nostro cuore che, alla fine, si trova sradicata fin nella sua più intima profondità. Potrebbe essere diverso per dei servitori che attendono il ritorno del loro Maestro senza saper né il giorno né l’ora? Essi divengono, poco a poco, pura attesa: essi non son più che “ricerca delle realtà eterne”, ricerca ardente e, tuttavia, certa di non approdar mai a nulla di veramente valido quaggiù, ma sicura d’essere appagata un giorno dall’unico raggio di luce che risplenderà nell’istante in cui il Maestro svelerà il suo volto. Amen.

(Ascensione 1984)

Meditazione per l’Ascensione

Ascensione di G.Lanfranco certosa san Martino

Ascensione di G.Lanfranco certosa san Martino

Per celebrare la festa dell’Ascensione, quest’anno ho scelto per voi una meditazione estratta da “Vita Christi” di Dom Ludolfo di Sassonia.

A seguire, una vibrante preghiera.

Dice San Gregorio: “Cristo è asceso in modo che, a parte la presenza corporea, buttiamo fuori l’ affetto per il mondo e ti auguriamo con tutto il nostro cuore. Cerchiamo cose dall’alto con forza intellettuale; lo assaporiamo con l’affettivo. Così un soldato ascese con il suo cuore, nelle regioni d’oltremare ha visitato sollecitamente e in lacrime tutti i luoghi in cui era stato il nostro Salvatore e quando aveva investigato tutti i luoghi santi con devozione, infine arrivò al Monte degli Ulivi, da dove il Signore ascese e, dopo una lunga preghiera con le lacrime, disse: “Ecco, Signore, ti ho cercato tutti diligentemente, nel luogo in cui sei asceso al Cielo. Non so più dove cercarti; ordina il mio spirito essere ricevuto, affinché possa vederti alla destra del Padre seduto in cielo ‘. Detto questo, indolore, consegnato lo spirito. Pertanto, anche noi lo cerchiamo per ciascuna delle opere e delle esercitazioni delle virtù così che possiamo finalmente ascendere a Lui.

Preghiera

Gesù! Grande corona! che risorgendo dai morti sei rimasto alla destra del Padre:

Disegna la mia mente su di te in modo che io possa desiderare solo te e cercarti con fervore. Dammi, ti chiedo, con tutto il desiderio e l’entusiasmo, di provare per quanto credo tu sia asceso; così, sebbene il corpo mi fermi nella presente miseria, potrei essere con te con il pensiero e l’avidità, così che il mio cuore è lì dove sei, il mio tesoro desiderabile e amorevole. Disegnami dopo di te, affinché tu possa salire dalla tua grazia di virtù in virtù, merita di vederti, Dio degli dei, in Sion.

Amen.

Un omelia certosina per l’Ascensione di Gesù.

Ascensione di Nostro Signore G. Lanfranco(certosa di San Martino)

Ascensione di Nostro Signore G. Lanfranco(certosa di San Martino)

In questo giorno, nel quale si celebra la festività dell’Ascensione, vi offro una profonda omelia di un Padre Priore certosino rivolto alla sua comunità, in occasione di questa festa liturgica del 1969. Meditiamo sulle su considerazioni illuminanti. E’ un pò lunga, ma vale la pena leggerla e meditarla!

Ascensione di Gesù

Miei cari e venerabili Padri e  Fratelli,

“Se mi amassi, ti rallegreresti che sto andando dal Padre”. Nel pensiero di Gesù, la festa dell’Ascensione deve essere per noi una festa che dobbiamo trascorrere nella gioia. Forse, in questo giorno, è un’opportunità per chiederci se amiamo veramente Gesù con vera fede o se viviamo nella routine. L’Ascensione di Gesù, che oggi la Chiesa celebra la festa, risveglia in noi una gioia, non dico sensibile, ma reale lo stesso? Lo trascorreremo nell’indifferenza senza meditare quasi sul mistero di questo giorno, o, al contrario, nel nostro oratorio, saremo in grado di ricordare noi stessi, di pensare alla grandezza di questo festa per trovare gioia lì? “Se mi amassi, disse Cristo, ti rallegreresti.” Poiché amiamo veramente Cristo, dobbiamo trascorrere questa festa con gioia, ed è di lei che vorrei parlarti oggi.

La prima e principale cosa che deve essere per noi un soggetto di gioia è la felicità di Gesù. Siamo felici della gioia di coloro che amiamo. Guarda cosa sta succedendo qui in un giorno di nozze. È un giorno di grandi festeggiamenti, i più tristi devono rallegrarsi, ognuno ha indossato i suoi abiti migliori, sono solo congratulazioni e auguri di felicità. La festa dell’Ascensione è il matrimonio della santa umanità con Dio, la sua introduzione definitiva nella casa del Padre, in una gioia che, come sappiamo, non cesserà mai. E oggi, la Chiesa ci invita a partecipare a questo matrimonio, siamo gli amici della Sposa e dello Sposo, dobbiamo essere tutti gioiosi, dimenticare le nostre colpe, le nostre miserie, rendere la nostra anima molto pura partecipare anche a questo banchetto d’amore. Cosa penserà Gesù di noi se assistiamo a anime tristi, indifferenti e impure in questa festa? “Se mi amassi, disse, ti rallegreresti.”

La festa dell’Ascensione non solo porta a Gesù la gioia del matrimonio eterno, è anche la festa del bambino che ritorna da suo Padre. Gesù aveva ricevuto una dolorosa missione dal Padre. Doveva venire tra uomini peccatori e dare il suo sangue per salvarli. Oggi tutto è stato compiuto, nulla è stato lasciato fuori dal minimo desiderio del Padre. Se il padre fosse già seduto sul ciglio della strada per vedere se il figliol prodigo non sarebbe tornato, se si fosse buttato al suo collo in una grande esplosione di gioia, se per lui una grande festa e ucciso il vitello grasso, quanto più il Padre non ha aspettato il ritorno di Gesù? Che festa non fa al fedele bambino che ha seguito il suo ordine per non disperdere ma per recuperare l’eredità paterna? In questo giorno, non è solo Gesù che deve ritornare al Padre: tutti noi, in un grande impulso dell’anima, dobbiamo ritornare con lui. Siamo i figli prodighi che Gesù ha redento e riporta con sé. L’Ascensione è anche la nostra festa, la festa della nostra conversione, del nostro ritorno al Padre. È la festa di gratitudine del Padre al suo amato Figlio, che ha restituito a lui i suoi figli che il peccato si era separato da lui; è la festa del Figlio, che, con gioia, ci riporta al Padre come la pecorella smarrita che il pastore prende sulle sue spalle. Questo è il giorno del nostro riconoscimento. Dobbiamo anche gioire nel vedere la bontà, l’amore, la gioia del Padre e del Figlio che sono pieni in questo giorno. “Se mi amassi, disse Gesù, ti rallegreresti che vado dal Padre”

Un’altro motivo della nostra gioia è la prospettiva della venuta dello Spirito Santo. “Ti manderò, disse Gesù, lo Spirito Santo che ti insegnerà ogni verità”, lo spirito di forza e di coraggio che permetterà ai suoi apostoli di testimoniare del loro amore con il loro stesso sangue. Senza dubbio, come gli apostoli, ci sarebbe piaciuto che Gesù rimanesse con noi, ma se lo amiamo davvero, dobbiamo capire che il nostro amore deve essere più forte, più spogliato di tutti i sensibili per testimoniare veramente il nostro amore per lui. La festa dell’Ascensione è la festa del nostro amore per Cristo, ma la festa di un forte amore nello spirito e nella verità. Le anime che soffrono nella siccità devono amare questa festa, una celebrazione di uomini maturi e forti che sono spogliati dell’infanzia, e sensibili a ricevere lo Spirito che li condurrà alla verità totale fino alla morte sulla croce, aspettando che anche loro ritornino al Padre e Gesù. Sì, comprendiamo le parole di Gesù: “Se mi amassi, ti rallegreresti che vado al Padre”, perché dobbiamo desiderare questo amore vero e forte, e vorrei che oggi quel desiderio “afferrasse” l’anima di ognuno di noi.

Infine, dobbiamo dimenticare noi stessi. Dobbiamo pensare a tutte quelle anime dei giusti che, da secoli, stavano aspettando la venuta di Gesù nel limbo. Lo avevano indovinato,l’avevano previsto, nell’oscurità l’avevano già servito. Il giorno dell’Ascensione è la loro festa, e questa è certamente una delle grandi gioie di Gesù. Con lui, tutti salgono al cielo e sono portati alla felicità eterna. Sono i suoi amici, i compagni della sua gioia. Questo è il nostro impegno, che nel loro dobbiamo percepire. Un giorno anche noi saliremo in cielo come fanno per partecipare alla gioia eterna.

Sì, in questa festa dobbiamo dimenticare noi stessi per vedere solo la gioia del Padre, per dimenticare noi stessi per vedere solo la gioia di Gesù e quella dei nostri fratelli benedetti. Questa è la migliore preparazione per il dono dello Spirito che Gesù ci manderà in pochi giorni. Quando viene, se trova le anime vuote di se stesse, felici della gioia di Dio e della gioia degli altri, può introdurle a loro volta nella gioia che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli e che un giorno sarà consumato in cielo.

Così sia.

Ascensione 1969

Un omelia per l’Ascensione

Il Bibbiena_Ascensione di Cristo (certosa di Bologna)

Ascensione di Cristo (Il Bibbiena, certosa di Bologna)

In questo giorno, nel quale si celebra la festività dell’Ascensione, vi offro una preziosa omelia di un Padre Priore certosino rivolto alla sua comunità. Meditiamo sulle su considerazioni illuminanti. E’ un pò lunga, ma vale la pena leggerla e meditarla!

Miei venerabili padri e cari fratelli,

Maria Maddalena, nel suo immenso amore per Gesù, era stata l’ultima, la sera del Venerdì Santo, a lasciare la tomba dove era stato sepolto; Il giorno di Pasqua era stata la prima a tornare al sepolcro per trovare il suo padrone lì.

Quindi non siamo sorpresi di leggere nel vangelo di San Marco che “Gesù risorto al mattino è apparso per la prima volta a Maria Maddalena”, e sappiamo da San Giovanni i dettagli di questa toccante apparizione. Sappiamo come, sentendo il suo nome, si precipitò da Gesù a baciarle i piedi, in questo gesto che fece durante il suo primo incontro con Gesù a Simon il lebbroso, il gesto che amava e che lei aveva potrebbe rinnovare ai piedi della croce. E ora Gesù era contrario: “Non attaccarti a me in quel modo”, gli disse. Perché questo divieto? In un momento, all’incontro dei compagni di Maddalena diretti a Gerusalemme, lascerà che bacino i suoi piedi. A Maddalena, ciò non fu permesso. Non ha nemmeno avuto il tempo di stare con il suo Maestro. Precedentemente, quando era seduta vicino a lui, guardandolo e ascoltandolo, se Marta si lamentava, Gesù la difendeva ancora: “Ha scelto la parte migliore”, ha detto, “e non sarà lei. rimosso. ” E oggi, quando piangeva così tanto, disperata di rivederlo, avrebbe assaporato così bene il fascino della sua presenza miracolosamente riscoperta: “Va ‘, ordinagli Gesù, vai subito a cercare i miei fratelli che vado al Padre mio e al Padre tuo, Dio mio e Dio tuo “.

Questa missione affidata a Maddalena, così come il tono familiare con cui Gesù la chiamava proprio ora, indicano, tuttavia, che ha lo stesso affetto per lei come prima. Ma proprio perché è la più alta nell’amore, il maestro le chiede, in primo luogo, il sacrificio che poi imporrà a tutti. Questo sacrificio è inteso solo per perfezionare la loro carità, come spiegheremo presto, e per portarli nel mistero trinitario, nella vita profonda di Gesù. All’inizio Maria capì? Comunque sia, lei obbedisce, forse con il cuore spezzato, ma senza discutere. San Giovanni ce lo mostra a noi immediatamente il messaggio di Gesù, e ripetendo le sue parole sorprendenti: “Maria Maddalena venne ad annunciare ai discepoli: vidi il Signore e me lo disse”.

Gli apostoli potevano ricordare una parola anche strano che il maestro aveva inviato loro come la notizia della sua imminente partenza aveva immerso in angoscia: “Io vi dico la verità, Gesù aveva preso il sopravvento, è un bene per voi Me ne vado. ” Era possibile che l’assenza di colui che li confortava così bene fosse vantaggiosa per loro? Sì, il maestro disse loro, colui che aveva sempre detto loro la verità. “Vi assicuro che, per te, è meglio che io me ne vada. Perché se non me ne vado via, lo Spirito Santo non verrà a voi, mentre se vado, lo manderai. “

Com’è stato che la sua partenza era necessaria per la venuta dello Spirito Santo? Perché era, per sua umanità, il grande sacramento della grazia divina. I discepoli sapevano per esperienza quanto le loro anime fossero aumentate da quando frequentavano il maestro. Sì, il fascino di Gesù li aveva conquistati. La sua bellezza, la sua bontà aveva conquistato il loro affetto. Ma erano troppo attaccati alla sua umanità. I loro occhi e sensi erano attaccati e con essi tutto il loro pensiero. Preoccupati dall’uomo che possedevano, non pensavano quasi più a Dio e ai rapporti interni che devono regnare tra l’anima e Dio. Per loro era sufficiente una felicità terrestre, una felicità materiale in compagnia del re Gesù. E hanno spesso litigato su questa domanda per loro capitale: “Chi sarà il primo nel Regno?” “Signore, ci riservi i primi due posti …” supplicarono i figli di Zebedeo. “È ora che ripristinerai il regno di Israele?” hanno chiesto insieme qualche tempo prima dell’Ascensione.

Ma tutto il resto era il disegno del Salvatore. “Il mio regno non è di questo mondo”, ha detto. Era un rinnovamento interiore che aveva intrapreso e per gettare le fondamenta di questo regno di anime, era per un fervido amore per Dio stesso che aveva la missione di allevarli. Affinché questa ascensione spirituale abbia luogo, era necessaria l’ascensione fisica del maestro. Ora che sono stati portati alle attrattive attrazioni della sua natura umana, Gesù stava per nascondersi in Dio per portare con sé quei poveri cuori di uomini. Sarà lo stesso da un altro punto di vista per Maria Maddalena. Quando vide Gesù risorto, pensò che era il ritorno promesso, l’incontro definitivo, e stava per riprendere a suo agio i dolci rapporti del passato. Gesù l’attirò dall’illusione: “Non attaccarti così a me, perché non sono ancora asceso al Padre mio”. Di nuovo Gesù afferma che la sua ascensione è la condizione necessaria delle relazioni spirituali che ora vuole mantenere con il suo popolo. Certo, l’affetto di Maddalena è puro. Ma considera il suo maestro troppo santo,vede poco, non abbastanza in ogni caso, in lui la somiglianza a Dio. Sarà quando Gesù ritorna da suo Padre che ritornerà invisibilmente e si manifesterà veramente al cuore dei fedeli. Infatti, ora che Gesù è scomparso, che non vive più tra i suoi, non possono chiedere: che cosa sta facendo? Cosa ne sarà di lui? Così facciamo per un caro amico che conosciamo da lungo tempo assente. E ora le parole di Gesù tornarono alla loro memoria. Era con suo Padre, che era alla pari di suo padre, ha vissuto la vita del Padre, e che la vita è stato l’amore reciproco del Padre e del Figlio, la vita dello Spirito d’amore.

Era andato a preparare un posto per loro. Voleva che fossero una cosa sola con lui come lui era uno con il Padre. Così, a poco a poco, hanno capito la vita profonda di Cristo, che era quasi sfuggita a loro durante la sua vita terrena. Gli occhi ora fissi sul cielo, hanno capito il mistero del Verbo e l’Incarnazione, il mistero di Dio, il mistero trinitario e cominciarono a capire; hanno capito la vera vita di Gesù. Ora che se n’era andato, hanno capito la profondità di Cristo e hanno iniziato a vivere su di esso. Nel profondo del loro anime, sono scesi, e si sono resi conto che c’era una misteriosa presenza del Padre e di Gesù, che ha comunicato la propria vita, il grande soffio dello Spirito che ha causato l’una all’altro, quel respiro che aveva portato Gesù nel giorno dell’Ascensione alla mano destra di suo Padre. Anche loro sono stati riempiti con lo stesso amore ha preso le loro anime, portando loro di rivelare al mondo che li circonda il mistero di Dio come erano stati commissionati a morire anche sulla croce prima di entrare Gesù nel suo regno che era il regno dell’amore. Quindi hanno capito con la loro stessa vita e la vita terrena e l’anima profonda del loro maestro. Poi, ma solo allora, si resero conto che era stato un bene che scomparissero, perché in sua assenza lo scoprirono davvero. Così ci sono veri mistici, che evitano i due eccessi opposti: quello dei principianti, il cui fervore sensibile si ferma al corpo esteriore di Gesù, e quello di quelli spirituali, così severamente condannati da Santa Teresa, che fingono di passare dalla santa umanità. All’inizio, è bello attaccarsi alla santa umanità di Cristo. Si meditano le parole e gli insegnamenti di Gesù, si ama la sua tenerezza, la sua delicatezza, la bellezza della sua anima. Ma è necessario che Gesù vada via così che a poco a poco scopriamo la sua vita profonda, questa vita che vive per l’eternità nel seno del Padre. Dobbiamo imparare a vivere nel profondo della nostra anima, dove Gesù ci ha detto che avrebbe vissuto. Lì lo scopriamo in una nuova luce, attraverso il contatto con lui, attraverso la sua stessa vita che ci comunica, attraverso il suo amore per il suo Padre e Dio, nostro Padre e il nostro Dio. Quindi con questo tocco di Dio viene scoperta la vita divina, la vita trinitaria che è amore e Spirito Santo di Dio. Quindi rivela la grandezza di Dio e il suo profondo mistero. E a poco a poco, ecco la santa umanità, che non ci ha mai lasciato, è illuminata da una nuova luce. Comprendiamo la vita terrena di Gesù, le sue parole e la sua anima in una nuova luce, che è quella dello Spirito. “Quando me ne sarò andato”, disse Gesù, “lo Spirito Santo ti insegnerà ogni cosa”. Possa egli degnarsi in questo giorno dell’Ascensione per insegnarci la vita profonda di Gesù attraverso il contatto della sua anima e della sua vita con la nostra anima e con la nostra vita, così che la parola divina possa essere realizzata: “Padre, quello che tu mi hanno donato, lo voglio dovunque io sia, affinchè io possa contemplare la gloria che mi hai dato “.

Così sia.

Ascensione 1966