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Natale 2010, un regalo per tutti voi

Natale 2010,

un regalo per tutti voi

da Cartusialover

Approfitto, dell’occasione dell’approssimarsi delle festività natalizie, per esprimere il mio profondo ringraziamento a tutti i visitatori di questo blog,   sia a quelli sporadici sia ai frequentatori abituali.

Grazie a voi ed al vostro impegno per la sua diffusione, i contatti negli ultimi mesi hanno avuto una crescita smisurata, contribuendo alla riuscita del mio obiettivo: “Diffondere la passione per l’ordine certosino”. E’ per questo motivo che intendo farvi un regalo, nella speranza che  possa essere di vostro gradimento. Voglio difatti, offrirvi la possibilità di poter vedere, qualora non lo aveste già fatto, il film capolavoroIl Grande Silenziorealizzato dal regista tedesco Philip Gröning, nel 2005 all’interno della Grande Chartreuse, per documentare la vita all’interno di una certosa.  Personalmente considero questa opera cinematografica, una  autentica pietra miliare per noi amanti della vita certosina, ed ho ragione di credere, che attraverso la proposizione di questa testimonianza reale, Cartusialover riesca a coinvolgere ulteriormente quanti ancora conoscono poco questo tipo di vita monastica.

Ho ritenuto di proporvi varie opportunità per consentirvene la visione. Da oggi è stata inserita in maniera permanente nella colonna (sidebar) di sinistra, la locandina con il collegamento diretto al link per la visione diretta online (consigliata). In questa pagina, inoltre vi segnalo le altre varie opportunità per poterlo scaricare o visionare, come meglio preferiate. Rinnovandovi gli auguri di un Buon Natale ed un felice anno nuovo, vi auspico inoltre una buona visione!!!

 


 

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Le parole de:”Il Grande Silenzio”

Le parole de: “Il Grande Silenzio”

Die Grosse Stille

Solo in completo silenzio si comincia ad ascoltare. Solo quando il linguaggio scompare, si comincia a vedere”.

Del film capolavoro, «Il grande silenzio», realizzato dal regista tedesco Philip Gröning, nel 2005 all’interno della Grande Chartreuse, per documentare la vita all’interno di una certosa si è già scritto tanto. Potrei rivolgere ulteriori commenti alla sua opera, ma volendo sintetizzare, io credo che Philip Gröning, sia riuscito attraverso il susseguirsi delle immagini a catalizzare l’attenzione dello spettatore, il quale viene sapientemente introdotto nell’atmosfera della vita monastica certosina, restandone catturato. Invito pertanto coloro che ancora non l’abbiano visto, ad ammirare questa opera cinematografica, che ritengo sia una pietra miliare per noi amanti della vita certosina e non solo.
Detto ciò, ho perciò deciso di realizzare questo articolo, solo per mettere in risalto le uniche parole pronunciate in due ore e quarantacinque minuti di film. Esse, data la potenza delle immagini passano in secondo piano, ma sono pregne della profonda spiritualità certosina che ha sempre tanto da insegnarci. Queste poche parole sono pronunciate da un certosino cieco, che per soli due minuti interrompe così il “Grande Silenzio”. Ne riporto di seguito, il testo ed il video.

“Più si è vicini a Dio, più si è felici. Praticamente è il fine dell’altra vita questo: più si è vicini a Dio, più si è felici, più si va veloci verso Dio. Se si sarà vicini a Dio. Non si deve aver paura della morte. Al contrario, è come andare a trovare nostro Padre.

Il passato, il presente sono umani. In Dio non c’è passato. C’è soltanto il presente. Quando ci vede, vede già tutta la nostra vita. Ed è per questo che, essendo un essere infinitamente buono, cerca sempre il nostro bene, in tutto ciò che ci succede.

Ringrazio spessissimo Dio per avermi reso cieco. Sono sicuro che è per il bene della mia anima che ha permesso ciò.

Il mondo ha perso il senso di Dio. Peccato perché così non hanno motivi. Se si smette di pensare a Dio, perché vivere?

Dobbiamo sempre partire dal principio che Dio è infinitamente buono e tutto ciò che fa, lo fa per il nostro bene. Tutto ciò che ci succede è voluto da Dio, permesso da Dio, ed è per il bene della nostra anima. Dio, che è infinitamente buono, onnipotente, ci aiuta.

Così sono felice”.


Beato Pietro Petroni

BEATO PIETRO PETRONI

beato Pietro_Petroni (D. Crespi)

Nato a Siena nel 1311. In gioventù aveva curato gli infermi e persino i lebbrosi della sua città, prima di entrare, diciassettenne, nella Certosa di Maggiano contro la volontà dei suoi genitori nel 1328. Durante la sua vita Pietro ebbe numerose visioni mistiche e compiva miracoli, o almeno questi venivano attribuiti alla sua intercessione da parte dei fedeli. Ciò gli procurava grande celebrità e venerazione, con tutti i clamori che ne conseguivano. Clamori che non si addicevano, in particolare, alla severità ed anche alla serenità della vita certosina, fatta di silenzio e di raccoglimento. Perciò, il Priore della Certosa pregò il Santo monaco di desistere dalla sua attività taumaturgica e Pietro Petroni obbedì. Non compì più miracoli, per non disturbare la disciplina certosina. E con ciò si confermò religioso veramente esemplare, pienamente degno d’ammirazione e di culto. I chiostri della Certosa non risuonarono più di grida riconoscenti; le folle dei fedeli non si accalcarono più alla porta del monastero di Maggiano sembrò che la luce del miracolo si fosse spenta nel cielo della campagna senese per sempre. Invece una grazia più segreta lievitava dentro quelle  mura che prima o poi avrebbero rivelato le virtù del santo certosino. Affetto da obesità, divenne smisuratamente grosso, e morì ancora giovane, nel 1361. Per le sue dimensioni venne chiamato Petrone, cioè « grosso Pietro», soprannome che è restato, a guisa di cognome, al singolare campione dell‘obbedienza, virtù che vale più dei miracoli. Si racconta che 15 giorni prima di morire, raccontò alcune profezie ad un suo confratello, Gioacchino Ciani, al quale affidò il compito di andare ad avvisare numerose persone tra le quali il Boccaccio (vedi articolo precedente) che se non avessero cambiato la loro condotta di vita sarebbero state condannate all’inferno. Daniele Crespi il noto pittore milanese del Seicento, attivo nella certosa milanese di Garegnano, raffigurò questo monaco con le forbici in mano, poichè si narra che si tagliò l’indice della mano sinistra per rendersi inabile al sacerdozio, del quale non si reputava degno. Si celebra l’8 maggio.

Lettera d’Oro

Lettera ai fratelli di Mont-Dieu

(«Lettera d’oro»)

La lettera d'oro immagine

Guglielmo di Saint Thierry (Liegi, 1075 circa – Signy, 8 settembre 1148) è stato un teologo e filosofo francese.

Grande figura di mistico e di teologo alle origini dell’ordine cistercense, Guglielmo scrisse questa lettera a una comunità di monaci certosini di    Mont– Dieu suoi amici, per trasmettere loro i più alti insegnamenti sulla contemplazione divina.

Vi proponiamo un passo nel quale si elogia la spiritualità certosina.

” Ai fratelli del Monte di Dio, che irradiano nelle tenebre dell’Occidente e nel gelo delle Gallie la luce dell’Oriente e quel celebre antico fervore dei monaci dell’Egitto – vale a dire l’esempio della vita solitaria e il modello della comunità celeste – corri incontro, anima mia, e corri insieme a loro nella gioia dello Spirito Santo e col sorriso nel cuore, col favore della carità e con tutto l’ossequio di una volontà devota”.

Per scaricare il testo completo della “Lettera d’Oro”:

clicca qui

Le lettere ai certosini

LE LETTERE AI CERTOSINI

Santa Caterina

Quando non poteva recarsi di persona nei luoghi di suoi interesse, Caterina scriveva le famose Lettere

Fra tutte le 381 Lettere che lei scrisse, vogliamo segnalare quelle destinate ai certosini. Ne furono ben dodici, inviate tra l’altro a Giacomo Tondi  della certosa di Pontignano, a Taddeo Malevolti  e a Giovanni dei Sabbatini di Bologna della certosa di Belriguardo, ed a  Pietro di Giovanni da Viva della certosa di Maggiano.  A don Jacomo nella certosa di Pontignano, a don Niccolò di Francia  anch’esso a Belriguardo, a don Giovanni della certosa di Roma e ben due missive a don Pietro da Milano ed un’altra al priore della Gorgona. Altri destinatari certosini furono il Priore Generale Don Guglielmo Rainaudo, il conforto di una lettera di Caterina da Siena giunse anche a don Cristofano della certosa di San Martino a Napoli tentato da forti pulsioni fisiche, ed ad un altro monaco detenuto in una cella di rigore di una certosa non definita, come era in uso a coloro che non si attenevano alla dura regola dell’Ordine.

I numeri con cui sono state catalogate queste  lettere sono i seguenti:

  • Libro I     lettera numero    IV – XXXIX –  LV
  • Libro II                                      CXLI
  • Libro III                                    CLXXII – CLXXXVII – CCI
  • Libro IV                                     CCLXXXVII
  • Libro V                                        CCCXV – CCCXXIII – CCCXXXI – CCCXXXV

Inoltre altre tre missive scritte da certosini, sono raccolte in quelle dei discepoli di Santa Caterina.

  • La numero III
  • La numero XXII
  • La numero XXXIX

Per visualizzare i testi completi http://www.ilpalio.siena.it/Personaggi/LettereCaterina/

Scala Claustralium

SCALA CLAUSTRALIUM

DI

GUIGO II

Di Guigo II si sa poco. Fu procuratore della Gran Certosa, poi divenne il nono priore della Chartreuse all’incirca nell’ anno 1173. È noto come Guigo II per distinguerlo da Guigo I, il quinto priore colui che scrisse le Consuetudini.

L’opera più importante di Guigo II è la Lettera sulla vita contemplativa, chiamata Scala claustralium o ancora Scala Paradisi. Questo scritto, in forma di lettera indirizzata al confratello Gervasio, è un testo classico sulla preghiera, molto diffuso in Occidente per vari secoli.

La riscoperta, oggi, della pratica della “lectio divina” evidenzia l’attualità di questa Lettera. Guigo propone una scala di quattro gradini :

  • la lettura attenta della Sacra Scrittura (lectio),
  • la memorizzazione di quanto si è letto (meditatio),
  • l’invocazione a Dio per ottenere ciò che la meditatio ha fatto conoscere (oratio),
  • l’intimità con Dio nella preghiera (contemplatio).

La “scala” di Guigo ci permette di penetrare la vita spirituale dei monaci del XII° secolo.

LETTERA SULLA VITA CONTEMPLATIVA

I

Il fratello Guigo al suo caro fratello Gervasio: gioisci nel Signore! Amare te, o fratello, è per me un debito perché tu per primo hai cominciato ad amarmi; e mi sento obbligato a risponderti perché con la tua lettera mi hai per primo invitato a scriverti. Mi sono perciò proposto di comunicarti alcune mie riflessioni sulla vita spirituale dei monaci, affinché tu, che conosci questa vita per esperienza, mentre io ne ho solo una conoscenza teorica, sia giudice e correttore di queste mie considerazioni.

Meritatamente offro a te per primo queste primizie del mio lavoro, perché tu raccolga i primi frutti di una pianta novella che, sottratta con lodevole furto e delicata sollecitudine alla schiavitù di Faraone, tu hai collocata nella schiera dei combattenti, innestando abilmente sull’olivo il ramo reciso con arte dall’olivastro.

II  – I quattro gradi della vita spirituale

Un giorno, mentre occupato in un lavoro manuale cominciai a pensare all’attivíià spirituale dell’uomo, tutt’a un tratto si presentarono alla mia riflessione quattro gradi spirituali: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione: «lectio, meditatio, oratio, contemplatio».

Questa è la scala dei monaci, mediante la quale essi sono sollevati dalla terra al cielo, formata in realtà da pochi gradini, ma tuttavia d’immensa e incredibile altezza, di cui la parte inferiore è appoggiata a terra, mentre a superiore penetra le nubi e scruta i segreti dei cieli. Questi gradini, come sono diversi di nome e di numero, così so istinti per ordine e per importanza. Se qualcuno esaminerà con cura le proprietà e le funzioni che ciascuno di essi esercita su di noi, e come differiscano tra di loro e la loro gerarchia, stimerà breve e facile il lavoro e l’applicazione impiegati in questo studio, di fronte alla grande utilità e dolcezza che ne ritrarrà.

La lettura –“ lectio divina” – è lo studio assiduo delle Scritture, fatto con spirito attento. La meditazione è una diligente attività della mente, che cerca la conoscenza di verità nascoste, mediante l’aiuto della propria ragione. La preghiera è un fervoroso anelito del cuore verso Dio per allontanare il male e ottenere il bene. La contemplazione è una certa elevazione della mente al di sopra di sé verso Dio, gustando le gioie dell’eterna dolcezza. Descritti dunque i quattro gradi, non ci resta che vedere la loro funzione a nostro riguardo.

III – La funzione di ciascuno dei predetti gradi

La lettura cerca la dolcezza della vita beata, la meditazione la trova, la preghiera la chiede, la contemplazione la gusta. La lettura porta, in certo qual modo, cibo solido alla bocca, la meditazione lo mastica e frantuma, la preghiera lo assapora, la contemplazione è la stessa dolcezza che dà gioia e ricrea. La lettura si ferma alla scorza, la meditazione penetra nel midollo, la preghiera formula il desiderio, là contemplazione si diletta nel godimento della dolcezza raggiunta. Perché ciò si possa vedere in modo più chiaro, proponiamo un esempio tra i molti che si potrebbero portare.

IV – Funzione della lettura

Nella lettura ascolto queste parole: « Beati i puri di cuore perché vedranno Dio » (Mt 5, 8). Ecco una frase molto breve ma soave e piena di molteplici sensi per il nutrimento dell’anima, offerta come, un grappolo d’uva. L’anima, dopo averla diligentemente considerata, dice dentro di sé: qui ci può essere qualche cosa di buono, rientrerò nel mio cuore e cercherò i comprendere e di trovare, se mi sarà possibile, questa purezza. Essa infatti è cosa preziosa e desiderabile, lodata da tanti passi della Scrittura, i cui possessori sono detti beati, alla quale è promessa la visione di Dio che è la vita eterna.

Desiderando l’anima spiegarsi meglio tutto ciò, comincia a masticare e a triturare ponendola quasi sotto il torchio, mentre stimola la ragione ad indagare che cosa sia e come si possa acquistare questa purezza così preziosa.

V – Funzione della meditazione

Interviene quindi un’attenta meditazione, la quale non rimane all’esterno, non si ferma alla superficie, ma dirige più in alto i suoi passi, penetra nell’interno, scruta le cose una per una. Essa considera che il testo non ha detto: «Beati i puri di corpo», ma «puri di cuore»; poiché non basta avere le mani innocenti da opere cattive, se la nostra mente non è purificata da pensieri perversi. Lo conferma con autorità il Profeta, dicendo: «Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro » (Sal 23, 34).

Poi medita quanto desideri questa purezza di cuore lo stesso Profeta, che prega cosi: « Crea in me, o Dio, un cuore puro » (Sal 50, 10), e ancora: « Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe esaudito» (Sal 65, 18). E pensa quanta cura poneva in questa custodia del cuore il beato Giobbe, che diceva: «Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine» (Gb 3 1, 1). Ecco quanto si mortificava questo santo uomo che chiudeva gli occhi per non vedere vanità e per non guardare incautamente quello che avrebbe poi involontariamente desiderato.

Dopo aver considerato queste e altre simili cose sulla purezza del cuore, la meditazione comincia a pensare al premio: quanta gloria e gioia darebbe la visione del volto desiderato del Signore, « il più bello tra i figli dell’uomo », non abbietto e disprezzato, non più con le sembianze che gli diede sua Madre, ma rivestito di un manto d’immortalità e coronato di un diadema col quale l’incoronò A Padre suo, nel giorno della risurrezione e della gloria, «giorno fatto dal Signore» (Sal 117, 24). Essa pensa che in questa visione ci sarà quella sazietà di cui dice il Profeta: «Mi sazierò quando apparirà la tua gloria» (Sal 16, 15).

Vedi quanto liquore sgorgò da un piccolissimo grappolo d’uva, quanto fuoco si sprigionò da una scintilla, quanto si sia estesa sull’incudine della meditazione questa piccola massa: «Beati i mondi di cuore, perché vedranno Dio»? Ma quanto ancor più si potrebbe estendere, se vi si applicasse uno più esperto! lo sento che il pozzo è profondo, ma da novizio inesperto sono riuscito a stento a cavarvi oche gocce. L’anima, infiammata da queste scintille, stimolata da questi desideri, infranto l’alabastro, comincia a presentire la soavità del profumo, se non ancora con il senso del gusto, quasi però con l’odorato; e ne deduce quanto debba essere dolce fare esperienza di questa purezza di cui la sola meditazione dà un godimento così grande.

E che cosa farà? Brucia dal desiderio di possederla, ma non trova in se stessa il modo di averla, e quanto più la cerca, tanto più ne ha sete. Mentre si applica alla meditazione, aumenta anche la sua sofferenza, poiché non sente quella dolcezza che la meditazione le mostra esserci nella purezza di cuore, senza tuttavia dargliela. Non è infatti di chi legge e di chi medita solamente esperimentare questa dolcezza, se non gli è stata data dall’alto. Leggere, infatti, e meditare è comune sia ai buoni, sia ai cattivi; e gli stessi filosofi pagani hanno scoperto con l’aiuto della ragione in che consista l’essenza del vero bene. Ma, « poiché pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria come a Dio » (Rm 1, 2 1), e contando presuntuosamente sulle loro forze, dicevano: «Per la nostra lingua siamo forti, ci difendiamo con le nostre labbra» (Sal 11, 5), non meritarono di ricevere ciò che potevano vedere. «Hanno vaneggiato nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21) e «la loro perizia era svanita» (Sal 106, 27), perché essa veniva loro dallo studio delle discipline umane, e non dallo spirito di sapienza, che solo dà la sapienza vera, sàpída, quella scienza che procura gioia e ristora con un inestimabile sapore l’anima che la possiede.

Di essa è scritto: « La sapienza non entra in un’anima che opera il male » (Sap 1, 4). Essa procede da Dio solo, e come il Signore ha concesso a molti l’ufficio di battezzare, riservano a sé solo il potere e l’autorità di rimettere i peccati nel battesimo, sicché Giovanni disse per antonomasia, precisando bene: «E’ lui che battezza», così possiamo dire di lui: E’ Dio che dà sapore alla sapienza e rende sapida all’anima la conoscenza. La parola è data a tutti, a pochi la sapienza dello Spirito, poiché Dio, la distribuisce a chi vuole e quando vuole.

VI – Funzione della preghiera

Vedendo ora l’anima, che non può da sé sola giungere alla dolcezza desiderata della conoscenza e dell’esperienza, e che quanto più si eleva tanto più Dio è distante, si umilia e si rifugia nella preghiera, dicendo: Signore, che sei veduto solo dai puri di cuore, io cerco con la lettura e con la meditazione quale sia e come si possa ottenere ciò che è la vera purezza di cuore, per poterti, per mezzo di essa, conoscere meno in parte.

Cercavo il tuo volto, Signore, il tuo volto, Signore, cercavo; ho meditato a lungo nel mio cuore, e nella mia meditazione si è sviluppata una fiamma e si è accresciuto il desiderio di conoscerti sempre più. Mentre mi spezzi il pane della Scrittura, tu ti fai conoscere nella frazione del pane, e quanto più ti conosco, tanto più desidero conoscerti, non già nella scorza della lettera, ma nella conoscenza che viene dall’esperienza. E non chiedo ciò, Signore ‘ per i miei meriti, ma per la tua misericordia. Confesso infatti di essere un’indegna anima peccatrice; «ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mi 15,27).

Dammi dunque, Signore, un pegno della futura eredità, una goccia almeno di quella pioggia celeste, con cui spegnere la mia sete, poiché ardo d’amore.

VII – Gli effetti della contemplazione

L’anima, con questi e altri simili infuocati eloqui, infiamma il suo desiderio, mostra l’effetto raggiunto e chiama con questi incantamenti il suo Sposo.

Il Signore, i cui occhi si posano sui giusti e i cui orecchi sono attenti alle preghiere, non aspetta che queste siano terminate; ma, interrompendo a metà il corso dell’orazione, si affretta a presentarsi e a venire incontro all’anima che lo desidera, circonfuso dalla rugiada di una dolcezza celeste e cosparso di unguenti preziosi; ricrea l’anima affaticata, nutre quella che ha fame, impingua quella arida, le fa dimenticare le cose terrene, la vivifica mortificandola mirabilmente con l’oblio di sé e la rende sobria, inebriandola. E come in certi atti carnali l’anima è vinta a tal punto dalla concupiscenza della carne da perdere ogni uso della ragione facendo diventare l’uomo un essere quasi del tutto carnale, così, al contrario, in questa superna contemplazione i moti carnali sono in tal modo superati e assorbiti dall’anima, che la carne non contraddice in nulla allo spirito, e l’uomo diventa un essere quasi del tutto spirituale.

VIII – I segni della venuta della grazia

Ma, o Signore, come sapremo quando fai questo, e quale è il segno della tua venuta? Sono forse i sospiri e le lacrime i messaggeri e i testimoni di questa consolazione e di questa gioia? Se così è, questa è una nuova antifrasi e un segno inusitato. Che relazione c’è infatti tra la consolazione e i sospiri, tra la gioia e le lacrime, seppure si debbano chiamare lacrime o non piuttosto una sovrabbondanza della rugiada interiore, infusa dall’alto, come segno di un’abluzione interiore e quale purificazione dell’uomo esteriore? Come nel battesimo dei bambini nell’abluzione esterna è simboleggiata e indicata un’abluzione dell’uomo interiore, così qui, al contrario, da un’abluzione interiore deriva una purificazione esterna.

O beate lacrime, per mezzo delle quali sono levate le macchie interiori e sono estinti gl’incendi dei peccati! « Beati voi che così piangete, perché riderete» (Mt 5, 5). Riconosci, o anima, in queste lacrime il tuo Sposo e abbraccia il Desiderato, inebriati ora di un torrente di delizie, succhia dalla fonte di consolazione miele e latte. Questi gemiti e queste lacrime sono i meravigliosi piccoli doni e il sollievo che ti ha offerto e portato il tuo Sposo. In queste lacrime ti ha apportato una bevanda in quantità. Queste lacrime siano per te pane, giorno e notte, pane che fortifica il cuore dell’uomo, «più dolce del miele e del favo stillante» (Sal 103, 15).

O Signore Gesù, se queste lacrime, suscitate dal tuo ricordo e dal desiderio di te, sono così dolci, quanto sarà dolce la gioia contenuta nella chiara visione di te? Se è tanto dolce piangere per te, quanto sarà dolce godere di te?

Ma perché riveliamo in pubblico questi colloqui segreti? Ma perché tentiamo di esprimere con parole comuni questi affetti indicibili? Gli inesperti non comprenderanno tali cose, e le capirebbero meglio leggendole nel libro dell’esperienza, dove le insegna la stessa unzione divina. Altrimenti la lettera esteriore non giova. per nulla al lettore. La lettura infatti della lettera esteriore dice poco, se una spiegazione proveniente dal cuore non rivela il senso interiore.

IX – Come la grazia si occulta

0 anima, noi abbiamo protratto a lungo questo discorso. Infatti era un bene per noi stare qui, e con Pietro e Giovanni contemplare la gloria dello Sposo e rimanere a lungo con lui, se egli avesse voluto piantare qui non due, non tre, ma una sola tenda, nella quale stare insieme e gioire insieme. Ma lo Sposo già dice: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora» (Gen 32, 26), già hai ricevuto il lume della grazia e la visita che desideravi. Data dunque la benedizione, e colpita l’articolazione del femore e mutato il nome di Gia i e in Israele, lo Sposo a lungo desiderato, scomparso repentinamente, si allontana per un pò di tempo. Egli si sottrae per quanto riguarda la predetta visita e la dolcezza della contemplazione, ma rimane tuttavia presente per quanto riguarda la direzione, la grazia e l’unione con lui.

X – Come la grazia, occultandosi per qualche tempo, coopera al nostro bene

Ma non temere, o sposa, non disperare, non crederti disprezzata se per un po’ di tempo lo Sposo ti sottrae il suo volto. Tutto ciò coopera al tuo bene. e tu trai vantaggio sia dalla sua venuta, sia dal suo allontanamento. Egli viene per te e si allontana per te. Viene per consolarti, si allontana per prudenza, perché tu non monti in superbia per la grandezza della consolazione (cfr. 2 Cor 12, 7), perché se lo Sposo fosse sempre con te, tu non abbia a disprezzare le tue compagne e ad attribuire questa consolazione, non alla grazia, ma alla natura.

Invece questa grazia viene data dallo Sposo quando e a chi vuole, fa si possiede quasi fosse un diritto ereditario. Un proverbio popolare dice che un’eccessiva familiarità genera disprezzo. Egli si allontana dunque, perché, se troppo assiduo, non venga disprezzato, se assente venga maggiormente desiderato, se desiderato venga più avidamente cercato, se a lungo cercato venga infine con più gioia trovato. inoltre, se non venisse mai meno questa consolazione, la quale, rispetto alla futura gloria che si rivelerà in noi, è confusa e parziale, forse riterremmo di « avere quaggiù una città stabile e andremmo meno in cerca di quella futura» (cfr. Eb 13, 14).

E’ dunque perché non riteniamo patria l’esilio e premio la caparra, che lo Sposo ora viene, ora s’allontana, ora portando la consolazione, ora «mutandola interamente in un giaciglio di dolore» (cfr. Sal 40, 4). Per un po’ ci permette di gustare quanto sia soave, e prima che l’abbiamo gustato pienamente si sottrae; e quasi volando sopra di noi ad ali spiegate ci stimola a volare, come se dicesse: Ecco, avete gustato per un po’ quanto io sia soave e dolce, ma se volete saziarvi pienamente di questa dolcezza correte dietro di me, nell’odore dei miei profumi, elevate i vostri cuori fin dove io sono alla destra di Dio Padre. Ivi mi vedrete «non come in uno specchio, in maniera confusa, ma a faccia a faccia » (1 Cor 13, 12), « e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16, 22-23).

XI – Con quale prudenza l’anima deve comportarsi dopo la visita della grazia

Stai però attenta, o sposa: quando lo Sposo si assenta, non va ontano, e se tu non lo vedi, egli però sempre ti vede; è pieno di occhi, davanti e di dietro; non puoi più nasconderti a lui. Egli tiene presso di te i suoi inviati, spiriti che sono messaggeri sagacissimi, perché osservino come ti comporti in assenza dello Sposo, e ti accusino al suo cospetto se sorprenderanno in te qualche segno di impurità e di leggerezza.

Questo Sposo è geloso: se per caso accoglierai presso di te un altro amante, se cercherai di piacere di più ad altri, subito si allontanerà da te, per unirsi ad altre vergini fedeli. Questo Sposo è delicato, nobile, ricco, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44, 3), e perciò non si degna che di avere una sposa bellissima. Se avrà visto in te una macchia e una ruga, subito distoglierà da te A suo sguardo. Egli non può tollerare nessuna impurità. Sii dunque casta, sii vereconda e umile per meritare di essere visitata frequentemente dal tuo Sposo.

Temo che questo discorso ti abbia trattenuto un po’ troppo, ma a ciò mi ha spinto la materia così fertile e a un tempo dolce; non fu già spontaneamente che protraevo l’argomento, ma vi ero trascinato, mio malgrado, dalla sua dolcezza.

XII – Ricapitolazione

Per vedere meglio, raggruppandolo insieme, quanto è stato diffusamente esposto, riepiloghiamo tutto sommariamente. Come è stato notato nei precedenti esempi, puoi vedere come i predetti gradi siano collegati tra di loro, e come si succedano l’uno all’altro, sia nell’ordine del tempo, sia in quello della causalità.

La lettura, infatti, si incontra per prima come fondamento e, fornita la materia, ci porta alla meditazione. La meditazione ricerca con maggiore attenzione che cosa sia da desiderare e, quasi scavando, trova un tesoro e lo mostra; ma non potendolo raggiungere da sé sola, rimanda alla preghiera. La preghiera, elevandosi con tutte le sue forze verso Dio, impetra il tesoro da desiderarsi, cioè la soavità della contemplazione. La contemplazione, sopraggiungendo  ricompensa il lavoro dei tre precedenti gradi, inebriando l’anima assetata con la rugiada della dolcezza celeste.

La lettura è un esercizio dei sensi esterni, la meditazione è un lavoro dell’intelletto, la preghiera è un desiderio, la contemplazione è un superamento di ogni senso. Il primo grado è dei principianti, il secondo dei proficienti, il terzo dei devoti, il quarto dei beati.

XIII – In che modo questi quattro gradi sono concatenati gli uni agli altri

Questi gradi sono talmente collegati fra di loro e si rendono talmente un servizio scambievole, che i primi poco o nulla giovano senza i successivi, e i successivi senza i primi non si possono raggiungere mai. A che giova infatti occupare il tempo in una continua lettura, scorrere le gesta e gli scritti dei santi, se non ne traiamo il succo masticando e ruminando queste cose e se, inghiottendole, non le facciamo entrare fino alla parte più intima del cuore, al fine di considerare diligentemente, alla loro luce, il nostro stato e di compiere le opere di coloro dei quali desideriamo leggere spesso le azioni? Ma come rifletteremo su tutto questo e come potremo guardarci dal sorpassare i limiti posti dai santi Padri, meditando cose false o vane  se non saremo stati istruiti in antecedenza dalla lettura o dalla viva voce? L’istruzione a viva voce fa parte, in certo modo, della lettura, per cui siamo soliti dire, non solo di aver letto quei libri che abbiamo letto per noi stessi o per altri, ma anche quelli che abbiamo appresi dalla viva voce dei maestri.

Inoltre, che giova all’uomo vedere per mezzo della meditazione le cose che si devono compiere, se non è messo in grado di compierle, con l’aiuto della preghiera e con la grazia di Dio? Infatti « ogni buon regalo e ogni dono perfetto vien dall’alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1, 17), senza del quale non possiamo fare nulla, poiché è lui che opera in noi, non però senza di noi. « Siamo infatti cooperatori di Dio», come dice l’Apostolo.

Dio vuole che lo preghiamo, vuole che apriamo il seno della nostra volontà alla grazia che viene e che bussa alla porta e vuole che gli diamo il nostro consenso. Questo con­senso domandava il Signore alla samaritana, quando diceva: « Va’ a chiamare tuo marito » (Gv 4, 16), come se dicesse: ti voglio infondere la grazia, e tu applica il libero arbitrio. E le chiedeva pure la preghiera: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10). Dopo aver udito ciò dal Signore, come l’avrebbe potuto intendere da una lettura, la donna così istruita meditò nel suo cuore che sarebbe stata per lei cosa buona e utile avere quest’acqua. Perciò, accesa dal desiderio di averla, si rivolse alla preghiera, dicendo: «Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete» (Gv 4,15).

Ecco che l’ascolto della parola del Signore e la medita­zione che ne è seguita l’avevano incitata a pregare.

Avrebbe forse potuto essere così sollecita nel chiedere, se prima non l’avesse infiammata la meditazione? E a che cosa le sarebbe valsa la meditazione se con successiva preghiera non avesse richiesto ciò che le era apparso desiderabile nella precedente meditazione? Perciò, affinché dunque la meditazione sia fruttuosa, è necessario che segua una fer­vida preghiera di cui si può considerare quasi un effetto la dolcezza della contemplazione.

XIV – Conclusione di ciò che precede

Da tutto questo possiamo concludere che la lettura senza la meditazione è arida, la meditazione senza la lettura è soggetta a errore, la preghiera senza la meditazione è tiepida, a meditazione senza a preghiera è infruttuosa, la preghiera fatta con devozione acquista la contemplazione, l’acquisto della contemplazione senza la preghiera è raro o miracoloso.

Dio, in verità, del quale è infinita la potenza e la cui misericordia si estende sopra tutte le sue opere, talvolta suscita dalle pietre dei figli di Abramo, costringendo uomini duri e riluttanti a sottostare alla sua volontà, ed è per così dire tanto prodigo, che, come si dice volgarmente, «tira il bue per le corna», come quando s’inserisce senza essere chiamato e quando si introduce senza essere ricercato. Il che, quand’anche leggiamo essere avvenuto ad alcuno, come a Paolo e a qualcun altro, tuttavia non per questo dobbiamo pretenderlo per noi, quasi tentando Dio; al contrario, dobbiamo invece fare ciò che ci compete, ossia leggere, meditare sulla legge divina, pregare Dio perché venga in aiuto alla nostra debolezza e perché veda la nostra imperfezione, come egli stesso ci insegna a fare, dicendo: chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto » (Mt 7, 7). Quaggiù infatti « il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11, 12). Ecco come, premesse le distinzioni di cui sopra, si possono vedere le proprietà dei predetti gradi, il modo in cui sono connessi tra di loro e gli effetti che ciascuno produce in noi.

Beato l’uomo, il cui spirito libero dalle altre preoccupazioni desidera applicarsi continuamente a questi quattro gradi di orazione, e che, vendute tutte le cose che possiede, compra quel campo nel quale è nascosto un tesoro così desiderabile quale è l’attendere a Dio e vedere quanto egli sia soave. Chi è esperto nel primo grado, circospetto nel secondo, devoto nel terzo ed elevato sopra di sé nel quarto, sale di virtù in virtù, per queste ascensioni che ha disposte nel suo cuore, « finché compare davanti a Dio in Sion» (Sal 83,8).

Beato colui al quale è concesso di rimanere, sia pure per poco tempo, in questo supremo grado, e che può dire veramente: Ecco che sento la grazia di Dio, ecco che con Pietro e Giovanni contemplo la sua gloria sul monte, ecco che con Giacobbe mi diletto degli abbracci, della bella Rachele.

Ma badi costui, dopo questa contemplazione con la quale era stato elevato fino ai cieli, di non cadere, per un caso improvviso, fino negli abissi, e di non abbandonarsi, dopo una visita così mirabile, alle dissolutezze del mondo alle lusinghe della carne. Ma quando l’inferma vista della mente umana non potrà più a lungo sostenere l’illuminazione della vera luce, discenda piano piano e ordinatamente ad uno dei tre gradi per i quali era salita, e alternativamente si fermi ora su uno, ora sull’altro grado, secondo i moti del libero arbitrio e secondo le circostanze di luogo e di tempo; e sarà tanto più vicina a Dio, quanto più sarà lontana dal primo grado. Ma ahimè, quanto è fragile e miserabile la condizione umana!

Ecco che, con la guida della ragione e con le testimonianze delle Scritture, vediamo chiaramente che la perfezione della vita beata è contenuta in questi quattro gradi; e che in essi deve esercitarsi l’uomo spirituale. Ma chi è che per­corre questo itinerario di vita? « Chi è costui? Lo proclameremo beato » (Sir 3 1 > 9). Volere è di tutti, ma portare a termine è di pochi. Volesse il cielo che noi fossimo tra questi pochi!

XV – Quattro cause che ci distolgono da questi gradi

Ci sono quattro cause che per lo più ci distolgono da questi gradi, cioè una necessità inevitabile, l’utilità di una buona opera, la debolezza umana, la vanità del mondo. La pri­ma è scusabile, la seconda tollerabile, la terza miserabile, la quarta colpevole.

E veramente colpevole: per chi infatti, per una causa di questo genere – ossia per la vanità del mondo – si ritrae dal suo proposito, sarebbe stato meglio non avere conosciuto la grazia di Dio, che retrocedere, dopo averla conosciuta. Quale scusa infatti avrà per il suo peccato? Non potrà forse dirgli giustamente il Signore:«Che cosa potevo fare di più per te, che io non abbia fatto?» (cfr. Is 5, 4). Non esistevi, ed io ti ho creato, hai peccato e ti eri reso schiavo del diavolo, e ti ho liberato, erravi per il mondo con gli empi, e ti ho scelto, ti avevo dato la mia grazia al mio cospetto e volevo prendere dimora presso di te, e tu mi hai disprezzato, e non solo hai rigettato le mie parole, ma me stesso, e sei andato dietro alle tue passioni.

Ma, o Dio buono. soave e mite, dolce amico, prudente consigliere, saldo aiuto, quanto è inumano, quanto è temerario chi ti respinge chi allontana dal suo cuore un ospite così umile e mansueto! Quale infelice e dannosa sostituzione rigettare il proprio Creatore e accogliere pensieri cattivi e nocivi, lasciare al pensieri immondi e ai porci calpestare cosi presto quella segreta cella dello Spirito Santo, vale a dire intimo recesso del proprio cuore, che poco prima era rivolto alle gioie celesti! Nel cuore sono ancora calde le vesti a dello Sposo, e già s’intromettono desideri adulterini.

E’ una cosa sconveniente e indecorosa che le orecchie che avevano udito parole che non è lecito riferire ad uomo, si abbassino così presto ad ascoltare storie e frivolezze; che gli occhi che erano stati da poco bagnati con lacrime sacre, si volgano tutt’a un tratto a vanità; che la lingua che or ora aveva cantato dolci epitalami e che aveva riconciliato lo Sposo con la sposa con parole infuocate e persuasive e che l’aveva introdotto nella cella vinaria, si volga ora al turpiloquio, a scurrilità, a macchinare inganni e maldicenze.

Sia lontano da noi, o Signore, tutto questo. Ma se mai per umana debolezza cadremo in simili casi, non dobbiamo per questo disperare, ma ricorrere di nuovo al medico cle­mente « che solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero » (Sal 112, 7); e lui, che non vuole la morte del peccatore, di nuovo ci curerà e ci guarirà.

Ma ormai è tempo di porre fine a questa lettera. Preghiamo tutti il Signore, perché mitighi gli ostacoli che al presente ci distolgono dalla sua contemplazione e in futuro li elimini del tutto, conducendoci per i gradi predetti di virtù in virtù, finché vedremo Dio in Sion, dove gli eletti proveranno la dolcezza della divina contemplazione, non goccia a goccia, né a intermittenza, ma gusteranno senza fine un torrente di gioia, che nessuno potrà loro togliere, e una pace inalterabile, la pace in lui.

Tu dunque, mio fratello Gervasio, quando ti sarà conces­so di salire in cima a questi gradi, ricordati di me e prega per me quando sarai beato. Così la cortina tiri a sé la cortina, e colui che ode, dica: « Vieni! » (Ap 22, 17).

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