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Pasqua 2021

simone_peterzano Resurrezione (certosa Garegnano)

Nell’augurarvi una serena e gioiosa Pasqua, piena di luce e speranza, voglio offrirvi un sermone capitolare concepito dal Priore Generale Dom Andrè Poisson rivolto alla sua comunità nel giorno di Pasqua del 1984. Un testo alquanto lungo, ma davvero delizioso, che è destinato al coincidente rinnovo dei voti di alcuni confratelli. Parole semplici ma edificanti per il nostro spirito.

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CONFIDARE IN DIO

Se uno è inCristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio,… E’ stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,17-19)

Era nei vostri desideri che il rinnovamento dei voti avesse luogo lo stesso giorno di Pasqua, come era già accaduto al tempo della vostra prima professione. Così, volete sottolineare quanto il vostro impegno, nella vita monastica, sia una maniera d’assumere, nella vostra esistenza, il mistero pasquale il più pienamente possibile. Il testo che ho appena citato, mostra che per San Paolo, come per tutta la tradizione, la Pasqua del Signore è innanzitutto un dono di Dio: dono ricevuto attraverso Gesù dalle mani del Padre; dono che, a sua volta, ci trasforma nella misura in cui noi ci rendiamo disponibili ad accoglierlo. Io vorrei riflettere con voi su questi temi.

* * * * * * *

Le poche parole raccolte dalla bocca di Gesù, durante la Passione, dopo il Getsemani fino al suo ultimo sospiro, ci forniscono dei punti di riferimento sicuri grazie ai quali noi possiamo ritrovare il movimento profondo del suo cuore, mentre Egli si offre in sacrificio. La preghiera nel giardino degli ulivi ci mostra il Signore annientato dalla prospettiva del calice che gli è offerto. La sua prima reazione è quella di domandare di esserne liberato. E’ veramente troppo! Poi, in un secondo tempo si riprende e accetta la volontà del Padre. Niente di stoico o di rigido in questo atteggiamento: si tratta esclusivamente di fiducia nel Padre e di amore per Lui. Nessun dubbio: è il Padre che dona al suo Figlio amato il calice da bere. E’ il Padre che ha inviato il suo Unico sulla terra a bere il calice. Ritroviamo una successione di sentimenti analoghi in Gesù, negli ultimi istanti che precedono la sua morte, ma essi s’esprimono allora con un’intensità spaventosa: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Poi, al termine di un silenzio drammatico, spirando, Egli gridò a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.” (Lc 23,46). Non siamo noi là, al centro di questo dramma d’amore che è il mistero Pasquale? Gesù è l’Agnello caricato del peccato del mondo: Egli è il Servitore trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, poiché Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori (cf. Is 53,5 e 4). Ancor di più, per riprendere le parole di San Paolo:” Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21). Il Figlio dell’Uomo è identificato con il peccato: ciò significa che Egli è stato stabilito nemico di Dio. Osiamo appena dire “il nemico totale di Dio”, poiché la pienezza del peccato del mondo è sopra di Lui. Ma, tuttavia, non è ciò che spiega il grido di angoscia quando si é sentito abbandonato dal Padre? Il Verbo fatto carne é andato fino alla fine della sua corsa: “per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”, (Col 1,16) tutto ciò fa totalmente corpo con Lui. E nel silenzio schiacciante, che segue l’appello disperato del Crocifisso, si compie il mistero della salvezza, nel cuore stesso di Dio. Al di là di tutte le iniquità e di tutti i peccati, il Padre ama il Figlio, con la stessa dilezione che era prima della creazione del mondo. Gesù riceve la sicurezza invincibile di potersi abbandonare, in tutta fiducia, nelle braccia del Padre. E in questa certezza Egli spira: Egli consegna il suo Spirito. Tutto si trova ormai “riconciliato da Lui e per mezzo di Lui, sulla terra e nei cieli, poiché Egli ha stabilito la pace con il sangue della sua croce” (Col 1,20). Visto in questa prospettiva, il mistero pasquale è la manifestazione della tenerezza infinita del Padre che si piega spontaneamente verso il suo Figlio Prediletto, oppresso dal peso della morte, che è il peccato del mondo, ma un Figlio di cui il cuore è sempre rimasto trasparente alla Volontà divina. Gesù ha ricevuto, come dono perfettamente gratuito, questa tenerezza eterna, accordata dal Padre in eredità a suo Figlio fatto carne e a tutti coloro che fino alla fine dei tempi erediteranno la pienezza della sua vita.

* * * * * * *

Noi tutti qui presenti facciamo parte di coloro che, in maniera ben esplicita, hanno ricevuto l’appello ad ereditare, ogni giorno della loro esistenza terrestre, il mistero della Pasqua del Signore, del suo Passaggio al Padre, ricevuto come un dono della sua tenerezza. Noi dobbiamo viverlo come battezzati, ma ad un titolo più preciso e più completo, come consacrati a Dio attraverso la professione monastica. Ancora oggi voglio ricorrere a San Bruno affinché ci aiuti a comprendere l’appello che ci indirizza lo Spirito Santo e ci aiuti a lasciarci trasformare da Lui. Il pensiero del nostro beato Padre si modella, in effetti, meravigliosamente sulla maniera in cui noi abbiamo contemplato il mistero della Pasqua: è questo mistero che costituisce l’essenziale della nostra vocazione, l’accoglienza dell’Amore del Signore nel silenzio e nella solitudine. I due cantici di rendimento di grazie di Bruno, il quale scrive ai suoi fratelli della Certosa, hanno precisamente per oggetto la proclamazione della sua allegrezza davanti alla bontà del Signore nei loro confronti. “Rallegratevi, miei carissimi fratelli, della vostra beata sorte e dell’abbondanza di grazie che Dio vi ha prodigato” (1.3). E continua spiegando loro che questa beata sorte consiste “nell’essere entrati in possesso del riposo e della sicurezza, poiché essi hanno potuto gettare l’ancora nel porto più nascosto” (id.). E questo appare come un dono puramente gratuito dell’Altissimo, dal momento che tutti coloro che moltiplicano gli sforzi per giungere al medesimo fine “non vi sono ammessi poiché ad ognuno di loro il cielo non l’ha accordato” (1.4). Essere ammessi ad impegnarsi in maniera definitiva a seguire Bruno nel deserto è veramente una generosità gratuita del Signore. E’ allo stesso modo, in un senso rigoroso, un dono pasquale, un passaggio dalla morte alla vita, una liberazione dal peccato per incontrare la tenerezza del Padre. E’ sorprendente, in effetti, veder Bruno riprendere, nella sua lettera a Raoul, i termini che egli impiegava scrivendo ai suoi fratelli: “sfuggire ai flutti agitati del mondo per passare al riposo e alla sicurezza del porto” (cf.1.3 e A Raoul 9). Ciò che egli presenta ai suoi fratelli come l’ideale della loro solitudine è, allo stesso tempo, se si crede alla lettera a Raoul, la liberazione da tutti i pesi del peccato, quando si viene al Signore dolce e umile, affinché ci sollevi da tutti i fardelli. Entrare nella beata solitudine di cui parla Bruno è una conversione del cuore ricevuta da Dio, in maniera tutta gratuita, che ci stabilisce nella pace del suo amore. Sono pressappoco le stesse prospettive che si manifestano quando Bruno dice ai suoi benamati fratelli laici “la sua gioia di veder per essi, che non sanno né leggere né scrivere, Dio l’Onnipotente scrivere nei loro cuori l’amore e la conoscenza della sua legge santa” (cf. 2.2). Ancora si tratta di un dono della tenerezza del Padre che mette per pura bontà, i conversi della Certosa, al riparo dalle molteplici tentazioni alle quali essi potrebbero vedersi esposti e che loro dona la grazia di lasciarsi guidare da Lui in tutta confidenza. Se, dunque, noi vogliamo essere fedeli alla grazia della nostra vocazione, gettiamo innanzitutto gli occhi su Gesù risuscitato, che è il vero modello di ciò che noi dobbiamo essere: al di là di tutta la cattiva semenza gettata nei nostri cuori, accogliamo la tenerezza di Dio grazie alla quale noi lasceremo morire in Lui tutti i nostri desideri troppo umani.

* * * * * * *

Voi vi domandate forse: perché insistere su queste verità che non sono poi tanto nuove per noi? Perché? Perché, anche se le conosciamo con la nostra intelligenza, sappiamo quanto ci costa trasferirle nella realtà della nostra vita. Senza dubbio noi non ci troviamo, in generale, nelle circostanze così drammatiche della passione di Gesù, ma tuttavia il nostro cuore ha talvolta l’impressione di dover subire una sorta d’agonia quando gli è domandato di rinunciare a tutta la sicurezza che gli viene da sé stesso o a dei piccoli mezzi, che egli controlla, di abbandono cieco e senza difesa all’amore di un altro, anche se quest’altro è Dio in persona. Lanciarsi senza riserve in questo atteggiamento di fiducia implica, da parte nostra, una conversione talmente radicale, che esitiamo a fare il passo. Nonostante tutte le luci della fede, che noi accettiamo volentieri, il nostro cuore, per esempio, non riesce a consegnarsi senza riserve a Dio, lasciandosi attrarre dal sentimento intimo d’essere amato senza misura. Le esperienze umane ci hanno insegnato così bene la prudenza, una certa diffidenza, il timore dei rischi incontrollati, da non riuscire a liberarci da queste abitudini ormai radicate nei nostri cuori quando ci rivolgiamo al Padre dei cieli. E finiamo, così, con il consegnargli la nostra fiducia col contagocce. Come potrebbe Egli, di ritorno, farci dono totale di Sé stesso, vedendoci incapaci di accoglierlo? Un altro esempio delle deformazioni che ci paralizzano è l’immensa difficoltà che incontriamo di fronte alla prospettiva di dover rinunciare a costruire da soli la nostra vita, con la nostra sola industria e il nostro solo sforzo, per riceverla invece come il Dono di un Amore che implica un impegno totale da parte nostra. Noi tremiamo all’idea di prendere come modello Gesù e di non essere più nient’altro che un accoglimento senza limite di una trasfigurazione in cui tutte le nostre tenebre diventerebbero luce. Sarebbe così bello… ma bisognerebbe donare tutto.

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Per concludere, facciamo un piccolo sforzo di lealtà. Non crediamo di esserci sdebitati con Dio accontentandoci di ammirare gli splendori della sua gloria, nel mistero pasquale. Questa sarebbe una contemplazione puramente sterile se noi non vi scorgessimo un appello a seguir Gesù, sul cammino che Lui ci ha tracciato quando è passato da questo mondo al Padre. Che il dono ricevuto da Lui, in questo giorno, porti frutto nella nostra vita, in modo da poter imparare, anche noi, a dire in tutta verità: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Amen.

Pasqua 1984 (Per un rinnovo dei voti)

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Dom Poisson su l’Annunciazione

Annunciazione_-_Jan_van_Eyck_-_1434 certosa Champmol

LA TENEREZZA VERSO DIO

La tenerezza verso Dio, più è giusta, più è utile”. (lettera a Raoul le Vert)

Nel giorno in cui si celebra l’Annunciazione del Signore, vi propongo un’eccellente sermone capitolare di Dom André Poisson concepito il 25 marzo del 1984.

Nell’anno delle celebrazioni del nono centenario della fondazione dell’Ordine, egli operò attraverso diverse omelie a tracciare un preciso profilo di San Bruno e del senso della vita eremitica dei certosini. Un testo corposo e illuminante.

Il racconto dell’Annunciazione del Signore non ci sorprende più, senza dubbio, perché l’abbiamo troppo sentito, letto, meditato. L’abitudine ci ha fatto perdere il riflesso d’ammirazione e di adorazione che noi dovremmo avere in presenza di Dio, il quale, con un solo movimento, ci svela la profondità della sua tenerezza e ci confida tutta l’intimità della sua vita divina, fino ad inserirla nel tessuto della razza umana. La fraternità, così stabilita, tra il Figlio dell’Altissimo e ciascuno di noi è un mistero infinito, ma noi non siamo esposti, nello stesso tempo, a fare il punto di partenza di una familiarità con Dio che dimentichi la rottura totale, la distanza infinita che intercorre tra noi e il Santissimo? Domandiamo a San Bruno di aiutarci a risvegliare in noi l’attitudine del suo cuore, fatta d’ammirazione senza limite, di rispetto e, nello stesso tempo, di sete bruciante di un incontro beatificante, attitudine che deve accendere nei nostri cuori la possibilità d’intimità con Dio che ci è donata nel suo Figlio divenuto nostro fratello. Bruno ci confida tutti questi sentimenti quando, al termine di un lungo sviluppo in cui ha tentato di convincere il suo amico Raoul d’essere fedele ai suoi impegni, egli non può più contenere lo slancio del suo cuore e si lascia sfuggire qualche fiamma di fuoco che lo divora di fronte al Bene senza eguali che è il suo Dio tanto amato. Cerchiamo di ritrovare lo svolgersi del pensiero di Bruno, poi vi vedremo un modello d’adorazione e finalmente scopriremo, per riprendere la parola stessa di Bruno, l’utilità di questa via per gli altri.

* * * * * * *

Bruno moltiplica le dimostrazioni per convincere Raoul che il Signore desidera vederlo entrare nella via monastica, come si è un giorno solennemente impegnato a fare. Ed ecco che Bruno si lancia in un ultimo argomento: “Amerei vedere il tuo amore convinto di una cosa, egli dice a Raoul. Monsignore l’arcivescovo ha grande fiducia nei tuoi consigli e volentieri si appoggia ad essi. E’ facile dar dei consigli che non sempre sono giusti o utili e il pensiero dei servizi che tu gli rendi non deve impedirti di donare a Dio la tenerezza che tu gli devi. Questa tenerezza, più è giusta, più è utile” (16). Come non accorgersi che, scrivendo queste righe, Bruno parla per esperienza? Lui stesso, dopo aver solennemente promesso di rivestire l’abito monastico, si è visto alle prese con una scelta temibile: egli era legittimamente eletto arcivescovo di Reims e, conoscendo perfettamente questa chiesa, egli sapeva che poteva apportare molto alle anime di cui facevano parte. Non era un servizio giustissimo e utilissimo al Signore quello di salire sulla sedia episcopale di Reims? Egli non è certo alla leggera che ha rifiutato e le tracce della lotta interiore, impegnata nel suo cuore, vi sono impresse per sempre. L’argomento che ha convinto Bruno è chiaro. Da una parte un servizio autentico, ma esposto al rischio, quasi inevitabile, di non essere sempre perfettamente giusto o utile. Dall’altra, la fedeltà ad un appello di puro amore ricevuto e accettato, di cui è certo che, nel suo slancio profondo, non può essere che giusto e utile. Noi siamo un po’ sconcertati di veder Bruno insistere molto su queste nozioni di giustizia e di utilità. Possiamo noi, in poche parole, circuire ciò che questo rappresentava per lui? Anche se è un po’ rischioso trattare troppo brevemente un soggetto tanto delicato, diciamo che, forse, per Bruno è giusto ciò che è conforme alla natura profonda dell’essere considerato. Un consiglio è giusto se risponde onestamente al senso vero della questione posta. Un po’ più in là egli dirà che è giusto amare il bene poiché ciò è inscritto nella natura dell’uomo. Allo stesso modo, è utile ciò che è proficuo, ciò che fa portare un frutto autentico all’opera considerata. Un consiglio è utile se orienta verso un agire benefico per coloro che ne riceveranno gli effetti. Amare il bene, per l’essere umano, è utile poiché è l’unica vera felicità consona alla sua natura più profonda. Queste due nozioni, soprattutto quella d’utilità, sono fondamentali per Bruno. Egli, dunque, non esita; una sola scelta è possibile, per lui come per Raoul: il massimo del giusto e dell’utile, il dono completo d’amore a Dio. Egli continua: “Sì: cosa c’è di così utile, o in altre parole cosa c’è nella natura umana di così profondamente radicato e di così profondamente consono che d’amare il bene? Ed esiste un essere, oltre a Dio, di una bontà paragonabile alla sua? Cosa dico: esiste altro bene al di fuori di Dio?” . Bruno dà così una giustificazione serrata della sua scelta. Il cuore dell’uomo è, per natura, destinato ad amare il bene. Questo è la sua giustizia fondamentale e la sua utilità massima. Bruno parte da questa affermazione, della quale sa che non può che essere accettata dal suo corrispondente, senza che sia necessario appellarsi alla Parola di Dio o ai filosofi. Bisogna, d’altra parte, concepire il bene di cui parla Bruno come una realtà metafisica astratta? Ciò non sembrerebbe per niente conforme al genio eminentemente pratico e concreto del nostro Beato Padre. I termini che egli impiega, qualche istante più tardi, mostrano che bisognerebbe, senza dubbio, per essere fedele al suo pensiero, considerare maggiormente la bellezza piuttosto che la bontà di Dio. Egli parla in effetti di “l’ineguagliabile fulgore, lo splendore e la bellezza…di questo bene”. E Bruno, in qualche riga, brucia tutte le tappe. Bisogna amare questa bellezza sovrana del bene. Nessun essere può reggere il confronto con Dio, in questo campo. Andiamo fino alla fine: solo Dio è il Bene. Solo Dio è la bellezza. Arrivati a questo punto, la dimostrazione cambia all’improvviso: o piuttosto diviene incandescente poiché non è più che uno slancio del cuore. Le parole di Bruno sono trasparenti. Egli confida: “Davanti a questo bene di cui l’incomparabile fulgore, lo splendore e la bellezza si lasciano presentire, l’anima santa è bruciata dal fuoco dell’amore

“Tutto il mio essere – egli dice – ha sete del Dio forte, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il suo volto?”

* * * * * * *

Quale messaggio ci indirizza, così, Bruno? Ciò che egli espone, con tale convinzione, a Raoul non è, in fondo, l’itinerario proposto a chiunque è chiamato a vivere per Dio solo? All’inizio vi è la possibilità di consacrarsi ad una attività, per buona che sia, esposta di certo per natura a delle imperfezioni, ma finalmente legittima. Questa può essere un’attività esteriore, ma allo stesso modo può anche essere un’attività interiore, un orientamento, per esempio, della vita di preghiera verso fini diversi da quelli di rimettersi totalmente all’amore di Dio solo, l’unico Bene; allora un’attrazione profonda del cuore verso quest’ ultima via, manifesta un richiamo non equivoco dello Spirito Santo. Scegliere questo cammino radicale implica, dunque, di rinunciare a tutto ciò che vi è di positivo, di benefico per sé o per gli altri in tutte le cose. Non è presunzione voler volare così alto? Non è tradire i bisogni degli altri rinunciando ad aiutarli per rifugiarsi nel silenzio della pura adorazione? Tale è la questione bruciante posta da Bruno. Egli stesso ha dovuto affrontarla e la risposta non è stata dubbiosa nel suo cuore. La sua scelta – “la più giusta e la più utile,” egli dice – è di lasciarsi sedurre, tanto quanto possibile, da Dio. E, tuttavia, quanto è paradossale la maniera in cui Bruno formula la sua risposta! Alla fine in cosa sbocca “l’anima santa” di cui ci parla? Non in un incontro con il Bene folgorante di cui l’incomparabile fulgore brucia l’anima di fuoco d’amore, ma in una domanda. “Quando verrò e vedrò il suo volto?” La sola meta che egli propone non è un possesso felice, ma una sete intensa, una brama di fronte ad un Bene che la supera infinitamente, un vuoto che, alla fin fine, scava sempre più in profondità colui che lancia il suo appello nel fondo del cuore. Per usare le parole di Bruno, Dio non attira colui che ha sedotto verso ciò che, in termini puramente umani, noi potremmo considerare come la più grande inutilità, un’ingiustizia completa di fronte agli altri e, forse, anche di fronte a noi stessi?

* * * * * * *

Non è la stessa maniera di vedere di Bruno. Ricordiamoci le sue parole: “Questa tenerezza che tu devi a Dio, più è giusta più è utile” e, qualche istante più tardi: “Cosa c’è di così utile e di così giusto che amare il bene?” E’ chiaro che, per Bruno, tutto è questione d’Amore: la tenerezza verso Dio, amare il Bene. E anche questione d’amore reciproco, d’amore condiviso, poiché egli precisa un po’ più in là che si tratta di anelare al Dio vivente, questo Dio di cui il proprio Amore risveglia nel cuore il richiamo che lo mette in movimento. La sete, la brama di cui noi parlavamo sono, dunque, veramente reali, ma sono l’impressione di un amore che si dilata. Inoltre, tutto il contesto di giusto ed utile, nel quale si situano i propositi di Bruno, ci mostra che si tratta di una relazione d’amore che ingloba gli altri. E’ certo che per lui essere bruciato dal fuoco dell’amore del solo Bene è ciò che vi è di più profittevole per coloro di cui noi ci sappiamo responsabili. La preghiera d’intercessione più efficace, ovvero la maniera più utile di sovvenire ai bisogni degli altri, è di abbandonarsi in tutta verità alla sete di Dio, se si è ricevuto questo appello. Questo significa, per Bruno, che noi dobbiamo puramente e semplicemente dimenticare coloro per i quali preghiamo, al fine di essere loro utili? Non penso. Tutto il contesto delle sue lettere ci dice il contrario: lo si sente attento a coloro che ama, nella misura in cui è tutto donato a Dio. Ciò raggiunge l’intenzione profonda del nostro testo di oggi: non sarebbe certamente giusto, per Bruno, pensare che possa essere intermediario tra Dio e i suoi fratelli, scacciando dal suo cuore il ricordo di questi ultimi. Per lui amare implica una presenza vivente, sia essa la tenerezza verso il solo Bene o il servizio affettuoso a coloro che gli sono affidati.

Amen.

(Annunciazione 25 marzo 1984)

Epifania 2021

Adorazione dei magi Simone Peterzano certosa di Garegnano

In occasione della Festività dell’Epifania, eccovi una splendida omelia di un priore certosino e rivolto alla sua comunità. Leggiamola e meditiamo su queste sagge parole.

Oggi vorrei approfondire con voi un argomento che interessa tutti coloro che vivono da soli: la lotta alle ossessioni.

Si chiama ossessione un’idea o un’immagine che occupa un posto considerevole nel nostro pensiero, quando, per la sua importanza, dovrebbe limitarsi ad occupare un posto modesto o nemmeno eseguirne alcun ruolo. Queste sono le ossessioni che più spesso si trovano nella coscienza di un religioso: pensarsi detestato e perseguitato, essere geloso, ribellarsi alla superiorità reale o immaginaria di un fratello, avere paure schiaccianti sulla propria salute, ricchezza o vita morale della famiglia, essere agitati o indignati per le imperfezioni degli altri, essere angosciati dalla preoccupazione di agire sulle persone non sono soggetti né alla loro giurisdizione né alla loro autorità. . . Ecco alcuni esempi di tendenze o rappresentazioni che possono ossessionarci, ma la varietà è infinita. Il mezzo per reprimere questi disturbi consisterà nel ripristinare il diritto al pensiero che gli manca. L’ossessione, infatti, è dovuta in gran parte, se non totalmente, al fatto che non vediamo le cose per come sono. È falsa nozione che si impone per caso, e che interrompe il normale corso di pensiero. Riconoscere la falsità dell’idea ed eliminarla proprio per questo sarebbe il rimedio più efficace. Sfortunatamente, quando la facoltà di giudizio è difettosa in qualcuno di noi, non esiste un modo naturale per migliorarla. Tuttavia, ripristinando la calma, prendendosi il tempo necessario per una serena riflessione e, soprattutto, ritirandosi alla presenza di Dio, possiamo creare condizioni più favorevoli per il suo esercizio.

Inoltre, c’è una virtù nemica della stupidità: è l’umiltà. In effetti, chiunque sia umile è ragionevole in sostanza, perché sa mettersi al suo posto. E quando sappiamo come occupare il nostro posto, che è l’ultimo: in novissimo loco (Luc., XIV, 10), vediamo le cose nel loro vero valore.

Un’anima con poca lucidità naturale, che ne fosse consapevole e si arrendesse alla direzione degli altri (anche se il Direttore non superasse la sensibilità media), sarebbe quindi libera da tanti scrupoli, da stupidi pensieri che ne tormentano un altro. Siamo modesti, aperti e docili, che sono questi grandi rimedi contro false idee la cui insistenza rischia di rischiare infelicemente la vita dell’uomo solo e di fargli perdere la sua nobiltà. Inoltre, nella scelta dei candidati alla vita certosina, uno spirito chiaroveggente, un solido buon senso dovrebbero essere considerati qualità indispensabili: alcune persone sono stupite da questa esigenza. Non c’è bisogno di un così grande buon senso per lasciare tutto – dicono – ma è un errore. Per liberarci e disconnetterci dalle cose, dobbiamo vederle nella loro vera natura, soppesarne il valore, inquadrarle al loro posto. La saggezza è così necessaria e ancor più necessaria per la rinuncia ai beni del. mondo che per il loro possesso molte volte, tuttavia, sembra che non sia sufficiente fare un giusto giudizio per sbarazzarsi dell’ossessione. In primo luogo, questo potrebbe avere un fondamento reale: potrei esserlo ostacolato da una malattia o persecuzione immaginaria; ma può succedere che io sia effettivamente malato o essere inseguito. Quindi l’idea tirannica non è esattamente falsa, ma forse è falsa l’importanza che assume nella nostra vita interiore. In tanti casi; sappiamo più o meno chiaramente che, alla luce di Cristo, ciò la cui immagine o pensiero ci insegue ha poco valore, ma non è per questo che siamo liberati dall’ossessione; Dobbiamo quindi convenire che la volontà del cristiano è necessaria per sostenere il suo ragionamento e per completarlo: deve imporre certezze spirituali all’immaginazione e alla sensibilità. Quando conosciamo certe verità, dobbiamo ancora ammetterle fino in fondo all’anima, il che richiede uno sforzo continuo per ritirarci e moderarci, uno degli elementi essenziali di tutta la vita cristiana. ‘Questa lotta non può essere evitata; ciò che si può ottenere attraverso l’esperienza è riconoscere meglio la strategia.

In primo luogo, ci sono condizioni fisiche che lo rendono inefficace.

Per ora, dobbiamo sapere come prenderci. Ma qui vogliamo solo parlare di mezzi spirituali. Ora, da questo punto di vista, tutte le ossessioni sono dovute a una certa resistenza all’amor proprio; non vogliamo accettare la nostra arte nella sofferenza e nell’umiliazione. Bisognerebbe acconsentire all’esclusione: abbandono. La nostra infelicità è appesa solo a un filo, e questo filo è lo stesso che teniamo noi: non vogliamo essere liberi. Cedere a Dio in quello che chiede, totalmente, radicalmente, di pronunciare un Amen senza riserve, sarebbe liberazione. C’è un proverbio che dice: dove non c’è niente, il re perde i suoi diritti. Allo stesso modo, il Principe di questo mondo non ha potere su chi acconsente a essere ridotto a niente; i demoni dell’orgoglio, dell’impazienza, della gelosia non ti circonderanno più, perché hai già abbandonato tutto ciò che questi poteri potevano desiderare. Spesso, per secondi, sembra di aver raggiunto questo stato, ma presto l’idea crudele riacquista il suo potere: la nostra volontà è debole e incostante. Solo la grazia può aiutarci a volere, solo i doni dello Spirito Santo, doni di intelligenza e sapienza, possono sanare il nostro ragionamento, la cui rettitudine soprannaturale è un elemento determinante. Questo dono di saggezza deve essere chiesto a Dio in una preghiera umile e perseverante; preghiera che funzionerà tanto meglio quanto più è contemplativa. Perché la perfezione del ragionamento dipende soprattutto dallo sguardo interiore: se l’anima è abitualmente rivolta a Dio, se è contemplata di fronte, entrerà nel segreto di quella felice dimenticanza di tutto ciò che non è il suo amore. È qui che sta certamente il punto critico; ecco dove le cose si uniscono come all’inizio e alla fine; lì si ristabilisce la vera armonia e l’equilibrio dell’intero essere umano. Maria, madre e modello delle anime contemplative, ottenga da noi il suo divin Figlio, nella presente festa della sua manifestazione, questa liberazione interiore e il suo eterno frutto.

Un certosino

(brano tratto da libro “Silencio com Deus”)

Presepe allestito sull’altare dai monaci certosini di Serra San Bruno

presepe certosa serra

Un sermone per la Festa dell’Immacolata Concezione

José Camarón Bonanat. Cartuja Porta-Cœli. Serra, Valencia (1774).

Nell’augurarvi una buona Festa dell’Immacolata Concezione, cari amici ho scelto per voi un sermone, alquanto lungo, ma molto prezioso, poichè concepito l’8 dicembre del 2015. Questa data fu particolare poichè vi erano varie ricorrenze, ed il compianto Dom Marcellin Theeuwes ormai anziano, come priore della certosa di Montrieux, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, legge questo sermone ai suoi confratelli. Semplicemente illuminante!

L’Immacolata Concezione di Maria. 8 dicembre 2015.

La fine dell’Anno della Vita Consacrata

L’ingresso nel Giubileo della Misericordia

Oggi ci troviamo alla confluenza di due grandi eventi nella vita della Chiesa: da un lato, noi andiamo verso la fine dell’Anno della Vita Consacrata, prevista per il prossimo 2 febbraio, e dall’altra entriamo nel Giubileo della Misericordia. Diamo uno sguardo più da vicino a ciò che ci interessa e qual è il nostro ruolo di monaci nel diffondere la misericordia divina sulla nostra terra e all’interno dell’umanità. Quando parliamo di misericordia, ci viene spesso presentata un’immagine di tenerezza, una madre che abbraccia il suo bambino, una badante che tiene per mano una persona gravemente malata, un volontario che si china su un uomo senza vita. Diversa però è la vera misericordia di cui ci parla la Scrittura e che Cristo ci ha rivelato: sta all’incrocio di due misteri che non riusciamo a comprendere, che ci superano totalmente, ma che si incontrano e ci diventano. vicino a lei: il mistero di Dio e il mistero dell’iniquità, apparentemente incompatibili eppure molto vicini tra loro. La misericordia di Dio ci raggiunge attraverso il male che è nel mondo e che è in noi. C’è misericordia perché c’è il peccato, eppure non è consecutiva al peccato, ma lo precede già da tutta l’eternità. È la conferma che Dio è sempre più grande, anche dove il male si afferma contro di lui. Pochi giorni fa, Papa Francesco ha detto: “Questo è l’anno del perdono, l’anno della riconciliazione. Da un lato, vediamo il traffico di armi, produzione delle armi che uccidono, l’omicidio di persone innocenti nelle forme più crudeli possibili, lo sfruttamento di persone, minori, bambini: stiamo assistendo, permettetemi l’espressione, a un sacrilegio contro l’umanità, perché l’uomo è sacro, è immagine del Dio vivente. Ed ecco fatto, il Padre ha detto: “Fermati e vieni da me!” Questo è quello che vedo nel mondo “. La misericordia c’è: non racchiude l’uomo e il mondo nella condanna, ma apre loro la via alla riconciliazione e al perdono. E la via per questa riconciliazione non è altro che Cristo. “Perché, come dice san Paolo, è proprio Dio che, in Cristo, ha riconciliato il mondo con lui” (2 Cor 5:19), Cristo che, quindi, è realmente posto come “il mediatore tra Dio e gli uomini ”(1 Tm 2,5) e“ chi è la nostra pace ”(Ef 2,14). “Chi non ha conosciuto il peccato, Dio lo ha identificato con il peccato per noi, affinché in lui possiamo diventare giusti nella stessa giustizia di Dio” (2 Cor 5,21) .1 Il mistero della Croce è l’asse di quest’opera di riconciliazione quando Gesù prese su di sé tutto il peso dei nostri peccati (cf. Is 53, 4-7) che pesa su ciascuno di noi, perché “Dio ha rinchiuso tutti gli uomini in rifiuto di credere per mostrare misericordia a tutti ”(Ro 11:32). Tuttavia, il perdono e la misericordia ricadono su di noi senza che facciamo nulla? No, ci viene chiesto di essere attivi e aperti al pentimento. Paolo ci supplica: “Nel nome di Cristo, siate riconciliati con Dio” (2 Cor 5,20). E per facilitare quest’opera di conversione, è stato istituito “un ministero di riconciliazione” (idem v. 18), che rende alcuni più particolarmente “ambasciatori di Cristo” (idem v. 20). Detto questo, possiamo cominciare a rispondere alla domanda posta all’inizio: come possiamo noi come monaci, e per alcuni sacerdoti, partecipare al Giubileo della Misericordia proclamato da Papa Francesco? Inserendoci come meglio possiamo nel ministero della riconciliazione annunciato da san Paolo. Questo ministero riguarda più visibilmente gli apostoli e tutti i ministri del sacramento della remissione dei peccati, ma non solo, né forse prima, poiché ogni credente, in virtù del suo battesimo, è chiamato a lavorare per vincere le forze del male in il mondo. La missione di ogni persona battezzata è quella di cooperare all’opera di redenzione, fare propri i pali della venuta di Cristo sulla terra e stare accanto al Salvatore in modo che la Vita possa trionfare sulla morte e su Colui che semina la morte. e mentire. A coloro che hanno scelto di vivere il più vicino possibile al Vangelo, questa missione e questo ministero sono stati affidati in modo speciale e urgente, siano essi legati a Cristo solo dai voti o ricevuti inoltre il sacerdozio sacramentale. Alcuni esempi ce lo dimostreranno, sia nella vita della Chiesa che nella letteratura contemporanea. Penso quindi al parroco di Ars, padre Pio e Martha Robin, ma anche allo staretz Zosime di Dostoevskij, il “santo di Lumbres” di Bernanos (Sotto il sole di Satana) o al parroco degli “angeli neri” Mauriac. Tutte figure che sono state scelte per essere particolarmente unite a Cristo nella sua lotta contro le forze del male e che hanno dovuto affrontare, anche fisicamente, attacchi demoniaci. In ciascuna delle loro vite, ciò che predominava era il confessionale o l’intimo accompagnamento delle anime. Portarono i pesanti fardelli dei cuori così come il peso dei peccati di tante persone, e così facendo cooperarono alla liberazione dei cuori e permisero a un raggio di luce e di grazia di penetrare così tante coscienze oscurate. . Portando questo peso del peccato, divennero importanti figure cristiane, uomini e donne in cui la grazia della redenzione divenne molto vicina e visibile, una grazia da cui divennero, al loro posto e al loro tempo, mediatori privati. Vorrei citare alcune righe di Bernanos particolarmente chiare su questo argomento: “Riflettendo sul suo lungo ministero di confessore, il parroco di Lumbres dubita non di Dio, ma dell’uomo. Mille ricordi lo premono: sente le lamentele confuse, i balbettii pieni di vergogna, il grido di dolore della passione che sta scivolando via e che una parola ha inchiodato, che la parola lucida ritorna e si spoglia viva … vede i poveri volti sconvolti, gli sguardi che vogliono e non vogliono, le labbra sconfitte che si rilassano e la bocca amara che dice no … Tante false rivolte, così eloquenti nel mondo, che vedeva ai suoi piedi, risibili! Quanti cuori orgogliosi, dove un segreto marcisce! Così tanti vecchi, come bambini orribili! E soprattutto, a fissare il mondo con sguardo freddo, i giovani avari, che non perdonano mai. Oggi, come ieri, come il primo giorno della sua vita sacerdotale, lo stesso … ”2 (G. Bernanos, Romance Works, p. 235). Come monaci e sacerdoti, durante questo Giubileo, abbiamo il nostro posto al loro fianco quando entriamo, per quanto la grazia e il bene ci permetteranno, proprio nel punto di intersezione quando la volontà universale di salvezza di Dio si incontra con il mistero dell’iniquità non meno universale. Per la nostra vocazione a una vita di preghiera vicino a Dio e conoscendoci con un’acuta coscienza di peccatori perdonati, siamo chiamati a diventare canali di perdono e riconciliazione per gli altri. Questa è l’opera di misericordia a cui Cristo ci invita oggi. Posso suggerirti e offrire un modo concreto per il tuo libero apprezzamento? Sarebbe quello di offrire durante l’anno giubilare una volta al mese, preferibilmente di venerdì, un’eucaristia in cui ognuno farà uno sforzo speciale per unirsi a Cristo nel portare il peso del male nel mondo. e pregare affinché i cuori e le coscienze si aprano a ricevere la grazia del perdono e della riconciliazione. Possiamo farlo in unione con Maria che stiamo iniziando a celebrare questa sera e che la Chiesa chiama “la Madre della Misericordia”. Rimase ai piedi della Croce, collaborando affinché i frutti della Croce si diffondessero il più possibile nello spazio e nel tempo.

Amen.

Fr Marcellin

Dom Marcellin

Quell’ultimo Sermone per l’Esaltazione della Santa Croce

Esaltazione della Santa Croce

Sermone capitolare di Dom Antão Lopes 2019

Dom Antao nel cimiterino

Oggi, in occasione della ricorrenza della festività della Esaltazione della Santa Croce, voglio proporvi il sermone capitolare di Dom Antão Lopespriore della ormai chiusa certosa di Evora in Portogallo. Il 14 settembre dello scorso anno egli si rivolse così alla sua comunità, leggiamo e meditiamo le sue parole, pronunciate con la consapevolezza che la certosa stava per chiudere. Una tristezza struggente!

Fratelli carissimi, se Cristo non fosse resuscitato, la nostra fede sarebbe futile. Ma è vero anche che San Paolo predicò solo Cristo crocifisso. Chiaramente, entrambi i fatti erano gli stessi. Risorse perché era stato crocifisso. Ricordando questo possiamo concludere che la Croce ha e deve avere la stessa importanza per noi della risurrezione. Importanza nella nostra fede, nella nostra considerazione, nella nostra celebrazione.

Tuttavia, celebriamo la croce come la risurrezione? Se ci pensiamo di Venerdì Santo possiamo rispondere si. Il cosiddetto triduo sacro non è formato correttamente da giovedì santo, venerdì e sabato ma venerdì, sabato e domenica di Pasqua. Pertanto, la conclusione della morte e risurrezione del Signore è liturgicamente un’unità, a tutti. Così la commemorazione liturgica della Croce e della Resurrezione hanno la stessa dignità e importanza perché sono una celebrazione. Non dobbiamo dimenticare questa realtà quando incontriamo altre celebrazioni in onore della Croce. Parti di secondo livello rispetto all’evento principale, il Venerdì Santo, quando la Chiesa non celebra nemmeno la Messa perché pensa di non averne bisogno, la realtà è pienamente presente.

Celebra la festa del ritrovamento della croce in cui è stato sacrificato nostro Signore o commemora il giorno in cui i cristiani pensavano di aver trovato il legno stesso dell’esecuzione. E’ stato un fatto accaduto molto più tardi di quello che è successo è l’importanza era minore, sia storica che liturgica.

Diverso è il caso della festa dell’esaltazione della Santa Croce. Non è nemmeno una festa storica, perché non si riferisce a una data specifica, piuttosto è meglio ideologica o affettiva. La celebrazione storica era già venerdì della Settimana Santa. Tuttavia, quella celebrazione non poteva essere definita una celebrazione perché la tristezza inondò e soffocò i cuori dentro e soffocò la liturgia. Ecco perché i cristiani dedicano un altro giorno alla gioia nella croce di Cristo. Mai dai suoi dolori, ma dal frutto che ottenne con il suo sacrificio volontario. Perché se San Paolo predicasse solo la croce di Cristo, lo era, come dichiarò, gloria in lei e in lei. Lo disse con enfasi: “Lontano da me vantarmi di qualcosa di diverso dalla croce di Cristo ”. Tuttavia, questa idea, questa sensazione, non era qualcosa di unico a San Paolo.

Era già nei vangeli, nella stessa bocca di Gesù. “Quando esalti il Figlio dell’uomo, allora saprai chi sono ”. In piedi sulla croce ha entrambi sensi, fisico e figurato. Questo era il modo di parlare di Gesù. Ho parlato parabola che chiama cieca ai farisei o pulita per i discepoli o porta a Te stesso. Gesù considera la sua crocifissione un’esaltazione. Questo è il significato di questa festa liturgica. Questo era il significato della predicazione apostolica. San Pietro dice a Gerusalemme: “Conosci tutta la casa d’Israele che Dio ha stabilito come Signore e Messia questo Gesù crocifisso per te ”. E quando ha guarito il paralitico: “Quest’uomo appare guarito davanti a te in nome di Nazareno Gesù che hai crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti ”. “Dio ha risuscitato Gesù dai morti, che hai ucciso sospendendolo su una croce ”. I primi cristiani erano consapevoli che la gloria del risorto veniva dalla croce. Ecco perché la Croce era ed è gloriosa. Applichiamo la nostra riflessione concludendo che dobbiamo chiamare gloriosa anche la nostra croce se consideriamo quella di nostro Signore. Se si considerava esaltato, consideriamoci ugualmente

onorato e grato per l’onere che Dio ci impone. Ne abbiamo due disposizioni davanti alle nostre croci. Uno, umano, è scappare da loro, evitare malattie, affaticamento, dolore, malattia, freddo, calore … Un altro, accettiamo e abbracciamo tutto ciò che chiamiamo croci. Anche generosamente ringraziare e cercare croci per poter offrire qualcosa e imitare in qualcosa a Gesù. Come i pastorelli di Fatima. Queste croci, questi lavori, dimissioni, umiliazioni, servizi, calore e freddo, ferite e cadute, stanchezza e necessità, quando sono ben accolti e perfino amati e riconoscenti, poi meritano il titolo di glorioso, come la croce di Cristo che esaltiamo.

Questo, più o meno, è ciò che suggerisce la festa del 14 settembre.

Ma questo giorno del 14 settembre 2019 è speciale, sarà unico nelle nostre vite. Ricordiamo che il 14 settembre 1960, sette certosini sono entrati in questa casa santa per resuscitarla. Cinquantanove anni più tardi ci sono quattro certosini che muoiono con Cristo su questa croce.

Festa della morte e morte sulla croce. Tuttavia, come Gesù, risorgeremo, vivremo come certosini. Questo è l’essenziale, la cosa importante per noi. Il nostro amore proprio può riposare. Speriamo di morire certosini. Almeno certosini e forse santi certosini. Allo stesso modo, il nostro amore per Dio può essere soddisfatto. Ci siamo consolati anche per quanto riguarda questa cara certosa, dove abbiamo trascorso metà o più metà delle nostre esistenze.

Anche questa casa, morendo ora, risorgerà immediatamente. Il nostro arcivescovo ha deciso, dalle prime tristi notizie sul Scala Coeli, che questo continuerà ad essere un monastero contemplativo. E lo ha fatto. Quindici sorelle di clausura, rigorosa, molto selettiva nelle licenze di ingresso molto rare, occuperanno tutte le nostre celle. Non cantano a mezzanotte, ma cantano ogni giorno ogni Ufficio, anche quelli intermedi, come noi la domenica. Adorano il Signore nell’Eucaristia un’ora al mattino e un’altra al pomeriggio. Quando hanno visto la nostra chiesa monumentale con l’espositore hanno commentato tra loro che vorrebbero mettere Gesù lì per il culto. L’arcivescovo ha chiesto loro di partecipare a dieci suore alla messa dell’8, al fine di presentarle alla città e la gente di Évora e tranquillizzarli riguardo al futuro di questa casa. Pensano di conservare il nome di certosa Scala Coeli, come certosa Valle da Misericórdia è usata per altro anche senza certosini. Évora vincerà perché si pensa di mettere un corridoio dal cancello della chiesa per rimuoverlo dal chiostro e per poter celebrare la messa popolare la domenica.

Oggi, in questa festa della Croce, riconosciamo che siamo stati crocifissi per anni. In Aula Dei vidi la preghiera conventuale, a Montalegre il Mattutino dopo Compieta … Portiamo liberamente, per amore dell’Ordine, con la croce di essere pochi e di poterne fare a meno, in questo nostra certosa. Ho sentito che gli altri priori ci definiscono “eroici”. Possiamo quindi dire che la nostra croce era gloriosa, come chiama la Chiesa alla festa di oggi.

Speriamo di risorgere presto in una sacra cella cartusiana …

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Un sermone per l’Annunciazione

Annunciazione Pedro Berruguete Certosa Miraflores Burgos

Annunciazione Pedro Berruguete Certosa Miraflores Burgos

Oggi per la festa dell’Annunciazione, nella quale si celebra il mistero dell’Incarnazione del Verbo, vi propongo un edificante sermone di un priore certosino, rivolto ai suoi confratelli. L’unico Vangelo a parlare di questo episodio è il terzo, quello di Luca (Luca, I, 26-38). In questo passo del Vangelo si racconta di come l’angelo Gabriele sia apparso a Maria, a Nazareth e le abbia annunciato che sarebbe diventata, per opera dello Spirito Santo, madre del figlio di Dio, il Messia Gesù.

Miei venerati padri e cari fratelli,

Un giorno, pensando a sua madre, Gesù disse: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Qualche tempo dopo dirà agli ebrei infedeli: “Chi di voi può accusarmi di peccato? Se ti dico la verità, perché non vuoi credermi? Colui che è nato da Dio ascolta le parole di Dio; tu non ascoltarli, perché non sei di Dio “.

Gesù rivolse queste parole agli ebrei infedeli, e senza dubbio le pronunciò con profondo dolore. È triste e doloroso vedere anime vicine alle parole d’amore. È il primo atto del dramma della Passione. Iniziamo chiudendo i nostri cuori alla parola di Dio, domani crocifiggeremo coloro che la parlano.

In questa festa dell’Annunciazione, che coincide con il tempo della Passione, vorrei parlarvi di questa parola di Dio che risuona nei nostri cuori mentre risuonava nel cuore di Maria e nei cuori degli ebrei. Ne saremo fedeli? Seguiremo l’esempio di Maria o, al contrario, come gli ebrei, rifiuteremo la parola di Dio?

Gesù stesso ci fornisce la ragione della nostra scelta: “Colui che è nato da Dio”, ha detto, “ascolta la parola di Dio; non lo stai ascoltando, perché non sei nato da Dio”. Questa è la ragione profonda per cui chiudiamo gli occhi alla verità e rifiutiamo di credere alle sue parole. “Non siamo nati da Dio”. Quindi cosa significa “nascere da Dio”? Cosa significa San Giovanni con queste parole che sembrano essere una delle vette del suo Vangelo? Dal prologo non dice: “A coloro che credono nel suo nome, che non sono nati né di carne né di sangue né di volontà carnale né di volontà umana ma di Dio, dà il potere di diventare figli di Dio “. Cos’è questa misteriosa nascita senza la quale è impossibile ascoltare la parola di Dio?

I teologi hanno certamente cercato di spiegarlo, ma per capirlo veramente devi prima viverlo. Quando l’anima è silenziosa in essa, quando è distaccata da ogni agitazione, quando, spogliata di tutto, si trova davanti a Dio in uno stato di vuoto, senza azione nessuna delle sue facoltà, allora sembra percepirla come una vita nuova e silenziosa che si diffonde in essa. È la vita di Dio. È davvero come una nuova nascita per l’anima. Sembra entrare in un nuovo mondo in cui tutto è luce e amore, calma e pace. È nata da Dio. È una generazione incessante, simile a quella del Figlio nella Trinità. In questo silenzio l’anima può ascoltare la parola di Dio.

La prima cosa che appare allora è Cristo. Appare in tutta la sua purezza, in tutta la sua bellezza. È lui che il Padre mostra all’anima, ed è lui la luce e l’eterno esempio che illumina l’anima e gli mostra cosa deve fare. È la parola di Dio e l’anima contempla e crede in lui. Questo è il primo atto di chi, nato da Dio, ascolta la sua parola. Troppo spesso, proprio le persone che, figli di Dio, sono piene di buona volontà, trascurano di contemplare a lungo e amorevolmente questa parola per realizzare immediatamente ciò che richiede. È un grosso errore. In generale, la parola deve essere ascoltata a lungo, in modo che venga data una risposta che non provenga solo dalle nostre azioni ma dal nostro cuore. Ciò che Gesù chiede non sono solo gli atti materiali, ma è soprattutto questo movimento del nostro cuore che deve informarli del tutto. Troppo spesso crediamo di aver fatto tutto quando abbiamo compiuto l’atto materiale richiesto da Dio, ma chi vede il fondo dei nostri cuori conosce il quasi totale nulla del nostro dono. Inoltre, troppo spesso, per non aver messo la nostra anima in questo stato di vuoto, totale distacco in cui siamo nati da Dio, per non aver ascoltato la parola di Dio abbastanza a lungo, per non aver preso abbastanza consapevolezza di questa parola e di ciò che ci chiede, per non averla lenta e amorevolmente contemplata, con quale frequenza le nostre azioni non nascono da carne e sangue? Quante volte non nascono da un cuore impuro pieno delle sue passioni e del suo entusiasmo? Ma chi può dire la bellezza di questi atti nati dalla mente, per quanto umili, per quanto oscuri possano essere? Di questi atti nati dalla contemplazione della Parola di Dio e quali sono gli scambi di una vita? Questi sono atti che sorgono sia da Dio che dall’uomo, atti pieni di vita divina, che sorgono dal cuore dei santi.

Quindi gli ebrei, nel loro orgoglio, persuasero di avere la luce ma guidati dalle loro passioni, crocifissero Gesù. Questa è una grande lezione di umiltà per noi. Non dobbiamo credere troppo facilmente di avere la luce, ma in questa festa dell’Annunciazione dobbiamo guardare Maria e chiederle molto umilmente di sapere come pronunciare in ogni momento della nostra vita, con la stessa purezza che l’ha ispirata, le parole che lei rispose all’angelo: “Ecco l’ancella del Signore, lascia che sia fatto a me secondo la tua parola.” Queste sono parole di luce che traducono il cuore di Maria e il suo totale abbandono come devono tradurre il nostro. Così sia.

Annunciazione 1969

Un sermone per l’Epifania

L'adorazione dei re magi. Goya. Certosa di Aula Dei

L’adorazione dei re magi. Goya. Certosa di Aula Dei

 

Oggi in occasione della celebrazione della festività dell’Epifania, voglio proporvi cari amici lettori un sermone capitolare concepito da Dom Jean-Baptiste Porion per questa occasione e declamato alla propria comunità. Vi invito a meditare su di esso…

Vorrei discutere con voi oggi un’argomento che interessa tutti i solitari: la lotta contro le ossessioni. Un’ossessione è un’idea o un’immagine che ha un posto considerevole nel nostro pensiero, quando dovrebbe essere di modesta importanza o non svolgere alcun ruolo. Ecco le ossessioni che spesso si incontrano nella coscienza religiosa: credere di essere odiati e perseguitati; essere geloso, ribelle di una superiorità reale o immaginaria in un confratello; nutrire paure schiaccianti per la sua salute o per il bene fisico e morale della sua famiglia; essere turbato, indignato per le imperfezioni altrui; essere logorato dal desiderio di agire su persone che non sono soggette alla nostra giurisdizione o alla nostra autorità … Ecco alcuni esempi, ma la varietà è infinita, tendenze o rappresentazioni che possono ossessionarci. Il mezzo per sopprimere questi disturbi sarebbe quello di ripristinare a giudizio la rettitudine che gli manca. L’ossessione, infatti, è dovuta in gran parte, se non del tutto, al fatto che non vediamo le cose come sono. È una falsa nozione che si impone in questo modo e interrompe il normale corso del pensiero. Riconoscere la falsità dell’idea e quindi raddrizzarla sarebbe il rimedio più efficace. Sfortunatamente, quando la facoltà di giudicare è difettosa in qualcuno, non esiste un modo naturale diretto per migliorarla. Si può, tuttavia, mettersi in pace, dando il tempo necessario per una calma riflessione, e soprattutto ricordando se stessi alla presenza di Dio, per creare condizioni più favorevoli al suo esercizio. Inoltre, c’è una virtù che è nemica della follia: è l’umiltà. In effetti, colui che è umile, è giudizioso sull’essenziale, poiché sa come mettersi al suo posto. E quando restiamo al nostro posto, che è l’ultimo: ricominciamo in novissimo loco (Luca 14, 10) – vediamo le cose nella loro vera luce. Un’anima poco dotata di naturale lucidità, che sarebbe in grado di concordare e sottomettersi al giudizio di un regista (anche se avesse solo un giudizio medio), sarebbe quindi liberata da molti scrupoli, da molti pensieri sciocchi, di cui un altro sarà ossessionato. Cerchiamo di essere modesti, aperti e docili; questi sono grandi rimedi contro le false idee, la cui insistenza rischia allo stesso tempo di rendere infelice la vita del solitario e privarlo della sua nobiltà. Resta che, nella scelta dei candidati alla vita certosina, una mente chiara, un senso solido, dovranno essere considerate qualità essenziali. Alcune persone sono sorprese da questo requisito: non c’è bisogno di così tanto giudizio per lasciare tutto, dicono; ma è un errore. Per liberarsi e staccarsi dalle cose, bisogna vederle nella verità, soppesarle al loro valore, metterle al loro posto: il giudizio è necessario – e ancor più – per la rinuncia ai beni del mondo, che per la conquista e possesso di questi stessi beni. Molte volte, sembra che non sia sufficiente dare un giudizio corretto per sbarazzarsi di un’ossessione. Questo potrebbe avere delle vere basi: potrei essere ossessionato da malattie immaginarie o persecuzioni, ma può anche accadere che io sia effettivamente malato e perseguitato. Quindi non è l’idea tirannica che è propriamente falsa, ma forse l’importanza che assume nella nostra vita interiore. E in molti casi, sappiamo più o meno chiaramente che alla luce di Cristo dovremmo prendere per poco ciò che la nostra immagine o pensiero ci insegue – ma non ci liberiamo di tanto dell’ossessione. Dobbiamo quindi concordare sul fatto che la volontà del cristiano è chiamata a sostenere il suo giudizio e a completarlo in un modo: deve imporre certezza spirituale all’immaginazione e alla sensibilità. Quando conosciamo certe verità, dobbiamo ancora ammetterle nella parte inferiore dell’anima. C’è uno sforzo continuo per ricordare e moderarsi, che è uno degli elementi essenziali di ogni vita cristiana. Non possiamo evitare questa lotta, possiamo solo, grazie all’esperienza di conoscere meglio la strategia. All’inizio ha condizioni fisiche che lo rendono difficile: un modo saggio di trattarsi è un primo passo. Ma vogliamo parlare qui solo di mezzi spirituali. Da questo punto di vista, tutte le ossessioni sono causate da una certa resistenza di autostima: non vogliamo accettare la sua parte di sofferenza e umiliazione. Sarebbe necessario acconsentire una volta per tutte a essere messi da parte, ad abbandonarsi. La nostra sfortuna pende da un filo, e questo filo siamo noi che lo tratteniamo: non vogliamo lasciarlo andare. Dare a Dio ciò che chiede, totalmente, radicalmente, di pronunciare un Amen assoluto, sarebbe liberazione. Un proverbio dice: dove non c’è nulla, il re perde i suoi diritti; allo stesso modo, su colui che accetta di non essere nulla, il principe di questo mondo perde il suo potere: i demoni dell’orgoglio, dell’impazienza, della gelosia non lo perseguitano più, poiché ha abbandonato tutto ciò che questi poteri potrebbero impadronirsi. Spesso, per un momento, pensiamo di aver raggiunto questo stato, ma presto l’idea crudele riprende il suo impero: è perché la nostra volontà è debole e incostante. Solo la grazia può aiutarci a desiderare, solo i doni dello Spirito Santo: doni di intelligenza e saggezza, possono guarire il nostro giudizio, la cui rettitudine soprannaturale rimane qui l’elemento decisivo. Questo dono di saggezza, è necessario chiedere a Dio con una preghiera umile e ostinata; preghiera che sarà ancora più vicina alla risposta che sarà più contemplativa. Perché la correttezza del giudizio dipende soprattutto dall’orientamento dello sguardo interiore: se l’anima è abitualmente rivolta verso Dio, che di solito lo guarda in faccia, impara la beata dimenticanza di tutto ciò che non è il suo amore. Questo è certamente il mezzo sovrano che, prendendo le cose in linea di principio, al vertice, crea la vera armonia ed equilibrio di tutto l’essere umano. Possa Maria, Madre e modello dei contemplativi, ottenere da noi dal suo Divin Figlio, nell’attuale festa della sua manifestazione, questa emancipazione interiore e il suo frutto eterno.

Celebrando Ognissanti

origine ordine

Per celebrare la festività di Ognissanti, ecco per voi, un sermone capitolare di un priore certosino rivolto alla propria comunità.

Coloro che provano la nostra regola spesso si lamentano, alla fine di alcune settimane di vita monastica, della loro facilità: pensano che il certosino non corrisponda all’ideale di eroica austerità che avevano immaginato. Anche così, un buon numero di coloro che esprimono questa opinione qualche tempo dopo ci lasciano per la ragione opposta: trovano le prove estenuanti.

Non dobbiamo sorridere a tale incoerenza: non è solo per i principianti. In effetti, la vita spirituale è una vita dell’infanzia, allo stesso tempo troppo piccola per il nostro orgoglio e molto umile per i sensi. Il Signore ci dice nel suo Vangelo che la via della salvezza è storta e ci invita nella porta stretta, ma ci dice anche che il suo giogo è morbido e leggero. È interessante meditare allo stesso tempo su queste due verità e analizzare in che senso non si oppongono. davvero; ogni anima che vuole amare si fida di ciò che è troppo facile: sente una specie di orrore per la sua facilità. A proposito, sa che, dall’esperienza delle sue cadute, è facile lasciarsi scivolare nella mediocrità e nel volgare. Questo è vero anche sul piano naturale. L’uomo si distingue per la necessità in cui vive costantemente, se non vuole cadere o scendere al di sotto della sua natura, per fare sforzi su se stesso; Siamo destinati a una lotta interiore, che dobbiamo accettare e continuare con pazienza. Questa continuità nella ricerca di se stessi si traduce in lavoro. La vita spirituale è una lotta e un peso: coloro che la dimenticano vivranno in una cecità estremamente pericolosa. Ma se dobbiamo stare attenti ai modi semplici, non è vero, tuttavia, che la vita spirituale è confusa con irrequietezza o difficoltà. Proporre a noi stessi come ideale il raggiungimento di determinati obiettivi in ​​grado di raccogliere l’ammirazione degli altri – o anche il nostro, per noi stessi – significa essere completamente inconsapevoli dell’essenza della spiritualità. Lo spirito si attenua nel “lasciarsi andare”. Se non si vive di atletica, si vive di beneficenza. Ora non c’è nulla di più semplice dell’amore. Ci sono quindi una sorta di difficoltà che l’anima, la moglie di Dio, evita attentamente: la complicazione. Ciò che è dritto è semplice, ciò che è falso è complicato. La semplicità è il segno di Dio. Se mi chino su me stesso, se esplodo le complicazioni del mio amore per me stesso, soffro molto. Se mi rivolgo agli uomini, mi fanno piegare su di me a causa del circolo vizioso delle passioni. L’anima che, al contrario, mette in discussione Dio solo con un ricordo ininterrotto, riceve da Lui solo una risposta: la certezza di essere amato all’infinito lo invita ad amare con tutto il suo cuore nel momento presente, e questa risposta risolve tutto. i problemi. Questo è il primo e il più potente modo di semplificare la nostra vita: adottare una posizione vera: contemplativa, ci abituiamo ad affrontare Dio in solitudine. Ma ce n’è un altro, in effetti inseparabile da quello che ho appena menzionato: la generosità aperta. Se l’anima di un certosino in particolare desidera fermarsi a metà strada, è inutile che cercherà di stare in piedi e perdere la sua forza. Dobbiamo cercare il meglio per mantenere lo spirito in equilibrio. Il diritto che riserviamo di difendere l’amore di sé in una certa misura agisce nell’anima come un veleno. Al contrario, rischiare tutto la solleva; dare tutto ripristina l’aria pulita delle montagne. Non c’è niente di più semplice della fede e dell’abbandono totale. Questo atteggiamento interiore e categorico ha conseguenze pratiche negli altri settori. Se siamo semplici con Dio, saremo semplici con Dio. La mancanza di semplicità nei confronti di Padre Priore o del Direttore è un misto di vanità e sfiducia, si oppone allo spirito dell’infanzia. La contemplazione ci guarirà da questa paura o orgoglio. Ci manca la semplicità nei confronti dei nostri fratelli quando siamo sensibili e sospettosi; ancora una volta la finzione di essere qualcuno, la mancanza di memoria per l’essenziale, ci fa vedere difficoltà dove Dio non le ha poste. Cerchiamo di essere più all’interno del cerchio della presenza divina, che ci cancellerà e ci darà calma e trasparenza. Solo la natura di Dio, contemplata nella sua essenza o nell’Amore crocifisso, o nel volto immacolato di Maria, può liberarci da noi stessi; Solo lei può innamorarsi di noi. Fu in questo senso che furono dette le parole di Cristo: la verità ti renderà libero – veritas liberabit vos. Aggiungiamo qui per concludere: la via del maestro, specialmente quella contemplativa, non è facile, perché richiede un dono totale; ma non è difficile, perché ha meravigliosi vantaggi, come il privilegio divino della semplicità. Possa la Vergine Maria e i santi la cui festa celebriamo darci la libertà interiore e l’amore amorevolmente amoroso ci conduca alla visione, nell’unità, che sarà la nostra gioia eterna.

Festività di San Bruno

Dies Natalis Bruno

Siamo giunti anche quest’anno al 6 ottobre, giorno dedicato alla celebrazione di San Bruno, cari amici ho scelto per voi un sermone capitolare di Dom Andrè Poisson. Il testo, un pò lungo ma molto ricco, fa un eccellente ritratto di Bruno.

Il mio spirito esulta nel Signore”

Il Capitolo Generale ci presenta San Bruno come il canale attraverso il quale, ancora oggi, ci arriva la grazia della nostra vocazione. Questa immagine ci porta a scorgere l’irraggiamento diretto che emana dalla sua persona, il quale ci trasmette il dono di Dio e nello stesso tempo ci rievoca una questione nella quale noi incappiamo ogni tanto: perché lo Spirito Santo non ha ispirato il nostro Padre, nella vita nel deserto, a donarci un insegnamento al quale noi potremmo ricorrere per guidare il nostro cammino?

Il vecchio teologo di Reims, l’uomo che per anni ha commentato la parola di Dio, quest’uomo di cui la grazia prima fu d’insegnare, non ha lasciato ai suoi figli che una corta lettera. Questo è tutto. Dobbiamo constatarlo con disappunto o non sarebbe forse meglio, per il nostro cuore, cercare in questo una volontà di Dio ricca di luce per meglio comprendere e vivere la nostra vocazione?

Cerchiamo, dunque, di vedere se la lettera di Bruno, ai suoi figli della Certosa, ci aiuta a comprendere perché non aveva insegnamenti da donarci sulla via contemplativa.

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La prima constatazione sulla quale vorrei soffermarmi è che questa lettera s’indirizza proprio a noi. Se la confrontiamo con la lettera a Raoul le Verd, che appare più seducente in ragione della densità del pensiero che in essa ci si trova, come non essere colpiti dalla differenza di tono che implica un coinvolgimento totalmente differente del cuore di Bruno, in uno e nell’altro caso.

Il messaggio a Raoul è l’espressione di un’amicizia profonda, di lunga data, provata. La lettera ai suoi fratelli è la scottatura diretta di un amore scaturito dal fondo del cuore di Bruno. La differenza di tono salta agli occhi: per parlare a Raoul occorre essere formale, evitare di offenderlo se ci sono cose dure a dirsi, lo stile è accurato, la composizione è elaborata. Con i suoi fratelli – anche se probabilmente non li conosce tutti – è sufficiente comprendersi a mezze parole. Il cuore parla liberamente, poiché sa di essere in accordo con quello dei suoi corrispondenti.

La lettera a Raoul lascia trasparire una nota d’inquietudine, se non di angoscia, al pensiero che l’amico dei giorni antichi potrebbe, per la sua infedeltà, perdersi definitivamente. Per Bruno è un dovere di coscienza ricordarglielo. Con i suoi fratelli, al contrario, anche se ogni tanto deve raddrizzare qualche deviazione, non è che un’esplosione di gioia, d’allegria: con loro è in famiglia. Egli parla di ciò che vive in comunione con loro.

In breve, Bruno, pur lasciandoci percepire che egli pensa agli uomini molto concreti che vivevano allora nel deserto della Certosa, ci consegna il suo cuore in ciò che ha d’eterno, potremmo dire nel rispetto di chiunque conduce l’esistenza di cui ha gettato il primo seme qualche anno prima sotto l’egida di Sant’Ugo. La sua lettera è dunque proprio destinata a noi.

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Quale aspetto di Bruno essa ci mostra in primo luogo? Egli è un uomo all’ascolto. In qualche modo egli scompare per divenire nient’altro che disponibilità, accoglienza profonda nei confronti dei suoi figli. Tutto ciò che scrive è espressione di questa attenzione intensa agli altri e della reazione immediata di gioia o d’amore che essa risveglia in lui.

Bruno si lascia informare da Landuino: non solamente riceve da lui qualche notizia dei monaci che ha lasciato nelle montagne della Certosa, ma più ancora egli è impressionato dai sentimenti di fierezza, di felicità, d’affetto che il suo successore prova nei confronti dei suoi fratelli. Dal primo momento egli ha percepito il tono di confidenza che regna alla Certosa ed egli comunica in maniera del tutto naturale, poiché è in perfetta sintonia con i suoi fratelli.

Egli si mette dunque all’ascolto di ciò che vivono gli uni, nella loro solitudine stretta, gli altri, nella semplicità della loro obbedienza. Egli li vede, con gioia, restar fedeli al loro ideale, il medesimo ideale che lui stesso aveva fatto loro scoprire. “Ho appreso, – egli dice -; ho inteso Landuino dirmi; odo parlar di voi dal vostro priore e padre amorevolissimo”. (1.1 e 2.1). Bruno si lascia invadere dalla presenza dei suoi figli.

E immediatamente lo si sente all’ascolto di ciò che Dio ha fatto in loro: con più lucidità, senza dubbio, dei suoi stessi figli egli coglie quanto le loro opere buone o degne d’elogio vengono finalmente dal Signore che le ha compiute in loro. E Bruno insegna ai loro figli a mettersi, al proprio turno, all’ascolto dell’Onnipotente, al fine di scoprirlo nelle loro vie. Essi sono amati da Lui: è questa la loro vera ricchezza e non l’inflessibile rigore della loro osservanza, poiché questa viene dalla loro sola buona volontà. “Rallegratevi … della vostra beata sorte e dell’abbondanza di grazie che Dio vi ha prodigato” (1.3).

Bruno, pervenuto alla piena maturità della sua via contemplativa, è un uomo all’ascolto dei suoi fratelli e di Dio, al fine di entrare nel movimento dell’amore.

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L’altro versante di questa piena disponibilità di cuore di Bruno è una tendenza spontanea all’azione di grazia. Scoprendo nei suoi fratelli le meraviglie di Dio egli esulta e, in due riprese, sono le parole del Magnificat che egli prende a prestito per esprimere i trasporti d’allegria da cui è ghermito. Solo l’umiliazione, che egli prova constatando la sua propria miseria, sembra inaridire il suo slancio trionfatore per lodare il Signore.

Perciò egli non può impedirsi d’invitare i suoi figli a rallegrarsi, a proprio turno, davanti alla loro beata sorte. E’ una vera litania di “Rallegratevi” che a loro indirizza. Poi egli compara la loro situazione privilegiata, puro dono gratuito del Cielo, a quella di numerose anime di buona volontà che hanno tentato in tutte le maniere di raggiungere lo stesso “porto nascosto”, senza successo, poiché ciò non era stato loro accordato dall’alto (cf. 1.3).

Il modo in cui egli addestra i suoi benamati fratelli laici a riconoscersi come dei privilegiati del Padre dei Cieli è ancora più delicato e persuasivo. Per coloro “che non sanno né leggere né scrivere, il dito potente di Dio scrive nei loro cuori, non solo l’amore, ma anche la conoscenza della sua legge” (2.2). L’obbedienza autentica che essi praticano con una piena generosità costituisce il frutto di questa divina scrittura deposta sulla loro anima ed essa ne garantisce la verità. Come non si sentirebbero portati anche loro a rendere grazie all’autore di tali doni?

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Una constatazione s’impone davanti a queste reazioni di Bruno. Il suo cuore, che non cessa di volgersi verso Dio per ogni cosa, non sembra che pensare ai suoi fratelli. Il passaggio più impressionante della lettera, a questo riguardo, è la conclusione. Ci si aspetterebbe una sorta di esortazione all’interno della quale egli inviterebbe i suoi fratelli a volgersi verso Dio con più fervore. Niente di tutto questo. Bruno si accontenta di insistere con delicatezza, ma con forza, sulla carità che i fratelli della Certosa debbano manifestare, negli atti, al loro priore malato (cf.3.2-4).

Veramente il cuore di Bruno è tanto infiammato dell’amore di Dio quanto dell’amore per i suoi fratelli. Egli non si sente distratto da uno di questi amori a spese dell’altro. E’ chiaro che il primo e il secondo comandamento non sono che uno in Bruno.

E questo amore non è solamente un sentimento interiore: esso sente l’urgente bisogno di incarnarsi nel concreto della vita. Sia a livello della solitudine che a quello dell’obbedienza, egli riconduce i suoi fratelli all’essenziale della loro vita. E quando si tratta di manifestare amore a Landuino malato, i dettagli pratici non fanno difetto.

Bruno ha incontrato Dio una volta per tutte e la sua relazione d’amore con Lui s’incarna nel vissuto reale. Non si ha assolutamente l’impressione di un uomo che si dispera in un agire esteriore a se stesso. Egli dimora in una comunione d’amore con l’unica sorgente di tutto il bene, fino nei dettagli concreti.

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All’inizio di queste riflessioni ci domandavamo se la lettera di San Bruno ai suoi fratelli della Certosa, nella sua brevità, fosse sufficiente a trasmetterci il solo insegnamento esplicito che da lui potessimo avere. Ora cosa possiamo dire in proposito?

Questa lettera ci è indirizzata. Essa colloca davanti a noi una figura di monaco dai tratti possenti e dal cuore immenso. Egli è innamorato di Dio e dei suoi fratelli senza limite, al punto di dimenticarsi di sé stesso. Il suo amore per il Signore lo rinvia ai suoi fratelli. La sua tenerezza per i fratelli gli fa scoprire, in essi, un altro viso del Signore.

La sua via contemplativa – puramente contemplativa – non si sente appesantita dalla presenza viva e vivace dei suoi fratelli nel suo cuore. Egli non si accontenta di dire che gli è sufficiente amare Dio e che in Lui egli ama il mondo intero. I suoi fratelli sono degli esseri concreti che hanno un posto nella sua interiorità senza disturbare l’attenzione all’Altissimo. Al contrario, essi sono rivelatori del grande Amore di Dio per il solitario: tutta la sua vita contemplativa è fondata sull’armonia interiore ed esteriore, tra solitudine e vita fraterna.

In un secondo tempo, la stessa lettera ci manifesta la convinzione intimamente ancorata al cuore di Bruno: la via che egli ha tracciato nel cuore dei suoi fratelli associa in maniera radicale il dono puramente gratuito che il Signore loro elargisce di una vita di notevole pace, di silenzio e d’obbedienza e, nello stesso tempo, un’osservanza che deve essere austera, fedele, perseverante, stabile contro tutte le seduzioni esteriori.

Bruno non domanda niente di più ai suoi discepoli. Tutto il resto è questione di vocazione personale, chiamata a svilupparsi all’interno di un quadro saldo e ampio che egli stesso ha disegnato.

Senza dubbio la descrizione di questo quadro richiede un po’ di parole. Era necessario che Bruno ne dicesse di più? Non credo. Egli lascia a Dio la sua libertà e all’obbedienza il compito di far fronte alle necessità contingenti. Tutto il resto ci verrà da Bruno attraverso il canale segreto della sua santità.

Nostro Padre San Bruno, insegnaci nel segreto a rallegrarci sempre più della nostra beata sorte e dell’abbondanza dei benefici che Dio ci prodiga grazie a te. Amen.

6 ottobre 1983

Celebrando la Festività dell’Immacolata Concezione

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In questo giorno di festa, cari lettori, vi propongo un delizioso sermone di Dom Andrè Poisson. Egli lo lesse alla sua comunità l’8 dicembre del 1983

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Il rigore della clausura diventerebbe un’osservanza farisaica se non fosse il segno di questa purezza di cuore a chi solo è promesso di vedere Dio”. (SR6.4)

LA SOLITUDINE SECONDO BRUNO

Immacolata Concezione 1983

Maria immacolata, puro specchio dell’Altissimo, accoglienza perfettamente limpida del Verbo di Dio, permane per l’eternità il modello mai eguagliato di tutta la via contemplativa. In lei si adempie, per sempre, la beatitudine dei cuori puri e, di lei, i nostri Statuti dicono che è la sola fiamma segreta che dona senso alla nostra solitudine. In questa luce verginale della Madre di Dio io vorrei, ancora oggi, che ci mettessimo all’ascolto di San Bruno. Lasciamo che egli ci parli e che ci dica ciò che era per lui la solitudine, di cui lo Spirito Santo gli aveva insegnato la profondità.

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Innanzitutto, sottolineiamo che Bruno, nelle sue lettere, non sembra fermarsi per nulla alla solitudine materiale, anche se è evidente che essa costituisce le fondamenta di tutto ciò che scrive. Parlando a Raoul della vita che egli conduce in Calabria, si accontenta di dire: “Io abito in un deserto separato, in ogni suo lato, da tutte le abitazioni” , senza insistere di più sulla lontananza dal mondo.

Scrivendo ai suoi figli della Certosa, non gli viene in mente di affrontare il tema della solitudine del luogo della Certosa, tanto la cosa è chiara. Egli ci ha vissuto. Ha sperimentato il taglio radicale che vi si effettua nei confronti delle regioni abitate circostanti. Cosa potrebbe egli aggiungere che non conoscano e non vivano già i suoi fratelli? Forse vi è un richiamo discreto di tutto ciò, quando egli dice ai: “suoi figli amatissimi in Cristo… : Io ho imparato l’inflessibile rigore della vostra osservanza saggia e veramente degna di elogi”.

Ma alla fine sentiamo bene che il cuore di Bruno pensa ad altro e non a parlare della salvaguardia del deserto.

Per contro, noi lo sentiamo molto vicino al testo degli Statuti col quale abbiamo incominciato, quando prosegue nella medesima lettera: “Io ho sentito il nostro felicissimo fratello Landuino dirmi il vostro santo amore e il vostro zelo instancabile per la purezza del cuore e della virtù”.

Bruno è un maestro in materia di solitudine, ma la sua inclinazione è di scrutarne la dimensione spirituale, senza indugiare nell’osservanza esteriore che essa implica, con evidenza, ai suoi occhi.

Il primo sentimento che sgorga sotto la penna di Bruno è che la solitudine vera, la solitudine stabile e profonda è un dono totalmente gratuito di Dio: “Rallegratevi, miei cari fratelli, della vostra beata sorte e dell’abbondanza delle grazie che Dio vi ha prodigato… Rallegratevi di essere entrati in possesso del riposo e della sicurezza, avendo potuto gettare l’ancora nel porto più nascosto” . La solitudine è una grazia da ricevere con riconoscenza. Essa non è l’opera della nostra volontà, per perseverante che sia. Essa non è il frutto d’una tecnica umana. Come non avere desta attenzione per l’insistenza con la quale Bruno rammenta questa verità che noi corriamo il rischio di dimenticare in eterno? “Molti vorrebbero arrivarci; molti vi si sforzano senza mai riuscirci; molti infine, dopo esserci giunti, non vi sono ammessi, poiché ad ognuno di loro il cielo non l’ha accordato “.

E Bruno non esita a concludere: temiamo di “perdere questa beatitudine così desiderabile per una ragione o per l’altra” se non vogliamo “provare pena continua” . La solitudine, soprattutto la solitudine interiore, quella in cui si gioisce nella pace del riposo e della sicurezza, questa solitudine si può perdere. Che il Signore ci conservi un cuore riconoscente alla sua grazia.

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Fermiamoci su di un altro aspetto della vita solitaria, tale la si percepisce sotto la penna di Bruno. Essa è austera, aspra, esigente. Senza dubbio egli non ha sviluppi speciali consacrati a questo tema, ma lo si percepisce in filigrana lungo tutto il corso delle lettere. E’ una realtà normalissima agli occhi di Bruno e lui ne parla soprattutto a proposito delle conseguenze pratiche di questo “inflessibile rigore” dell’osservanza solitaria. Egli menziona a Raoul, per esempio, “le fatiche dello spirito troppo fragile” che gli sono imposte dal “rigore della disciplina regolare e dagli esercizi spirituali “ .

Più significativo ancora è il piccolo incidente sopravvenuto nella comunità della Certosa, il quale obbliga Bruno ad aprire gli occhi dei monaci sul loro dovere di fronte alla santità vacillante del loro padre e priore. Certo, essi lo amano molto profondamente, ma per fedeltà al rigore della loro vita essi non osano intervenire e procurargli addolcimento, di cui è tuttavia evidente che egli abbisogna.

Da parte sua, Landuino, temendo di correre il rischio d’incitare al rilassamento l’uno o l’altro dei suoi fratelli, forse “preferisce mettere la sua vita in pericolo piuttosto che mancare in qualche cosa al rigore dell’osservanza”.

Di fronte a questo eccesso, Bruno reagisce con prontezza. “Ciò è inaccettabile!”, poiché è sicuro che non vi è alcuna possibilità di trascuratezza fra i compagni di Landuino.

Eccoci dunque immersi in un mondo monastico in cui è di rigore una grande austerità. Bruno, tuttavia, non teme di dire che essa è “saggia e degna di elogi”. E la migliore prova è l’atmosfera di gioia che essa irradia. Bisognerebbe moltiplicare le citazioni che fanno percepire la gioia permanente di Bruno, quella alla quale egli invita i suoi fratelli, quella che egli promette a Raoul se, a suo turno, verrà nel deserto. Poiché si tratta veramente di una grazia del cielo che fiorisce in solitudine: “Qui, in premio dello sforzo del combattimento, Dio dona ai suoi valorosi la ricompensa attesa: la pace che il mondo ignora e la gioia nello Spirito Santo” .

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Diciamo una parola, infine, della straordinaria tenerezza che irradia dalle parole di Bruno, poiché si tratta della sua propria confessione, di una dimensione essenziale della vita solitaria, tale egli la vive e tale egli la desidera condividere con coloro che ama. Tenerezza per Dio, ma ugualmente tenerezza per gli uomini. Cominciamo da quest’ultima.

L’abbiamo già notato: nulla ci porta a credere che per Bruno la solitudine sia un rifiuto degli altri, un muro alzato tra lui e i suoi fratelli. Al contrario, lo si sente attento a tutte le dimensioni di un’autentica carità. La sola parola un po’ dura riguarda i “laici oziosi e girovaghi “ che, in prossimità della Certosa, rischierebbero di contaminare i fratelli conversi se essi non “li fuggissero come la peste”.

Per esser brevi, fermiamoci ad un solo passaggio poiché è senza dubbio il più significativo: quello in cui Bruno domanda ai suoi fratelli della Certosa di meglio vigilare sulla santità di Landuino. In termini appena velati, Bruno fa sentire loro che essi sono prigionieri di un’osservanza troppo materiale, così come il loro priore senza dubbio. E tuttavia che testimonianza di tenerezza fraterna Bruno offre agli uni e agli altri!: “Ho voluto custodire vicino a me il fratello Landuino a causa delle sue gravi e numerose malattie. Ma per lui è fuori questione di ritrovare lontano da voi la santità, la gioia, la vita, né altro che valga ed ha opposto un rifiuto. Le sue lacrime abbondanti per voi, i suoi sospiri ripetuti testimoniano apertamente quanto voi contate per lui e di quale amore senza macchia egli vi ami tutti. Io, pure, non ho voluto forzarlo al fine di non ferire alcuno: né lui, né voi che mi siete così cari in ragione delle vostre virtù”.

Il cuore di Bruno si lascia vincere senza resistenza dall’amore di Landuino per i suoi fratelli. Non è indifferente, in effetti, al priore della Certosa di essere in cella a mille miglia dai suoi fratelli o vicinissimo a loro. La sua solitudine, per essere autentica, deve essere una comunione d’amore vissuta ogni giorno con loro, in mezzo a loro.

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La tenerezza divina che dischiude nel cuore di Bruno la vita nel deserto, si trova soprattutto cantata in ciò che io chiamavo l’Inno alla solitudine (A Raoul, 6 e 7). Al di fuori di tutte le teorie, Bruno lascia semplicemente parlare l’esperienza che sta vivendo. Si esita a cominciare o a parafrasare questo racconto dell’incontro segreto tra Dio e il nostro beato Padre. Non sarebbe meglio dire che noi dobbiamo soprattutto sforzarci di seguirlo? Noi siamo veramente vicino alla sorgente nascosta che scaturisce dal fondo del deserto. Che noi sappiamo percorrere tutte le tappe necessarie per giungervi e attingervi sull’esempio di Bruno. Egli ci ha confidato il suo segreto. Egli ci dice, così, che cosa sia la solitudine per lui. Egli non la vede come un luogo di orrore e di spoliazione inumano, ma gli dona i tratti di queste donne della Bibbia, di cui la tenerezza misteriosa e nascosta gli è sembrata più significativa. La solitudine è la bella Rachele poco feconda, è la bella Sunammita che deve infuocare il nostro cuore, è la migliore parte attribuita da Gesù a Maria di Betania.

Che la Vergine Immacolata ci aiuti a scoprire questa solitudine, luogo d’incontro con Dio. Maria, madre di Gesù: non è lei, più di chiunque altro, questa solitudine benedetta e piena di grazia dello Spirito Santo?

Amen