Un’altra esaustiva risposta di San Bruno, in questo immaginario dialogo.
SB – «Essere ostie vive per Dio, sante e gradite», come chiede san Paolo ai cristiani in Rm 12,1, che è il testo evocato dagli Statuti, non è nulla di nuovo né di straordinario; È un’esigenza della vocazione cristiana. Non stupitevi, quindi, che, essendo chiamato e volendo vivere questa vocazione autenticamente, nello Spirito, attraverso gli Statuti, io ti ricordi questa esigenza o questo “dovere”, secondo quanto gli stessi Statuti ti dicono.
Compiere, o meglio, vivere giorno per giorno questo “ufficio”: questo è ciò che oggi ti piace chiamare “l’aspetto o il carattere martiriale della vita religiosa”.
Gli Statuti richiamano esplicitamente la tua attenzione sul fatto che non puoi vivere questo “aspetto o carattere martiriale” separatamente da Cristo, perché Egli è stato “vittima viva, santa e gradita a Dio” poiché il suo “ecco, io vengo, oh Padre, a fa’ la tua volontà” (Eb 10,7) – progetto di salvezza dell’umanità –, finché “tutto sia compiuto” (Gv 19,30) – compimento del piano – Tutta l’esistenza di Gesù è stata “croce e martirio”.
Concretamente, e tu lo sai bene quanto me, è stato un morire un po’ ogni giorno, un perdere la vita nel corso di trent’anni, un donare vita senza sosta, come espressione visibile del suo amore per Dio e uomini.
E tu sai che il desiderio supremo era questo: “Che abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). Il suggello di questo desiderio e il pagamento di questa vita abbondante sono stati la sua sofferenza e il suo sacrificio.
Ma nota questo: la sua sofferenza era solidale, cioè a favore degli altri. Con questo Gesù ci ha lasciato la migliore dimostrazione di come ogni sofferenza possa convertirsi – come è successo a Lui – in valore e fonte di vita.
Questa è, direi, la “peculiarità” e l’esemplarità della testimonianza martiriale di Gesù durante la sua vita, che, nella morte, raggiunge l’altezza del suo vero amore, sia come “fonte di vita” che come “esempio” (1 Pt 2,21) e anche come “aiuto” (Eb 2,18).
Il suo martirio costò molto a Gesù; e, da allora in poi, ogni martirio, cruento o incruento, sarà costoso e doloroso per i suoi discepoli. Non è conveniente nascondere questa realtà. Al contrario, è necessario accoglierlo con lucidità, con umiltà evangelica, senza pretendere o rivendicare un “eroismo” che non ci appartiene. Con la convinzione che una legione di cristiani soffre il suo “martirio” nel mondo e dona la propria vita a Dio per la salvezza dell’umanità, nella fedeltà dell’amore al loro Signore Gesù Cristo.
Ti voglio, quindi, non un “eroe”, ma un martire. “Eroe” è qualcuno che compie azioni portentose, forse sovrumane, e che, attraverso questo percorso, entra nella sfera dell’irrealizzabile e irraggiungibile per la gente comune. Martire, al contrario, è il cristiano che, spinto dal suo amore per Dio, dà ragione della sua fede, del suo amore, della sua vita in Dio, costi quel che costi.
La figura dell'”eroe” può essere manipolata; in effetti, questo è ciò che è stato fatto con la vita di alcuni dei primi monaci del deserto, che furono trasformati in “eroi della penitenza”, anche se non era mai venuto loro in mente di pensare a un simile “eroismo”. Il vero martire fugge da tale manipolazione e non farà mai nulla per adorare la propria personalità. Lui stesso ignora il suo martirio. A lui interessa solo Dio, gli interessa solo comunicare la salvezza di Dio e non gli importa nulla del giudizio umano.
Perciò, figlio, consacrandoti a Dio sarai, oggi come ieri, parte di quell’esercito di martiri sconosciuti, testimoni di un amore sempre più grande: «Nessuno ha un amore più grande di colui che offre la vita per i suoi amici» (Gv 15, 13).
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