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“Piena di grazia”

Maria e certosini

Cari amici lettori ecco per voi un testo estratto da “Contemplations Mariales” di Dom Augustin Guillerand. Leggiamo e meditiamo sulle considerazioni di questo immenso autore certosino.

“Piena di grazia”

Tutto ciò che i più grandi teologi nei loro trattati, i pensatori cristiani nelle loro più alte speculazioni, gli stessi santi nelle intuizioni della loro pietà hanno potuto dire, pensare, intravedere la grandezza della Vergine, l’Angelo lo ha ottimamente espresso nella prima parole del suo saluto. Difficilmente potrebbe essere altrimenti. Egli è il messaggero del Dio Altissimo, parla in suo nome, trasmette il suo messaggio, dice quello che direbbe Dio se intervenisse di persona; le sue parole devono quindi avere una pienezza di significato e di espressione che non può essere superata. Ed ecco perché, è ancora meditando su queste parole così semplici, così spesso ripetute, che possiamo farci un’idea più precisa di questa grandezza.L’Angelo scopre e saluta in Maria una doppia grandezza: la sua grandezza davanti a Dio e la sua grandezza davanti agli uomini. La sua grandezza davanti a Dio è la sua grazia, ciò che in Lei c’è di veramente divino, questa vita superiore, soprannaturale, la vita stessa di Dio comunicata. Ogni grandezza naturale, paragonata a questa, non vale nulla; è come il fiore più bello che sboccia davanti a un bambino, non li paragoniamo, è di un altro ordine.In questa vita soprannaturale di grazia con la quale Dio si dona a noi, distinguiamo due realtà: una quindi creata e una dono increato. Infatti, queste due realtà sono legate, ordinate l’una all’altra, fuse… Le distinguiamo solo per studiarle meglio.Il dono creato ci rende partecipi della vita di Dio. Conoscete le due definizioni di Dio date da san Giovanni: “Dio è Luce” (I Giovanni I, 5) e, poi, “Dio è Amore” (Ibid. IV, 16). La Grazia è uno sfogo nell’anima di questa Luce e di questo Amore. Così come Dio illumina eternamente il suo essere per vederlo, per conoscere la ricchezza sconfinata; come, in questo essere come in un grembo, genera una chiarezza, uno splendore, un raggio che lo mostra, così, nell’anima in grazia, produce come uno splendore divino, splendore della sua Luce eterna che fa anima “figlia della Luce”. In questa chiarezza, l’anima lo conosce con una conoscenza nuova, superiore, che la sua natura non può neppure sospettare… Ecco ciò che, con il suo sguardo tutto puro e celestiale, l’Angelo scopre in Maria, ecco ciò che saluta: “ Ti saluto, piena di grazia. » La vede tutta ricolma, inondata di questa chiarezza, come immersa in questo splendore, tutta presa e trasportata da questo Soffio d’Amore. Là «Dio è luce e non ci sono tenebre in Lui» (1 Gv 15). Le parole sono vere della Vergine: in Lei il vaso è limitato, lo specchio ha limiti, la differenza c’è, è infinito, ma è infatti la stessa Luce, e la riproduce senza nuvola, senza ombra; è lo stesso Amore che anima senza contrarietà né resistenze, ma non è tutto, è solo il dono creato, la partecipazione finita alla Luce e all’amore infinito. Dio non si accontenta di versare nell’anima in grazia una parte di Lui, una comunicazione del movimento che è la sua vita; Lui stesso ha detto in persona: “Se qualcuno mi ama”, ha detto Gesù, “il Padre mio lo amerà e noi entreremo in lui e prenderemo dimora in lui. » (Giovanni XIV, 23). «Dio è amore», dice san Giovanni; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui” (1 Giovanni IV, 16). Questo, sapete, è il tema essenziale dell’ultimo discorso di Gesù, il discorso dopo l’Ultima Cena e la preghiera da lui terminata. Questo è ciò che Egli vuole che ricordiamo del suo tempo tra noi e del suo insegnamento: Dio non ci offre solo qualcosa di Se stesso, offre Se stesso. Viene Lui stesso; Lui stesso è presente; le tre Persone sono lì e si donano nell’anima e si donano all’anima come si donano in Dio: questo vede e saluta l’Angelo in Maria. Non vede solo lo splendore di Dio, vede Colui che irradia e riempie quest’anima con la Luce del suo Amore. E per questo aggiunge: «Il Signore è con voi.» Donandosi, Dio dona se stesso. È una legge, possiamo addirittura dire che è la legge per eccellenza, la legge che governa il mondo creato come il mondo divino. Dio risplende nella Vergine affinché lei stessa risplenda Dio nel mondo. Ella deve ospitare il riflettore di Luce divina, i raggi divini devono assumere nel loro splendore misurato, proporzionato alla nostra debolezza e, come è tutta rivolta verso di Lui per accoglierlo in pienezza, così le anime devono volgersi verso di Lei per riceverlo, in pienezza , vedere in lei e riceverlo da lei.

Amore per amore

Margherita d' Oyngt (Calci)

Ecco per voi un testo della autrice certosina Margherita d’Oyngt. Leggiamo e meditiamo su queste deliziose parole.

Signore, dolce mio Gesù, che devo fare, giacché mi circondano i flutti della morte e mi atterriscono i tuoi giudizi? Il tempo è infatti cosi incerto, che oggi ci sono e domani non so se vivrò ancora, e nessuno è sicuro della sua salvezza. Non so neppure se tu mi ami o no so soltanto, o dolce Signore, che le tue parole sono fedeli e veraci, poiché tu affermi di amare coloro che ti amano. Perciò metterò in atto tutto quello che ritengo possa muovermi ad amarti. Mio dolce Signore, mi pare che la natura spinga l’uomo ad amare i genitori, i fratelli, le sorelle, gli amici, lo sposo e chi gli fa del bene, ma, dolce Creatore, se lo amo mio padre che è un semplice mortale, molto più devo, senza alcun confronto, amare te che sei mio Padre nello spirito e la mia vita in eterno. Io però non son degna di essere chiamata tua figlia, perché ho peccato davanti a te e agli angeli tuoi; tuttavia, siccome so che non vuoi la morte del peccatore, ma che si converta e viva, mi rivolgo a te, come una creatura che non ha né padre, né amico fuori dite. Signore Dio mio, Signore mio caro, non offenderti se ti chiamo Padre, poiché tu mi creasti dal nulla, donandomi l’anima e il corpo, e nella tua bontà mi facesti a tua immagine e somiglianza.

Ah! Signore, ora vedo che non v’è nessuna cosa tanto preziosa e di tanto valore quanto l’anima dell’uomo e della donna poiché tu, la vera Sapienza, in cui risiede la pienezza di ogni scienza e della cui ricchezza è piena la città celeste, conoscendo quanto fosse grande la dignità delle anime create a tua immagine e somiglianza, hai voluto farti negoziatore per comprarle a un cosi caro prezzo, che non è possibile né esprimere né immaginare. Non ti è bastato discendere dal cielo sulla terra e sopportare tanti dolori e obbrobri, ma hai, per di più, voluto effondere tutto il tuo prezioso sangue, per l’immenso amore che avevi per noi.

Allorché considero i tuoi benefici che sono tali e tanti e cosi pieni di amore, penso che se il peggior uomo del mondo vi riflettesse e meditasse, si convertirebbe subito a te. Io invece, misera e afflitta, non so amare te che mi hai nutrita e protetta fin dalla mia nascita. Dolce Signore, non so che altro fare, se non ripensare alle grazie e ai benefici di cui mi hai ricolmata. Concedimi, glorioso Gesù, la grazia di saperli comprendere e meditare in modo tale da acquistare il tuo santo amore.

(Pagina meditationum, Œuvres, pp. 4-5. 11-12. 7-8)

Dialogo con san Bruno 37

6 dialogo

Un’altra esaustiva risposta di San Bruno, in questo immaginario dialogo.

SB – «Essere ostie vive per Dio, sante e gradite», come chiede san Paolo ai cristiani in Rm 12,1, che è il testo evocato dagli Statuti, non è nulla di nuovo né di straordinario; È un’esigenza della vocazione cristiana. Non stupitevi, quindi, che, essendo chiamato e volendo vivere questa vocazione autenticamente, nello Spirito, attraverso gli Statuti, io ti ricordi questa esigenza o questo “dovere”, secondo quanto gli stessi Statuti ti dicono.

Compiere, o meglio, vivere giorno per giorno questo “ufficio”: questo è ciò che oggi ti piace chiamare “l’aspetto o il carattere martiriale della vita religiosa”.

Gli Statuti richiamano esplicitamente la tua attenzione sul fatto che non puoi vivere questo “aspetto o carattere martiriale” separatamente da Cristo, perché Egli è stato “vittima viva, santa e gradita a Dio” poiché il suo “ecco, io vengo, oh Padre, a fa’ la tua volontà” (Eb 10,7) – progetto di salvezza dell’umanità –, finché “tutto sia compiuto” (Gv 19,30) – compimento del piano – Tutta l’esistenza di Gesù è stata “croce e martirio”.

Concretamente, e tu lo sai bene quanto me, è stato un morire un po’ ogni giorno, un perdere la vita nel corso di trent’anni, un donare vita senza sosta, come espressione visibile del suo amore per Dio e uomini.

E tu sai che il desiderio supremo era questo: “Che abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). Il suggello di questo desiderio e il pagamento di questa vita abbondante sono stati la sua sofferenza e il suo sacrificio.

Ma nota questo: la sua sofferenza era solidale, cioè a favore degli altri. Con questo Gesù ci ha lasciato la migliore dimostrazione di come ogni sofferenza possa convertirsi – come è successo a Lui – in valore e fonte di vita.

Questa è, direi, la “peculiarità” e l’esemplarità della testimonianza martiriale di Gesù durante la sua vita, che, nella morte, raggiunge l’altezza del suo vero amore, sia come “fonte di vita” che come “esempio” (1 Pt 2,21) e anche come “aiuto” (Eb 2,18).

Il suo martirio costò molto a Gesù; e, da allora in poi, ogni martirio, cruento o incruento, sarà costoso e doloroso per i suoi discepoli. Non è conveniente nascondere questa realtà. Al contrario, è necessario accoglierlo con lucidità, con umiltà evangelica, senza pretendere o rivendicare un “eroismo” che non ci appartiene. Con la convinzione che una legione di cristiani soffre il suo “martirio” nel mondo e dona la propria vita a Dio per la salvezza dell’umanità, nella fedeltà dell’amore al loro Signore Gesù Cristo.

Ti voglio, quindi, non un “eroe”, ma un martire. “Eroe” è qualcuno che compie azioni portentose, forse sovrumane, e che, attraverso questo percorso, entra nella sfera dell’irrealizzabile e irraggiungibile per la gente comune. Martire, al contrario, è il cristiano che, spinto dal suo amore per Dio, dà ragione della sua fede, del suo amore, della sua vita in Dio, costi quel che costi.

La figura dell'”eroe” può essere manipolata; in effetti, questo è ciò che è stato fatto con la vita di alcuni dei primi monaci del deserto, che furono trasformati in “eroi della penitenza”, anche se non era mai venuto loro in mente di pensare a un simile “eroismo”. Il vero martire fugge da tale manipolazione e non farà mai nulla per adorare la propria personalità. Lui stesso ignora il suo martirio. A lui interessa solo Dio, gli interessa solo comunicare la salvezza di Dio e non gli importa nulla del giudizio umano.

Perciò, figlio, consacrandoti a Dio sarai, oggi come ieri, parte di quell’esercito di martiri sconosciuti, testimoni di un amore sempre più grande: «Nessuno ha un amore più grande di colui che offre la vita per i suoi amici» (Gv 15, 13).

Le sofferenze di Cristo come antidoto all’avversione

nella cella

Ecco per voi uno splendido testo di Adamo Scoto estratto dal suo “Libro sul quadruplice esercizio della cella” e rivolto ai suoi confratelli, ma sul quale vi invito a meditare.

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Quando sei solo in cella, sei spesso preso da un certo disincanto, un rallentamento della mente, una riluttanza del cuore. Senti in te una certa, e molto severa, stanchezza; sei un peso per te stesso; quel conforto interiore di cui eri così felicemente abituato a godere ora manca. La dolcezza che avevi ieri e l’altro ieri si è ora trasformata in grande amarezza. Quel flusso di lacrime completamente prosciugato, da cui eri abituato a essere cosparso così abbondantemente. La forza vitale spirituale è scomparsa in te, la bellezza è perita. Porti con te un’anima lacerata e frantumata, un’anima confusa e squarciata, un’anima triste e amara, e non trovi dove posarla per riposare. Neanche a te piace la lettura; la preghiera non reca dolcezza; non troverete più le solite piogge di contemplazione spirituale.

Ma alzati, liberati dalla polvere, sciogli i ceppi del tuo collo! Consideriamo colui il cui fianco è stato ferito dalla lancia del soldato; che ha versato il sangue per la nostra redenzione e l’acqua per il nostro lavacro spirituale. Tolto dalla croce, fu sepolto, depredò il mondo sotterraneo, lo pugnalò, uccise la morte, fu risuscitato, apparve, mangiò con i discepoli, ascese dove era prima. Certo, non è partito da lì quando è venuto qui, né ha lasciato questo luogo quando è tornato lì. In questo modo dovresti guardarlo e quindi avere gli occhi nella tua testa. Se consideri costantemente questa e altre cose che in questo modo si riferiscono a Lui con la necessaria devozione e la corrispondente preoccupazione in te stesso, sì in te.

Distacco, fonte di serenità

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In questo testo Dom Augustin Guillerand, afferma che ci si avvicina alla serenità, come deve fare ogni asceta, parlandoci di distacco. Leggiamo e meditiamo!

Distacco

Il distacco è l’unico segreto della serenità vera e duratura. Risiedono nel distacco dalle realtà e dagli eventi effimeri che costituiscono il tessuto superficiale della nostra vita. Tutta questa superficie ci lascia vuoti e delusi quando non ci fa male. Abbiamo bisogno d’altro e istintivamente andiamo all’unica realtà duratura quaggiù che è il profondo della nostra anima. Portiamo dentro di noi, infatti, un germe primitivo da cui ha origine tutto il nostro essere e tutti i suoi sviluppi. Questo piccolo seme, alla sua radice iniziale, non cambia. È Lei che garantisce la sostenibilità del nostro essere attraverso il cambiamento incessante di ogni giorno e di ogni ora. È il dono continuo che Colui che è ci fa di Sé. Partecipa alla sua Immensità e alla sua Immutabilità. Quando ci distacchiamo da tutto ciò che passa e scendiamo in queste profondità, ci sentiamo fuori dall’effimero e dal nulla, e gustiamo una pace che è la Sua pace: “Vi do la mia pace”.

Ora Gesù ci ha insegnato che questo luogo intimo è il regno del Padre, che chi vi regna non è solo l’Essere che è ma l’Amore che si dona. È il suo luogo, il seno del Padre, “in sinu Patris”. È lì che ci chiama: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati, e io vi darò sollievo”. Ti farò di nuovo. Lì, infatti, avviene una creazione continua. (…)

Troppo spesso immaginiamo che il distacco cristiano consista nel non amare nulla. Ciò è terribilmente impreciso. Non c’è mai stato un cuore più amorevole di quello di Gesù; e i nostri cuori devono essere modellati sul suo. Amare è il grande, e anche l’unico, comandamento. (…) Ma l’amore deve immolare tutto ciò che gli impedisce di donarsi. Questa immolazione è distacco. Il distacco è quindi il lato negativo dell’attaccamento o dell’amore. »

( Scritti spirituali, volume 2, pagina 209s)

Pasqua 2024

Pasqua 2024

Nell’augurarvi una serena e gioiosa Pasqua, piena di luce e speranza, voglio offrirvi un testo concepito dal certosino Dom Tarcisio Geijer, egli ci parla di un dono.

Leggiamo e meditiamo!

Un dono necessario

Carissimi fedeli, prima di allontanarsi con la sua umanità gloriosa dalla terra, Gesù assicura la continuità della presenza divina fra gli uomini promettendo l’effusione dello Spirito Santo. Ai suoi che rimangono lascia come eredità preziosa il Paraclito – cioè: l’avvocato e il consolatore – il quale altro non è che l’amore di Dio in persona. Lo Spirito di Dio ci appartiene, e prende possesso di noi, nella misura in cui noi vogliamo appartenere a Cristo. L’azione dello Spirito conduce per gradi l’uomo a una somiglianza effettiva col Cristo e garantisce la natura umana dall’oscuro passaggio della morte, poiché “renderà la vita anche ai nostri corpi mortali” nella risurrezione finale, della quale la risurrezione del Salvatore è fondamento, preludio e anticipo. La vita del cristiano ha da essere, essenzialmente, una vita di fede, ossia di serena accettazione dell’esistenza, della presenza e dell’azione che lo Spirito Santo, procedente dal Padre e dal Figlio e costituente con loro un’unica Divinità nella Trinità delle Persone, viene disgelando e svolgendo nelle singole anime e in tutta la Chiesa. Dove un uomo crede, ivi lo Spirito agisce; dove uno soffre per amore, ivi è lo Spirito; dove uno ama secondo la legge della carità, lo Spirito ama in lui. Lo Spirito effettua per conto di Dio la lotta incessante del bene contro il male; per le vittorie ch’egli ottiene, il maligno, “principe di questo mondo, è già condannato”. Per subire con docilità l’influenza dello Spirito e tradurla nella pratica caritativa, il cristiano deve chiedere allo Spirito lasciatoci da Gesù come Consolatore, avvocato e custode, la grazia di non farsi coinvolgere nelle vicende di questo mondo sino a dimenticare che lui – redento dal Cristo – è più grande, più nobile e forte del mondo. Deve chiedere ogni giorno di sentirsi su questa terra come straniero e pellegrino. Lasciati in eredità dal Cristo allo Spirito di Dio, noi abbiamo a nostra volta ereditato da Gesù lo Spirito; egli è nostro nella misura con cui noi vogliamo appartenere a Cristo.

E come di consueto vi inoltro gli auguri della comunità certosina di Serra San Bruno.

Domenica delle Palme e Ludolfo

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Cari amici, eccoci giunti alla Domenica delle Palme, per celebrarla con voi, ho anticipato il capitolo del Dialogo con San Bruno, ed ho scelto per oggi un testo di Dom Ludolfo di Sassonia. Trattasi di un’estratto dalla celebre “Vita Christi”

Cristo, abbandonato dai suoi discepoli, prega da solo.

Si gettò a faccia in giù perché la postura del corpo esprimesse l’umiltà dello spirito, e pregava nel suo cuore, parlando con la sua bocca: Padre mio, se è possibile e compatibile con la salvezza degli uomini, se la morte muore senza morire nella carne, da me passa questo calice, cioè l’esperienza della sofferenza (Mt 26,39). Come se volesse dire: se è possibile salvare il genere umano senza la mia morte terrena, mi passi accanto il calice dell’amara sofferenza. Ha offerto il suo spirito a Dio Padre in una preghiera che sembra perfetta per diversi motivi:

Primo, perché pregava da solo; Perché la preghiera è elevazione dello spirito a Dio, perciò è meglio che l’uomo rimanga separato dagli altri quando prega;
secondo, perché la preghiera era umile mentre si gettava con la faccia a terra;
terzo, perché era pieno di devozione, poiché si rifugiò in Dio Padre;
quarto, perché era giusto che sottomettesse la sua volontà alla volontà divina,
e quinto, perché era una preghiera amorosa, poiché nel mezzo cercava gentilmente i discepoli.

E Gesù disse: Abba, padre, ha fatto conoscere e ha fatto conoscere che Dio è padre e redentore di entrambi i popoli. Abba infatti significa lo stesso di Pater, padre, ma Abba è ebraico, Pater è greco e latino. Quindi fu il primo a rivolgersi al Padre in entrambi i modi, per insegnare che entrambe le nazioni crederanno in lui e che dovrebbe essere invocato da entrambe le nazioni, poiché non c’è differenza tra ebrei e greci (Romani 10:12). Ma quando ha detto: Se è possibile, ciò si riferisce allo stesso tempo alla potenza e alla giustizia di Dio, perché Dio non è solo potente, ma anche giusto, e quindi solo ciò che è giusto è possibile. Da vero uomo temeva la morte, e secondo i suoi sentimenti non voleva morire se la giustizia avesse potuto farlo. La giustizia del Padre, invece, ha voluto che Cristo soffrisse, e questa sofferenza è stata il sacramento della nostra salvezza provveduto dal Padre fin dalla fondazione del mondo. In se stesso Cristo era riluttante a temere la morte ea sopportare la sofferenza, e sebbene desiderasse la fine per se stesso, per dirla chiaramente, non voleva soffrire; ma per obbedienza al Padre e per la salvezza degli uomini, ha accettato volentieri la sofferenza e la morte, come un malato prende volentieri una medicina amara, non per la medicina, ma per la guarigione.

Questa volontà di vivere è ciò che rende famosi i martiri. Perché la mente carnale vuole solo ciò che le piace; ma se ai martiri piacesse morire, allora la loro morte non sarebbe di alcun merito. Ma poiché sottomettono la loro volontà di non morire a Dio, e vogliono per Dio ciò che è loro natura per evitare di morire, guadagnano merito. Per questo Cristo ha poi detto: Non come voglio io, secondo il mio sentimento umano, ma come vuoi tu (Mt 26,39). Per ciò che aveva rifiutato per debolezza e paura umana, lo prese su di sé con obbedienza e forza d’animo. Non quello che succede, disse, quello che dico secondo i sentimenti umani, ma quello per cui sono stato mandato e sono sceso sulla terra secondo la tua volontà. Altrove dice: Io sono, quando ho preso per un certo tempo la carne della Vergine, non sono sceso dal cielo per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6,38), che è la volontà che condivido con il Padre per sempre e approvo sempre nella mia anima. Non la mia volontà, non la mia come quella del Figlio dell’uomo, non la mia che si oppone a Dio. In ogni caso, la volontà di Cristo non si opponeva alla volontà del Padre; perché colui che è venuto a insegnare l’obbedienza non sarebbe stato trovato obbediente se avesse seguito la propria volontà. Quanto più, dunque, saremo ritenuti disobbedienti quando faremo la nostra volontà! che ho in comune con il Padre per sempre e sempre approvo nella mia anima. Non la mia volontà, non la mia come quella del Figlio dell’uomo, non la mia che si oppone a Dio. In ogni caso, la volontà di Cristo non si opponeva alla volontà del Padre; perché colui che è venuto a insegnare l’obbedienza non sarebbe stato trovato obbediente se avesse seguito la propria volontà. Quanto più, dunque, saremo ritenuti disobbedienti quando faremo la nostra volontà! che ho in comune con il Padre per sempre e sempre approvo nella mia anima. Non la mia volontà, non la mia come quella del Figlio dell’uomo, non la mia che si oppone a Dio. In ogni caso, la volontà di Cristo non si opponeva alla volontà del Padre; perché colui che è venuto a insegnare l’obbedienza non sarebbe stato trovato obbediente se avesse seguito la propria volontà. Quanto più, dunque, saremo ritenuti disobbedienti quando faremo la nostra volontà! se ha seguito la propria volontà. 

Dialogo con San Bruno 36

6 dialogo

Continua in questo nuovo capitolo l’edificante dialogo con San Bruno. 

CG – Grazie, Padre, per la tua lezione. Sento solo la povertà e la debolezza della mia argilla.

SB – È positivo che tu riconosca la fragilità della tua argilla. Ma per favore, non soffermarti sulla tua povertà o sulla tua argilla. La “tua argilla” era Dio, il “divino Vasaio” che l’ha creata e tutto ciò che Dio fa ha valore. Lui sa, meglio di te, quanto vale la tua argilla; non disprezzare questo argilla, perché è qualcosa di divino.

Al contrario, come “argilla” che sei, mettiti nelle Sue mani affinché Lui possa trasformare quella“argilla” nell’oggetto che vuole realizzare. Chiede solo che la tua argilla sia duttile, modellabile e permetta di lavorare. E che tutta la tua argilla passi per le sue mani da “Artista”. E che tu sia una “argilla silenziosa”, sia cioè un’argilla che si lascia manipolare, spostare da un luogo all’altro dal Vasaio senza protestare, senza ostacolare la sua azione, senza interrogarsi sull’opera che sta modellando, senza rimpianti del continuo fare e rifare del tuo Vasaio. E, in ogni caso, non essere così stolto da dirgli: “Perché mi fai questo?” Perché non mi dai un’altra strada? Perché non mi usi meglio?”

Ringrazia dunque quando senti la debolezza della tua argilla; Ma abbi fiducia nel tuo Vasaio, che dona alla sua opera, alla tua argilla, sufficiente consistenza e qualità; Qualunque cosa tu sia, sei la sua argilla «e sono state le Sue mani che ti hanno formato e plasmato».

Sii “un’umile argilla che i Suoi pollici possono modellare”; gli stessi pollici che hanno fatto gli angeli e fanno i fiori che nessuno contempla, i fiumi e i venti, gli uccelli e le onde, la vita e l’amore. Quali mani migliori di queste potrebbero plasmarti? Abbandonati, dunque, nelle sue mani e in esse la tua argilla sarà forte come il marmo. Sarà un lavoro meraviglioso, realizzato dal migliore degli artisti!

CG – Gli Statuti ci dicono chiaramente che dobbiamo essere “vittime vive, gradite a Dio” nella Chiesa, uniti a Cristo. Vorrei, Padre, che mi aiutassi un po’ a comprendere questo aspetto o chiamata o ufficio che mi spetta nel Popolo di Dio, in virtù della mia stessa consacrazione.

SB – Prima parlavamo dell’amore come la via migliore per la realizzazione certosina. Ora mi chiedi aiuto per realizzare questa vittimizzazione con Cristo, che lo Spirito ti chiede come conseguenza della tua vocazione. E dove, se non attraverso il cammino dell’amore e con tanto amore, puoi compiere, puoi vivere questa immolazione con Cristo?

Dialogo con San Bruno 35

6 dialogo

In questo capitolo San Bruno spiega come bisogna amare.

CG – E cosa dici degli altri amori che Dio ci dice di avere?

SB – Meglio, si potrebbe dire, degli altri esseri che Dio ci dice di amare. Tutti sono inclusi, assorbiti, identificati con questo amore supremo del Creatore. E quanto più cresce in noi l’amore di Dio, tanto più aumenta il nostro amore per le creature che Lui ci dice di amare, per il Suo amore. Ci manda a estendere il Suo amore a tutto ciò che ha creato e che ama con lo stesso amore con cui ama se stesso.

CG – Con questo vuoi dirmi che amare è il mio lavoro…

SB – E’ così. E nel fedele adempimento dell’“ufficio divino” diventi utile, fecondo ed efficace per tutti i figli di Dio, per la Chiesa, per tutta l’umanità e per il mondo intero. Se ti interessi di loro e intercedi per loro, questo non è qualcosa che ha origine in te, ma nell’Amore che vive in te, ti chiama e ti associa alla sua Opera d’amore, alle “opere d’amore”, a favore della creazione. Perché amare è vivere con Dio e per Dio; e in Dio troviamo, presenti, tutti coloro che amiamo per Lui e che, per amore suo, aspettano il nostro affetto, la nostra tenerezza, il nostro servizio, la nostra attenzione fraterna, la nostra preghiera.

E non può essere altrimenti, dal momento che, come dicevo prima, ti ritrovi unito a Dio e al cuore della Chiesa, e al tuo “ufficio” di amare…

Perciò sono d’accordo che ti piaccia tanto quella famosa frase di Giovanni della Croce: «Un po’ di questo amore puro è più prezioso davanti a Dio e all’anima ed è più utile alla Chiesa di tutte le opere messe insieme. Per questo Maria Maddalena si nascose per trent’anni nel deserto, per donarsi veramente a questo amore» (Cantico B.28.2-3).

Ma, come ci ha detto uno scrittore moderno: «Il grande dramma della specie umana consiste nel non comprendere l’amore e nel porgli dei limiti che esistono solo nel suo stesso cuore» (André Frossard).

Quindi quel monaco non esagerava quando diceva: «Il mondo sopravvive grazie alle preghiere dei monaci. Quando questa preghiera d’amore si indebolirà, il mondo perirà» (Silouane).

Perciò, figlio, più sei unito a Gesù, alla preghiera di Gesù, più ti identifichi con l’amore di Gesù, più sarai nel cuore del Padre, nel cuore della Chiesa, nel cuore del mondo e nel cuore degli uomini. Ma questo non si ottiene con la forza: è un dono del Padre e Lui non lo nega mai a chi prega; e pregare…prega chi ama. È l’esperienza suprema di Dio.

CG – Mi dispiace, Padre, ma come si può vivere questa esperienza?

SB – L’esperienza di Dio costituisce il cuore della vita consacrata.

Quando cerchiamo l’origine della nostra vocazione, ovvero ciò che ispira tutta una vita di generosa dedizione al servizio di Dio e degli uomini, in definitiva si tratta di qualcosa di molto personale che, forse, non sappiamo nemmeno definire perché appartiene alla ordine delle intuizioni, della vita, mistero della fede e dell’amore. Ma è una presenza di “Dio con noi”, sentita intimamente, vissuta nella solitudine e nel contatto con gli uomini, che sempre ci accompagna e ci spinge, come una forza magnetica, a donare la nostra vita in ogni momento e con cuore pieno, per centrare tutto in Cristo.

In memoria del beato Dionigi

San-Dionisio-Cartujo.jpg Murillo

Nella giornata odierna, in cui si celebra la memoria del beato Dionigi il certosino, voglio offrirvi un suo scritto tratto dalla sua Opera omnia.

Ma voglio anche offrirvi l’immagine del dipinto che ho scelto come immagine di questo articolo. Esso si tratta di una tela realizzata dal pittore spagnolo Bartolomé Esteban Murillo, eccellente protagonista della pittura barocca spagnola durante il Siglo de Oro. Il dipinto, oggi conservato al Museo de Bellas Artes de Gran Canaria a Las Palmas, raffigura Dionigi il certosino con una penna in una mano ed un libro nell’altra in ricordo della sua fama come scrittore. In alto lo Spirito Santo conferisce solennità all’opera.

Ma ora ecco per voi il testo in cui si loda il Re dei Re.

Lode al Re dei Re

Il modo di invocare l’Altissimo nell’Ufficio divino lo impariamo dall’esempio dei condannati a morte, i quali, avendo che speranza di ottenere dal giudice una mitigazione o il dono della loro pena, si umiliano dinanzi a lui, si prostrano a terra, supplicano con molte lacrime, promettono riparazione ed emendazione del male fatto, e tutto questo per salvare la vita terrena. Ebbene, che cosa non dobbiamo fare noi, responsabili di molte colpe, per evadere la dannazione e la pena eterna, per ottenere i doni dello Spirito Santo nella vita presente e l’inestimabile gloria eterna? E non conviene sommamente che supplichiamo, lodiamo ed esaltiamo con grande umiltà, affetto e riverenza il Dio degli dèi, davanti al quale tremano il cielo e la terra ed il mare, e gli stessi angeli più sublimi si prostrano con timore? Certamente in vista della sua infinita bontà, maestá e superiorità, nonché della nostra miseria, viltà, colpe e povertà, dobbiamo presentarci a lui per fargli ossequi nell’orazione, nella salmodia e nel sacrificio della messa con profondissima umiltà, compunzione, riverenza, attenzione, raccoglimento e fervore. Prima di iniziare ogni ora dell’Ufficio dobbiamo raccogliere le nostre facoltà, entrare nel nostro cuore e allontanare ogni altro affetto o preoccupazione, per fissarlo in Dio, pensando alla sua immensità, dignità, presenza e misericordia, giustizia, e d’altro canto alle nostre miserie e peccati.

(De laude et commendatione vitæ solitariæ, art. XXI, Opera omnia, t. 38, p. 355)