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NEWS: E’ online il nuovo sito ufficiale della certosa San Josè

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Cari amici Cartusiafollowers, è con gioia immensa, che diffondo la notizia di questa novità e voglio condividerla con tutti coloro che mi seguono su questo blog. Sono lieto di annunciarvi un nuovo sito ufficiale dell’Ordine certosino, riguardante la certosa argentina di san Josè. Raggiungibile al seguente indirizzo: https://www.cartujasanjose.org/ 

In esso sarà possibile scorgere contenuti inediti, come testi, immagini e video molto accattivanti delle attività quotidiane della comunità monastica.

Vedendo questi, potremo ammirare lo svolgimento dell’attività claustrale svolta da una comunità alquanto numerosa e giovane, frutto di un lavoro incessante svolto dai primi certosini che giunsero in Argentina. Un seme, che ha dato i suoi copioso frutti!

La decisione presa dai vertici dell’Ordine, credo sia in linea con quello che io ho percepito in questi anni. In un’epoca, dove la società è fortemente minata nelle fondamenta risultando impoverita, i giovani hanno voglia e desiderio di cercare Dio attraverso una vita semplice basata sulla ricerca dell’essenziale. Pertanto entrare in comunicazione con le nuove generazioni, attraverso un nuovo accattivante sito internet, credo sia una scelta encomiabile, poiché potrà consentire ai giovani di entrare in contatto diretto con l’Ordine certosino, ritenuto apparentemente quasi etereo.

Un seme argentino: Dom Jorge Falasco (seconda parte)

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Prosegue, nell’articolo odierno, la testimonianza di Dom Jorge Falasco.

Ecco per voi la seconda parte dell’estratto di un suo testo.

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Verso la metà di settembre del 1977 decisi di ritirarmi in un luogo solitario e di trascorrere il resto della mia vita in compagnia della Madonna, dedicandomi solo alla preghiera. Avevo appena preso questa decisione quando, provvidenzialmente, seppi dell’esistenza dei Certosini. Arrivata l’ora degli esami, vedo un compagno di classe che invece di studiare scriveva una lettera. Gli chiesi a chi e perché scriveva durante gli esami. “Sto scrivendo ad un amico sacerdote che si trovava nella Certosa dell‘Aula Dei, a Saragozza, in Spagna”, ha risposto. Non avevo idea di cosa fosse un certosino e gli chiesi una spiegazione. “I Certosini sono monaci solitari che trascorrono la loro vita dedicandosi a tempo pieno alla preghiera. Sono monaci eremiti che vivono in comunità, ma ognuno nella sua cella”. Ecco! Questa è la mia vita!, ho risposto. Non avevo mai sentito parlare dei certosini. Nella biblioteca del Seminario ho trovato il libro “Estampas Cartujanas”, dove ho letto tutto ciò che era necessario sapere per prendere una decisione ferma e scrivere alla Certosa dell’Aula Dei.
La mia esposizione fu chiara e concisa: ho bisogno di un luogo adatto per la preghiera, tutto il resto che posso accettare, ma in funzione ea servizio della preghiera. Chiesi di essere ammesso come fratello (non volevo continuare a studiare, né mi sentivo particolarmente chiamato al sacerdozio). Mi hanno ammesso, ma a condizione che avessi un biglietto di andata e ritorno (per ogni evenienza). Anche il maestro dei novizi che ha risposto alla mia lettera era un medico. Ero felicissimo, pieno di gioia. Aveva trovato il tesoro nascosto, una perla di grande valore. La mia partenza dal Seminario è stata estremamente dolorosa. La cosa più dura e difficile è stato l’addio dell’Arcivescovo, perché per nulla al mondo avrebbe voluto lasciarmi andare: “Ti dico ‘non senza ispirazione divina’: resta finché non sarai ordinato diacono, poi vedrai”. Monsignore deciso. Ma non bastava: avevo già deciso e avevo l’appoggio del mio direttore spirituale. Il mio cuore è rimasto in Seminario fino ad oggi. La mia gratitudine non smetterà mai di crescere. L’11 ottobre 1977, alle cinque del pomeriggio, nell’Aerolineas Jumbo, lasciai la mia terra, la mia gente e le mie cose per iniziare una nuova vita, per il momento sconosciuta. Sono arrivato a Madrid il 12 ottobre all’alba. Senza perdere un minuto ho preso il treno per Saragozza. Già a Saragozza tutto era festa, luce e danza: l’intera città celebrava la sua Santa Patrona, la Virgen del Pilar, che è anche la Patrona di Hispanidad. Appena arrivato, il padre Priore mi ha detto, senza dubbio ispirato: “Non farai bene ad essere un fratello. È meglio che tu stia nel chiostro e ti orienti verso il sacerdozio, nella cella avrai tutto il giorno per pregare”. Questo cambiamento nei miei piani mi ha ferito, ma ho accettato con piacere e senza dire una parola. Ho iniziato la mia vita nel deserto. Dicono che sia molto dura, ma con la Vergine come compagna tutto è cucito e cantato. Solo che i certosini non mangiano mai carne, e mi ci è voluto molto tempo per abituarmi al pesce. Non fu così difficile alzarmi a mezzanotte per il mattutino perché ero abituato ai turni in ospedale. Presi l’abito monastico il 2 febbraio del 1978 (giorno di Presentazione del Signore), feci la professione il 2 febbraio del 1980 e fui ordinato sacerdote il 19 maggio del 1985.

Ho collaborato con il mio maestro dei novizi in tutto ciò che era necessario, soprattutto tutto ciò che riguardava lo studio e l’acquisizione di libri di filosofia. Il beneficio di essere passato attraverso il Seminario di Paraná e di aver acquisito le basi tomistiche e metafisiche di tutto il mio sistema dottrinale è incalcolabile. Non ho fatto altro che approfondire e sviluppare ciò che avevo imparato insieme al mio amato professore di Metafisica in soli sette mesi, dal 1985.
Sono stato in Spagna per 20 lunghi anni, che sembravano solo pochi giorni. Ho già fatto la mia vita spirituale, monastica e sacerdotale a Saragozza, vicino alla Virgen del Pilar. Ma in risposta ad un espresso desiderio del Papa e poiché c’erano diversi argentini nell’Ordine, e anche su richiesta della Conferenza Episcopale Argentina, un Capitolo Generale dell’Ordine decise di fondare una nuova certosa in Argentina. E mi hanno chiesto di entrare a far parte del gruppo dei fondatori (eravamo 2 padri e 2 fratelli). E così sono tornato nel mio paese l’8 luglio 1998, pronto a lavorare per la fondazione della Certosa “San José” (a Deán Funes, Córdoba) in tutto ciò che sarebbe stato necessario.

(Estratto da “Prehistoria de la Cartuja San José”, scritto da P. Jorge Falasco)

Un seme argentino: Dom Jorge Falasco

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Cari amici, nell’articolo di oggi vi ritorno a parlare della certosa argentina di San Josè, lo spunto mi viene offerto da un breve ma delizioso video. In esso potremo ammirare lo svolgimento dell’attività claustrale svolta da una comunità alquanto numerosa e giovane, frutto di un lavoro incessante svolto dai primi certosini che giunsero in Argentina.

Tra questi vi era Dom Jorge Falasco, di cui oggi parlerò.

Apprezziamo dapprima il video.

Ed ora attraverso la descrizione della sua vocazione, fatta in un suo scritto, Dom Jorge Falasco ci descrive il suo percorso particolare che lo condusse a ad essere uno dei fondatori della certosa di San Josè.

Uno dei primi semi che hanno fatto germogliare questa fervida certosa!

Premesso che, Jorge Falasco nacque nel 1947, da subito fu affetto da crisi epilettiche manifestatasi fino ai due anni di età, allorchè scomparvero, improvvisamente, dopo una visita al santuario di Nostra Signora di Luján. Successivamente egli si dedicò agli studi che lo avrebbero condotto a diventare un medico cardiologo, ecco la narrazione degli eventi succedutisi e che sconvolsero la sua esistenza.

Ho diviso in due parti la sua testimonianza.

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Prima parte

Un sabato di fine 1976 un amico mi chiama per incontrare alcune monache carmelitane in via Ezeiza, a Buenos Aires. Visto che era sabato e ho approfittato del weekend per leggere, allenarmi e aggiornarmi, ho cercato di evitare l’impegno e di mandare un altro medico. Inoltre, di solito non ci si prendeva cura dei pazienti a casa. Ma il mio amico ha insistito e mi ha convinto. Nel mentre stavo facendo un elettrocardiogramma sulla ragazza più giovane, circa quanto la mia età, lei improvvisamente e inaspettatamente mi ha chiesto cosa avrei fatto della mia vita. Non sono riuscito a darle una risposta chiara e precisa e lei, vedendo la mia esitazione, mi ha convinto ad accettare di recarmi per qualche giorno al monastero benedettino di Luján per mettere in ordine i miei propositi. La Madre Priora, che era presente, acconsentì e mi promise che in 24 ore avrebbe organizzato tutto per me. Sarebbe stato un modo per ringraziare i miei servigi. Pochi giorni dopo sono partito per il Monastero di San Benito, a Luján. Lì sono stato ricevuto dal suo abate, Dom Martín de Elizalde (attuale vescovo di Nueve de Julio). Sono stati cinque giorni intensi (il tempo mi è sembrato di più). Lì ho incontrato un seminarista del Paraná che stava facendo il suo ritiro prima della sua ordinazione diaconale. Appena mi ha visto e mi ha fatto alcune domande, mi ha convinto ad andare in Paraná. L’idea mi sembrò buona e gli dissi di farmi incontrare il Vescovo del Paraná, che in quel momento si trovava a Buenos Aires. Non sarebbe stato facile perché oltre ad essere arcivescovo di Paraná, era vicario militare e presidente della Conferenza episcopale. Due giorni dopo fui convocato per un incontro con il vescovo Adolfo Servando Tortolo, al Collegio Champagnat quella stessa notte. Ero lì nel tempo e nella forma. Mi sono fermato a vederlo dopo aver aspettato il mio turno dietro alcuni generali e brigatisti. Mi ha molto colpito il suo vestito: con tonaca rossa, zucchetto, fusciacca… Non avevo mai visto un vescovo da vicino. Fu breve e spedito: dovevo lasciare tutto il prima possibile ed entrare in Paraná. Ed è così che il 1 marzo 1977, dopo aver trasferito le quote dell’Unità Coronarica ai miei colleghi e i miei beni a mia sorella, ho preso l’autobus a Retiro per il Paraná. non sarei tornato più indietro. Sono arrivato in seminario all’alba. Per la prima volta mi trovavo in un ambiente corretto ecclesiastico. Il Padre Rettore mi ha fatto un progetto personale per fare due anni di filosofia in uno. Vale a dire, sono entrato direttamente al secondo anno e ho dato gratuitamente le prime materie. La mia gratitudine al Seminario è immensa. In sette mesi ho fatto due anni di Filosofia. Non ho mai studiato così tanto e con così tanto frutto. Il mio insegnante di metafisica Luis (Lucho) Melchiori mi ha dedicato lunghe ore con indicibile pazienza. Ho conosciuto, apprezzato e amato San Tommaso. La dottrina dell'”esse” come atto dell’essere e la sua applicazione allo studio della realtà mi ha dato le basi necessarie e sufficienti per dare solidità e stabilità non solo alla mia fede ma anche a tutte le conoscenze acquisite nella mia vita universitaria e professionale. Ho anche collaborato con il Seminario Minore impartendo agli studenti corsi di Anatomia e Fisiologia. In Seminario mi sono fatto grandi e cari amici, oggi alcuni di loro vescovi. Non ho parole per ringraziare questo trattamento che la Chiesa mi ha riservato all’inizio della mia vita consacrata.

Segue nel prossimo articolo…

(Estratto da “Prehistoria de la Cartuja San José”, scritto da P. Jorge Falasco)

Una testimonianza dall’Argentina

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Voglio ringraziare un amico cartusiafollower, che dall’Argentina ha voluto inviarmi un testo sulla sua esperienza fatta in certosa, è mio piacere proporre il suo scritto a tutti voi.

Cari amici amanti della certosa,

tra quelli di noi che ammirano l’Ordine certosino, molti di noi hanno avuto l’onore e il privilegio di aver vissuto per alcuni giorni in uno dei suoi monasteri. Dopo aver fatto diversi ritiri nella Cartuja San José, in Argentina, scrivo questa lettera per poter condividere questo dono con coloro che non hanno potuto stare in una Cartuja. Ci sono tre citazioni bibliche che mi vengono in mente quando penso alla mia esperienza. La  prima è Lc 4,1-2: «Gesù, pieno di Spirito Santo, tornò dal Giordano e per quaranta giorni fu condotto dallo Spirito nel deserto (…)». Come è noto, salvo poche eccezioni, si può andare a fare un ritiro alla Cartuja solo se si aspira ad abbracciare quel modo di vivere. Per 16 anni sono stato un’aspirante “cronico”, per vari motivi a volte sentivo di avere quella vocazione ed a volte no. E in quei 16 anni ho fatto diversi ritiri, 8 in totale, di circa 5 giorni ciascuno. Il che assomma ad un totale di circa 40 giorni. Forse ne erano di più, ma mi piace pensare che fossero 40; Mi aiuta a capire che non è stato un caso che ci sono andato, non è stato un errore nella mia storia personale. Ci sono andato per la prima volta quando avevo 17 anni, gennaio 2000, per una visita che è durata poche ore. Sapevo che dovevano passare almeno 4 anni per entrare per due motivi: i minori di 21 anni non sono accettati e ci sono voluti almeno 4 anni prima che il monastero fosse terminato. I 4 monaci fondatori vivevano in una mini-certosa provvisoria (ora si chiama “Casa San Bruno” e ha alcune dipendenze dei frati). Il luogo in cui ora sorge il monastero era a quel tempo solo terra rimossa ed alcune fondamenta. È così che mi sentivo anch’io, come qualcuno in costruzione. In quei 4 anni sono cresciuto con il monastero. Ho fatto 3 ritiri nel 2001, 2002 e 2003. Ma prima che il monastero fosse finito e prima di compiere 21 anni, molti dubbi mi hanno portato a rimandare il mio ingresso a tempo indeterminato. Invitato dal Padre Rettore (non c’era il priore allora) ho visitato nuovamente la Certosa nel 2006 e 2007, ma non come aspirante. Infatti non ho occupato le celle dei monaci, ho soggiornato nella locanda. Sono stati due ritiri molto certosini, ma ho seguito il mio ritmo e il mio programma. E poi ho smesso di andare. Nel 2011 ho attraversato di nuovo la Certosa quando con la mia famiglia siamo andati a vedere il rally di Dakar a Córdoba. Questa volta sono potuto andare con mia madre e due fratelli. Erano scioccati. Uno dei miei fratelli in realtà è ateo e un po’ anticlericale, ma anche oggi, quando si parla della Certosa, dice sempre che “sono qualcosa di diverso”. Anche quella visita mi ha colpito in modo speciale. Stavano per ricevermi, ed io mi sentivo più maturo. Dopo avermi ricevuto, nel gennaio 2013 ho deciso di fare un altro ritiro ed entrare. Sarebbe stato il mio sesto ritiro in Certosa, ma per la prima volta lo avrei fatto nella cella di un monaco, più precisamente nella cella di un padre. In quel ritiro, il maestro dei novizi ed io ci accordammo per una data di ingresso come postulante per luglio di quell’anno, perché avevo dei debiti da pagare. Ma ad aprile un evento doloroso nella mia famiglia e che ha coinvolto la chiesa (di cui preferisco non approfondire) ha fatto sì che la mia presenza all’esterno continuasse ad essere importante. E ancora una volta ho rimandato il mio ingresso. Questo doloroso evento di cui parlavo era un prima e un dopo nella religiosità della mia famiglia. Era una crisi. Ha colpito anche me. Ho avuto una profonda depressione e ho anche iniziato a prendere droghe. E una volta che le nuvole hanno cominciato ad aprirsi dopo la tempesta, qualche anno dopo, ho fatto i miei ultimi due ritiri spirituali nella Certosa, nel 2015 e nel 2016. Ho occupato le celle dei fratelli. E nel 2016 ho visto che quello non era il mio posto, infatti sono partito qualche giorno prima del previsto. O forse è il mio posto, ma personalmente non ero al meglio. Cinque anni fa sono stato in quella terra sacra per l’ultima volta, e credo che non sia mai passato così tanto tempo tra una visita e l’altra da quando ci sono andato per la prima volta. In questi 5 anni il contatto con i monaci è diminuito. Ricordo che nei primi anni ogni volta che li chiamavo al telefono mi rispondevano e potevo parlare con loro. Ora la mia comunicazione con loro è una e-mail ogni tanto con il padre maestro dei novizi, l’unico con cui continuo a essere in contatto. Visite come quelle che ho fatto nel 2006 e nel 2007 sono ormai impensabili. Così come sono molto diverso da quell’adolescente di 17 anni che ero alla mia prima visita, anche la Cartuja San José non è la stessa. Maturò anche, si assestò, e di conseguenza chiuse anche di più il recinto per somigliare all’ideale che aveva San Bruno quando fondò a Chartreuse ed in Calabria. Ecco perché il contatto è diminuito. Stanno pregando. A volte viene in mente l’idea di chiedere un’altra esperienza, ma a questo punto entrare sarebbe più difficile. Ho un lavoro stabile a cui dovrei rinunciare se volessi entrare, e se non funzionassi come certosino dovrei ricominciare da capo in un mondo in cui trovare lavoro è sempre più difficile, soprattutto per qualcuno vicino ai 40 anni. E’ la mia famiglia, che nella mia lontana adolescenza ho visto con occhi così buoni che mi consacro come religioso, in questo momento non lo vedrei lo stesso. Senza contare che la famiglia è cresciuta e ora ho dei nipoti. Ma anche se non fossi entrato, la certosa mi era rimasta impressa. Il che mi porta alla seconda delle 3 citazioni bibliche: “Se ti dimentico, o Gerusalemme…” (Salmo 137). Nessuno che ci sia stato se ne va senza aver imparato qualcosa. Tutti noi che passiamo e partiamo portiamo con noi un po’ di Certosino. Nel mio caso è stato distaccare la mia fede dai segni sensibili. Lì ho capito che Dio c’è ma noi non lo vediamo, ci ascolta anche se non parliamo e parla in silenzio. L’ho scoperto soprattutto nel silenzio della cella. Ho anche un’esperienza liturgica molto ricca con me. La Messa in rito certosino, così semplice e con tanti silenzi, con quell’equilibrato accostamento di latino e volgare, e il Mattutino e le Lodi a mezzanotte erano una vera scuola di preghiera. Non dimenticherò mai la Cartuja. È in me come la Terra Promessa era nel cuore di Mosè. E questo mi porta alla terza citazione biblica, che è Dt 34,4. Sento che a me, come Mosè, Dio mi dice: “Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non ci entrerai”.

un ex aspirante certosino

Reportage dall’Argentina

Vista satellitare

Veduta satellitare della certosa di San Josè

Cari amici lettori di questo blog, eccoci giunti al termine di questo 2019 anno nel quale come ormai tutti sapete si è celebrato il decennale del blog. A questo evento celebrativo, ha fatto da contraccolpo la triste notizia della chiusura della certosa di Evora, a causa della scarsità di vocazioni. Ci conforta aver appreso proprio dalla voce di Dom Antao Lopes, il Priore di Santa Maria Scala Coeli, che la mancanza di vocazioni è un problema principalmente europeo. Egli infatti ci ha fatto notare, in un’intervista, come nel continente americano, e più precisamente in Argentina si stanno costruendo nuove celle nella certosa di San Josè, che al pari delle certose giovani sorte in Brasile e Sud Corea, appaiono più fiorenti di vocazioni, e risultano in espansione rispetto a quelle del vecchio continente.

E’ per questo motivo, che ho pensato di concludere il 2019, con un focus sulla certosa argentina di San Josè. Che sia di auspicio per le nuove vocazioni che ci auguriamo verranno in futuro.

A seguire una preziosa intervista del 2015 all’architetto Federico Shanahan che fu incaricato per la progettazione e costruzione della certosa argentina.

Federico Shanahan

L’architetto Federico Shanahan

Essa sarà divisa in due parti, oggi la prima parte mentre la seconda sarà pubblicata domani. Andiamo dunque a scoprire le origini del seme che ha fatto germogliare questa fiorente certosa latinoamericana.

Intervistatore: L’Ordine della Certosa ha affrontato la chiusura dei monasteri in Europa con la timida apertura di nuove case in territori che le erano estranei. Nel tuo caso, non ricevi niente di più e niente di meno che la commissione di essere colui che dà le tracce per la terza fondazione americana, che è anche la prima in America Latina. Come nasce questa iniziativa e come ti arriva la proposta?

Shanahan: La realtà è che sono un uomo di fede e, negli anni ’90, ci siamo uniti a un gruppo di amici, tutti uomini e donne di fede, per aiutare i monaci che volevano venire dalla Spagna all’Argentina. Così fondammo l’associazione Paradisus Mariæ, di cui ero vicepresidente e, quando i monaci decisero di venire qui per vedere posti diversi, toccò a me rappresentarli. Fu un mio vescovo di famiglia ormai deceduto, mons. Lucas Donnelly, che mi portò alla Conferenza episcopale, dove tenni un incontro con diversi vescovi per spiegare un po ‘qual era la ragione che portò i monaci a fondare in Argentina. Durante quell’incontro, monsignor Donnelly riferisce di possedere terreni nell’area del suo vescovato, a Cordova, che aveva salvato per una congregazione contemplativa. Poco dopo quell’incontro, i monaci mi chiamano e mi dicono che vogliono lavorare con me.

Intervistatore: Conoscevi in precedenza il modo di vivere dei monaci certosini? Cosa hai provato quando hai ricevuto la fiducia dell’Ordine per questa nuova sede?

Shanahan: Quando i monaci mi hanno offerto di fare il monastero, volevo essere prima di tutto cauto, perché non conoscevo troppo bene il loro stile di vita e ho anche iniziato a sviluppare un progetto a Buenos Aires, dove abitavo di solito a quel tempo, così che la distanza mi avrebbe reso molto difficile capire la loro vita. Pertanto, all’inizio ho proposto di fare un’esperienza in cui lavorare insieme per un anno, dal momento che ciò che doveva essere fatto non era di tale portata e quindi vedere se ci fossimo davvero intesi.

Intervistatore: È noto che, prima di affrontare la commissione, ha deciso di visitare diverse certose europee. Tutti rispondono a un modello simile, ma allo stesso tempo ognuno è molto diverso dal resto. Quali sono stati i tuoi modelli di ispirazione più diretti?

Shanahan: ho visitato vecchie case e nuove case. Tra le nuove ho alloggiato in una certosa femminile in Italia e l’unica in Germania, che è degli anni 60. Ma è vero che, all’inizio, ho anche attraversato altre case classiche, come la Grande Chartreuse in Francia. Più tardi, durante la costruzione, ho visitato quella che una volta era Aula Dei, ma anche le certose di Burgos e Jerez. Sebbene fossimo in piena costruzione, che ci ha impiegato più o meno cinque anni, ho trovato interessante vedere i luoghi per verificare ciò che era corretto e in conformità con ciò che l’ordine aveva sempre fatto.

Intervistatore: Cosa possiamo trovare delle altre certose in questa a San José?

Shanahan: una delle sfide più rare e difficili è quella di cercare di rispettare determinati schemi e criteri che hanno funzionato per secoli. Come architetto, puoi ricreare un po’, ma in linea di principio devi rispettare determinate planimetrie. Rispetto, non copia, perché in realtà ciò che era in altre certose non veniva copiato, ma il funzionamento degli impianti era rispettato. D’altra parte, per quanto riguarda la parte dell’immagine, deve essere chiaro che questo è un altro paese, che questa non è l’Europa, dove le costruzioni delle certose furono molto prolungate nel tempo e furono autentiche opere d’arte. Oggi non puoi fare ciò che le certose di Siviglia, Jerez o Burgos, in cui lavoravano intere famiglie che avevano il talento di geni che sapevano lavorare la pietra, il rilievo, i pavimenti specifici … Erano meraviglie che, con la tecnologia semplicistica di oggi, non è possibile replicare; in Europa sarà ancora possibile, ma in Argentina costerebbe una fortuna e ciò lo rende impossibile.

pianta della certosa di San Josè

Pianta della certosa di San Josè

Intervistatore: Visitare questi monasteri ancora attivi non ti lascerebbe indifferente alla severa austerità della vita che i certosini praticano nella loro vita quotidiana. In che modo questo ascetismo si è riflesso in Deán Funes? Perché è stata scelta questa località?

Shanahan: Conoscevo anche il background che vi era prima delle nuove fondazioni negli Stati Uniti e poi in Brasile. La Certosa degli Stati Uniti è semplice ma molto moderna ed è troppo rara per i monaci, specialmente quelli che non vivono in quella casa; quando la vedono nelle fotografie sono inorriditi, perché i monaci sono molto classici in se stessi e in ciò che è estetico cercano qualcosa di più tradizionale. La Certosa del Brasile non ebbe buoni risultati di architettura, perché in realtà non fu costruita da un architetto ma piuttosto da un monaco che, soprattutto, cercava l’economia. Nella mia lettera, nella parte dell’immagine, edilizia e altro, la prima situazione che mi è sembrata molto importante è stata quella di dargli una grande semplicità. Perché nel mondo esterno si può vivere in una casa che ha tensioni e proposte interessanti, ma si entra e si esce da quella casa e, alla fine, quando ci si ritorna ogni giorno, si diverte, non ci si stanca di esso. Un’altra cosa molto diversa è quella di costruire una casa in cui sarai dentro per tutta la vita e uscirai solo per andare dal dottore.

Pertanto, quando ha parlato con il Generale dell’Ordine, abbiamo visto chiaramente che sia l’ambiente che il monastero dovevano essere luoghi che davano un po ‘di pace, stabilità, serenità e semplicità. Ad ogni modo, è vero che abbiamo costruito la Certosa e riparato i suoi dintorni, ma sia la Certosa che l’ambiente che finiscono di dare carattere sono i monaci quando passano per vivere e lavorare al loro interno. Ho sempre visto chiaramente che i monaci furono quelli che completarono la costruzione. La realtà è che le opere d’arte viste in Europa danno ai monasteri uno stile che potrebbe piacere o meno, ma è chiaro che li arricchiscono notevolmente e conferiscono loro un carattere estremamente religioso. Tuttavia, quando costruisci qualcosa di semplice, tutto ciò che puoi fare è impostare un quadro che i monaci completeranno.

Intervistatore: Cartusia nunquam reformata quia nunquam deformata, i certosini proclamano con orgoglio. Tuttavia, ci sono aspetti che sono stati sostanzialmente modificati dalle riforme avviate con il Concilio Vaticano II, quali differenze hanno segnato il rinnovamento postconciliare delle tracce del monastero rispetto alle certose storiche?

Shanahan: La verità è che non conosco troppo bene questa domanda, anche se è vero che questa Certosa in Argentina ha semplificato molti spazi che in Europa erano divisi al momento della loro creazione. Non c’è più tanta separazione tra Padri e Fratelli. Li abbiamo tenuti separati solo qui nei chiostri dove si trovano le celle, che ce n’è una per fratelli e una per padri, perché hanno orari diversi e un ritmo di lavoro diverso che non può interferire. Ma non c’è più separazione; vanno tutti nella stessa sala capitolare, nello stesso refettorio, nella stessa chiesa e partecipano tutti alla messa. Gli uffici sono fatti con il loro rito, che è dell’XI ° secolo, e li cantano in latino, ma la messa conventuale è in spagnolo e rivolta verso il pubblico, quindi un altare esente per la chiesa è stato realizzato in pietra. Uno dei momenti più interessanti è quello della comunione, poiché l’intera comunità si avvicina all’altare e si comunicano uniti nello stesso tempo, quindi questo spazio dell’altare dovrebbe avere una grande profondità.

Intervistatore: Come hai risolto in questo caso elementi così eminentemente simbolici nella vita cenobitica come gli spazi della comunità?

Shanahan: Sin dall’inizio, la costruzione del monastero mi è sempre sembrata un’opera di enorme responsabilità. La prima cosa che mi hanno detto i monaci è che volevano che facessi loro una casa che dura non meno di cento anni e ciò non posso garantirlo. Non posso costruire un monastero come quelle meraviglie delle certose in Europa. Sapevo che la chiesa era un problema fondamentale, poiché era l’unico posto che doveva iniziare a evidenziarlo in volume, nella sua posizione e in materia di spazio interno, in modo che rispondesse a quella che è la presenza del Signore all’interno di quell’edificio. La chiesa è il luogo in cui il monaco si unisce alla comunità, partecipando all’unità di tutti nel lodare Dio. Quindi questo posto deve dare un forte sentimento di unità; la sensazione di uno spazio in cui la ricerca di Dio può essere coperta, e per questo abbiamo dovuto dare una versione molto concreta di un volume d’aria, di una spazialità in cui i monaci siedono alla presenza di Dio e allo stesso tempo uniti come famiglia. Ci sono anche altri due punti della casa che mi preoccupano, sebbene fossero di diversa importanza, essi sono la sala capitolare e il refettorio, che vengono utilizzati solo la domenica e le festività specifiche. Non hanno la stessa vita di tutti i giorni della chiesa, ma sono anche luoghi di incontro, dove si trova la famiglia, e anche a loro dovevo dare importanza, calore e spazialità.

entrata

Verso l’entrata

Intervistatore: Come comprendi quell’altro spazio così essenziale a livello emotivo per il monaco, che è la foresteria?

Shanahan: Questo è un altro punto che trovo molto interessante, specialmente nel mondo di oggi, poiché è il luogo di visita delle famiglie. Perché in precedenza c’erano famiglie enormi ed era molto normale che uno o più bambini diventassero religiosi. Ma nella società odierna questi mandati non esistono e esiste un concetto di famiglia e unione con i genitori che rende molto raro per una persona voler entrare nella certosa per vivere da sola. Non è necessario che il monaco provenga da una famiglia di fede; Ci sono alcuni che si sono appena convertiti alcuni anni fa.

Ma, in ogni caso, c’è un contesto molto interessante: tuo figlio entrerà in un monastero di chiusura, dove potrai vederlo una volta all’anno, per due giorni di fila e nient’altro. Questo è emotivamente molto forte e soprattutto nei primi anni in cui, per rafforzare la vocazione, è importante non parlare così tanto. Pertanto, una preoccupazione generale era quella di creare un ostello più attuale. Prima, le foresterie avevano un concetto molto freddo e non erano altro che piccoli parlatori. Per questo motivo siamo giunti alla conclusione che questa doveva essere una classica casa della classe media, niente di speciale; una casa davvero confortevole, dove le famiglie si sistemano e si sentono a proprio agio, così che il monaco crea anche la sensazione di lasciare il suo solito posto per andare a visitare la sua famiglia. La foresteria qui ha un vero sapore di casa, dove le famiglie possono leggere un libro nel calore di un camino. Tutto questo ambiente è molto importante, poiché l’incontro del monaco con la sua famiglia è un momento molto forte emotivamente e devi far partire la famiglia con un buona sensazione e non preoccupata.

Intervistatore: Com’è concepita la cella certosina nel XXI° secolo?

Shanahan: Dopo la chiesa, la cella è il secondo posto fondamentale per il monaco; È lì che si incarna la sua spiritualità, dove raggiunge la via dell’eremita e dove Dio deve essere abbracciato molto forte, perché quella cella non è qualcosa che tutti possono tollerare, poiché ci sono molte cose su di te. Quindi, la cella era una questione delicata, dal momento che bisognava fare qualcosa di piacevole, molto soleggiato, che dava un certo senso di tregua. Ero molto interessato a dove fossero orientati, così che il monaco ebbe anche la sensazione di essere spettatore di un grande paesaggio pieno di montagne. Il monaco lascia la cella solo per incontrare la vita della comunità negli uffici e, per lui, il ritorno in cella è come tornare a casa dopo il lavoro. Ecco perché volevo che la cella avesse un certo sapore di casa, che ti ricordasse quando torni a casa in inverno e fa freddo, sebbene l’esperienza sia molto più forte perché la cella diventa completamente solitudine.

Intervistatore: E a livello generale, come sono state concepite le strutture? Inserendoli in un centro il cui modo di vivere si sviluppa pressoché identico a quello dell’undicesimo secolo, quali nuovi materiali e tecnologie collocano questo progetto nella contemporaneità in cui è stato gestito?

Shanahan: L’edificio ha anche altri settori, come cucine, lavanderie, luoghi per cucire abitudini e dispense per conservare il cibo. Questi luoghi devono avere una buona installazione ed essere perfettamente attrezzati, perché è lì che ci saranno grandi macchine, come le macchine per curare i formaggi e conservare le verdure, o la macchina per l’imballaggio per il vino, poiché a volte i monaci hanno i propri raccolti. Questi spazi sono il luogo di lavoro dei fratelli monaci e sono integrati nel contesto del monastero. Altre obbedienze che hanno a che fare con la campagna, come la falegnameria, si trovano nei vecchi capannoni e tutto ciò che necessita di buone strutture per l’elettricità e l’acqua. Per il resto, l’edificio è stato progettato con grande semplicità e austerità, ma sono stati utilizzati materiali di buona qualità e durevoli, come posate di pietra artificiale, pareti di massi, marmi per pavimenti, pareti di mattoni o legno di cedro e cipresso per soffitti e mobili.

Dossier certose attive: San Josè

Dossier certose attive:

San Josè

Voliamo idealmente in Sudamerica, e precisamente in Argentina per conoscere da vicino la certosa di San Josè presso Deán Funes. Fu durante lo svolgimento del Capitolo Generale del 1995, che la Conferenza Episcopale Argentina fece racapitare all’Ordine certosino la richiesta di poter fondare nel paese un nuovo monastero. L’istanza fu accolta, e fu deciso di costituire una nuova certosa nel continente americano dopo quella statunitense e quella brasiliana. Nel 1997 furono inviati due Padri e due Fratelli certosini, i quali furono ricevuti da Mons. Estanislao Esteban Karlic, con l’intento di trovare un luogo e verificarne le condizioni ideali per l’insediamento della vita eremitica della comunità. Furono offerti vari siti dove potersi stabilire: Bariloche, San Martín de Los Andes y San Juan, ma la scelta fu diversa.

Fu scelto infatti  un territorio maggiormente idoneo alla vita contemplativa certosina, un vero desertum, situato ai piedi della Sierra de Salsa Punco, a circa 7 km dal città di Deán Funes, a nord di Cordoba, su un terreno donato dal vescovo Luca Donnelly, considerato vero co-fondatore della Certosa San Jose. La struttura, progettata e realizzata dall’architetto Federico Shanahan si estende su di una superficie di cinquemila metri quadri, ed è stata concepita seguendo i canoni della solidità e della austera bellezza conciliandoli con la modernità e con innovativi criteri antisismici, ed è in grado di ospitare venti monaci. Difatti essa è composta da dodici celle per i padri ed otto per i fratelli conversi. Il 15 ottobre del 1998, il cardinale Raúl Francisco Primatesta ha benedetto le prime strutture dando così l’inizio formale della attività monastica a Deán Funes, successivamente a completamento dei lavori il 19 marzo del 2004 alla presenza del Vescovo della Prelatura Aurelio J. Kühn, ed al Nunzio Apostolico, Mons. Adriano Bernardini è stato consacrato e benedetto l’altare maggiore della chiesa della certosa con rito solenne. E’ così presente in Argentina un vero faro di spiritualità, in grado di poter accogliere le svariate richieste di vocazione di giovani dell’America Latina, che permetterà loro di poter rimanere nel proprio continente. Diamo ora un occhiata alla certosa di San Josè, con immagini realizzate durante la sua costruzione, ed altre più recenti effettuate al completamento dei lavori.

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